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Una proposta di riforma istituzionale

L’’esito del referendum di giugno, che ha bocciato la riforma del centro-destra, non esclude la possibilità di revisioni della Costituzione, purché ampiamente condivise e di portata limitata. Sarebbe necessario intervenire sulle regole istituzionali del federalismo fiscale, introdotte dalla riforma del Titolo V del 2001, la cui applicazione si è rivelata eccessivamente complessa. In questa direzione, una proposta che ripensa la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, le modalità di finanziamento dei governi locali, il ruolo delle Province e corregge il bicameralismo perfetto.

Il referendum sulla riforma costituzionale approvata dalla precedente maggioranza di centro-destra ha chiaramente respinto quella riforma, ma ha anche bocciato l’’idea che si possa attuare riforme costituzionali a semplice maggioranza non qualificata e con un campo di intervento troppo vasto. L’’attaccamento dimostrato dagli italiani alla Costituzione repubblicana non esclude la possibilità di modifiche, purché limitate e ampiamente condivise dalle diverse forze politiche (metodo questo indicato dallo stesso Presidente della Repubblica Napolitano).
L’’area nella quale sembra urgente un intervento è quella delle regole istituzionali del federalismo fiscale. La riforma del Titolo V, approvata due legislature fa senza una sufficiente condivisione, contiene principi che l’’esperienza di questi anni dimostra di difficile traduzione in un corpo di leggi ordinarie chiaro e coerente. Intervenire su quei principi ha una ricaduta sulle norme costituzionali che riguardano la procedura di approvazione delle leggi di spesa e di approvazione del bilancio.

Le competenze dello Stato e delle Regioni

Nella nostra proposta andrebbe modificato l’’art. 117 della Costituzione, definendo innanzi tutto in modo chiaro al secondo comma le materie in cui vi è legislazione esclusiva dello Stato (e al riguardo può essere un testo valido, almeno come punto di partenza del dibattito, quello del medesimo comma che era inserito nel testo respinto dal referendum). Al terzo comma dovrebbe essere semplicemente specificato che “sono materia di legislazione concorrente tutte quelle non indicate al comma precedente“. Continuando a specificare che nelle materie a legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservati alla legislazione dello Stato.
Verrebbe quindi soppresso il quarto comma dell’’art. 117: quello riguardante le competenze esclusive delle Regioni. Verrebbe così eliminata la spada di Damocle che assegnava alla legislazione regionale tutto quello che si fosse dimenticato di definire nelle competenze esclusive dello Stato e nelle competenze concorrenti (quest’’ultime anzi con la nostra proposta non necessitano più di una elencazione); si elimina definitivamente l’’incentivo a immaginare possibili materie che a priori non possano interessare i cittadini italiani in quanto tali, ma solo in quanto residenti in una specifica regione; si permette su un campo vastissimo di materie l’’intervento regionale (il federalismo), lasciando allo Stato solo la definizione dei principi generali.

Il finanziamento dei governi locali

Per evitare una potenziale lettura del federalismo in chiave angusta ed egoistica (respinta pure dall’’esito del referendum in quasi tutte le regioni italiane), bisognerebbe eliminare dall’’art. 119, secondo comma, le parole “riferibile al loro territorio“. Ossia i criteri di compartecipazione al gettito dei tributi erariali dovranno essere definiti di volta in volta dalla legge ordinaria dello Stato, e non predefiniti, senza alcuna valutazione economica, per sempre nella Costituzione. Nello stesso comma si dovrebbe reintrodurre, prudentemente, lo strumento dei trasferimenti statali (dimenticato o censurato nell’’attuale testo costituzionale) tra le possibili modalità di finanziamento delle funzioni attribuite a Comuni, Città metropolitane e Regioni (come avviene in tutti gli stati federali di cui si ha notizia). La Costituzione deve indicare un insieme ampio di strumenti di finanziamento, senza esclusioni a priori, il cui superamento, se dovessero sorgere esigenze diverse, richiederebbe poi nuove revisioni costituzionali. Sarà compito delle leggi ordinarie stabilire quali modalità di finanziamento utilizzare e i criteri di distribuzione delle risorse tra le autonomie locali.

Superare il bicameralismo perfetto senza confusione

Fatta chiarezza nelle competenze legislative dello Stato e delle Regioni, ed escluse derive del federalismo fiscale verso visioni egoistiche e non responsabili, si può cercare di definire i compiti di Camera e Senato, correggendo il bicameralismo perfetto per evitare una eccessiva duplicazione di esami (ma senza i barocchismi della riforma del centro-destra).
I provvedimenti legislativi dovrebbero essere ancora soggetti alla lettura di ambedue le Camere; però, per i provvedimenti nelle materie di competenza esclusiva dello Stato, per la legge e la manovra di bilancio (come avviene in moltissimi paesi) e per tutti i provvedimenti con oneri (o con oneri significativi), sarebbe la Camera dei deputati ad esaminare per prima il provvedimento e, nel caso non si pervenisse in prima lettura a un testo comune, ad avere l’’ultima parola. Con procedura simmetrica, il potere decisionale del Senato si eserciterebbe, invece, maggiormente sulle materie a competenza concorrente dello Stato e delle Regioni, quindi, sui provvedimenti che definiscono i principi generali ai quali si devono attenere le Regioni nella loro vasta attività legislativa. Per migliorare il coordinamento legislativo tra Stato e Regioni il Senato dovrebbe essere integrato (senza potere di voto) dai ventuno rappresentanti delle assemblee regionali. Ciò non implica assolutamente che il Senato divenga un luogo di coordinamento delle politiche a livello degli esecutivi, cosa ben diversa dal coordinamento a livello legislativo: non è necessaria quindi la presenza di rappresentanti delle altre autorità locali (ad esempio, i Comuni), che non hanno poteri legislativi. Per il coordinamento tra governo centrale e governi locali non è certo il Parlamento la sede adatta. Occorrerà invece potenziare le istituzioni esistenti, quali la Conferenza Stato-Regioni-Autonomie locali)
La migliore suddivisione di competenze tra Camera e Senato, per la quale alla prima assemblea verrebbe riconosciuto the power of the purse, e quindi pregnante controllo politico sul Governo, mentre alla seconda una specializzazione nelle regole ordinamentali alle quali dovranno sottostare anche gli organismi locali, permette una riduzione della pletorica rappresentanza della Camera dei deputati, dai 630 rappresentanti (inferiore solo a quella della Camera dei comuni britannica), ad esempio a 518 (valore che la pone in settima posizione nel panorama internazionale, pur sempre superiore ai 435 rappresentanti dell’’analoga assemblea degli Stati Uniti).

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Abolire le Province come organo politico e istituire le Città metropolitane

Per una migliore organizzazione delle autonomie locali, caratterizzate oggi da una sovrabbondanza di organi politici, si potrebbe anche (ma probabilmente è molto difficile coagulare su questo punto la volontà delle forze politiche sia di maggioranza sia di opposizione) modificare l’art. 114, ai commi 1 e 2, eliminando il riferimento alle Province (che verrebbe espunto anche da altri articoli della Costituzione dove ora è presente). Le Province cesserebbero così di essere un organo di rappresentanza politica, resterebbero soltanto come espressione del decentramento amministrativo dello Stato centrale ed, eventualmente, delle Regioni. Inoltre, si darebbe potestà alle grandi città (da definire tali con legge dello Stato) di articolarsi in Municipi e di costituirsi, con la partecipazione di altri comuni, in Città metropolitane. Nell’’art. 118, espunto il termine Province, verrebbe completata l’attribuzione delle funzioni amministrative dello Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, specificando che lo Stato favorisce il decentramento amministrativo a livello provinciale.
Last, but not least, per essere sicuri che future, eventuali, riforme costituzionali siano largamente condivise, si dovrebbe innalzare, nell’’art. 138 della Costituzione, la maggioranza richiesta in ciascuna Camera nella seconda votazione ai due terzi dei suoi componenti (e quindi ai tre quarti quella per la quale non si fa luogo a referendum confermativo). I dettagli della proposta possono essere esaminati nell’’articolato allegato.

Riflessioni sulle riforme minori, di Antonio Fiori

Ci sono alcune riforme di cui si parla poco, che si infilano ogni tanto in qualche elenco o discorso ma alle quali la politica e i giornali non dedicano attenzione sufficiente (non lavoce.info, che ne ha dato invece conto in più occasioni). Mi vorrei ora brevemente soffermare su alcune, con l’auspicio di una ripresa d’interesse in merito: 1) riforma delle Comunità Montane; 2) accorpamento dei micro Comuni; 3) riforma (o soppressione) delle Province; 4) soppressione della Corte dei Conti.

Riforma delle Comunità Montane

Sono attualmente 138 (per un totale di 4.201 Comuni) e furono introdotte nel nostro ordinamento con una legge ordinaria del 1971. La fonte aggiornata risiede oggi nell’’art.27 del D. Lgs 18 agosto 2000 n.267. Si tratta di enti politici consortili infraregionali con funzioni proprie o ad esse delegate dai Comuni. Il loro principale compito è quello di valorizzare le zone montane. La loro soppressione consentirebbe il risparmio strutturale di tutti i costi di funzionamento a fronte di una loro parziale retrocessione ai Comuni d’’appartenenza. Da considerare che diversi disegni di legge regionale ne prevedono il ridimensionamento. Una scelta più soft potrebbe indurre al mantenimento delle comunità effettivamente montane, previa statuizione normativa, con legge nazionale, di tale effettività.

Accorpamento dei micro Comuni

Una rivista on line (www.tellusfolio.it) ha condotto un sondaggio, oltre che sulla soppressione delle Comunità Montane, sull’’accorpamento dei Comuni con meno di 5.000 abitanti riscontrando risposte favorevoli per oltre il 74 %. Pur considerando l’’assoluta non scientificità della rilevazione, bisogna riconoscere che si tratta di una misurazione volante dell’’umore di soggetti particolarmente ‘impegnati’, che dovrebbero anzi essere politicamente sensibili alle culture e identità locali. La proposta più ragionevole di riforma dovrebbe essere quella di individuare un parametro minimo di residenti sotto il quale il comune degrada a frazione. Sarebbe opportuno che la fonte normativa di tale ‘minima quantità’ fosse una legge costituzionale. Si potrebbe pensare, ad esempio, al limite di 1.000 abitanti. Bisognerà naturalmente predisporre una disciplina transitoria che regoli competenze e vicende amministrative dei comuni in via di cessazione.

Soppressione delle Province

E’ la riforma più citata di queste minori ma è anche la più scomoda, quella su cui si evita poi di entrare nel concreto . L’’ente Provincia è infatti un ente politico territoriale che ha una sua storia importante, diffusamente e profondamente percepito dai cittadini sotto il profilo dell’’appartenenza. Ma va subito precisato, sotto quest’’aspetto, che il senso d’’identificazione e appartenenza al territorio deriva soprattutto dalla dimensione amministrativa della pubblica amministrazione statale (Prefettura, Questura, Motorizzazione Civile); queste infatti, amministrando su base provinciale servizi che toccano il cittadino in modo diretto e quotidiano, stanno a fondamento di quel sentire e spiegano, unitamente ai chiari motivi di sottogoverno, l’’aumento della domanda (e della nascita) di nuove province. Ben si comprende quindi quanto sia difficile predicare la soppressione di un ente che è addirittura in fase di espansione. Sull’’entità del risparmio di spesa derivante dalla chiusura delle province come organi politici non ho cifre aggiornate; qui vorrei piuttosto sottolineare la natura di Giano bifronte di questo ente agli occhi del cittadino-elettore, che è si sensibile – e in genere favorevole – alle proposte di ‘taglio delle poltrone’ ma il giorno stesso firma o vota in favore della nascita dell’’ennesima provincia. La soppressione dell’’ente passerebbe, non solo attraverso una modifica del titolo V della Costituzione (artt.114 e ss.) ma anche, inevitabilmente, attraverso un laborioso lavoro di analisi della corposa legislazione sedimentatasi nel tempo. Le attuali competenze, che attengono in prevalenza – come noto – alla viabilità, alle attività culturali e all’’edilizia scolastica, sarebbero riconosciute in parte ai Comuni e in parte alle Città Metropolitane, per queste ultime vi sarebbe anzi occasione di sviluppo numerico e normativo (peraltro a costi limitati).

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Soppressione della Corte dei Conti

E’ una riforma radicale la cui prima proposta risale alla fine degli anni ottanta (ricordo che il Sole24ore dedicò addirittura una intera pagina alla soppressione della Corte, con un titolo di questo tenore: “Vecchia, inutile, polverosa Corte dei Conti”). A dire il vero l’’istanza sarebbe dovuta venire proprio dalla Corte dei Conti (art.103 della Costituzione): ad un organo contabile e giurisdizionale di tale rilevanza, preposto proprio alla vigilanza sulla oculatezza della spesa pubblica e che presenta annualmente al Parlamento nazionale una corposa relazione sugli sprechi e le anomalie della spesa, non sarebbe dovuto sfuggire il fatto che era diventata essa stessa una fonte distorta di spesa. Ma in fondo non sarebbe giusto chiedere tutta questa coerenza, sarebbe troppo pretendere che un organo di rilevanza costituzionale chieda la propria fine. Le funzioni giurisdizionali (in materia pensionistica e di responsabilità contabile dei pubblici dipendenti) sarebbero trasferite ai Tribunali Amministrativi Regionali, unitamente agli stessi magistrati contabili – peraltro specializzati e preparati, in grado di affrontare immediatamente anche le materie urbanistiche e amministrative giudicate dai TAR. Quanto alle funzioni di controllo sulla spesa regionale, dovrebbero trovarsi altre e diverse forme di verifica al termine delle quali: per la parte di responsabilità politica dovrebbero evitarsi inascoltate relazioni annuali bensì affidarla semplicemente al giudizio elettorale, per la responsabilità patrimoniale individuarsi una competenza nei TAR o nel giudice ordinario. E’ di tutta evidenza che anche in questo caso bisognerà agire con riforma costituzionale ed inoltre studiare molto bene i carichi di lavoro e gli aspetti procedurali. La soppressione della Corte dei Conti, anche per non colorarsi di ingratitudine verso chi vi lavora con grande competenza, dovrebbe essere l’’occasione per una complessiva riforma del contesto: revisione dei profili di responsabilità diretta, statuizione di criteri generali e cogenti di efficienza della spesa, razionalizzazione del contenzioso pensionistico pubblico, sia pregresso che futuro.

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Sommario 21 agosto 2006

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15 commenti

  1. Stefano Strozzieri

    La proposta sembra molto interessante soprattutto per la semplicità che si traduce in efficacia. In un punto, però, mi sembra lasci ancora spazio a dubbi interpretativi: nella proposta l’art. 70 recita “Nelle materie a competenza esclusiva dello Stato e in quelle con conseguenze finanziarie”. E’ difficile pensare che ci siano leggi senza conseguenze finanziarie e comunque quando e chi dovrebbe decidere se una legge ha conseguenze finanziarie e quindi di competenza del parlamento?
    Un ultimo dubbio sull’art.117 c.2 punto e. Si può ancora parlare di legislazione dello Stato in materia di politica monetaria?

  2. Matteo Barbero

    Proposta interessante ma non priva di criticità.
    Ne segnalo due.
    1) Trasformare la competenza legislativa concorrente (ex art. 117, comma 3, Cost.) in residuale e, contestualmente, eliminare la competenza legislativa regionale esclusiva (oggi prevista dall’art. 117, comma 4, Cost.) rischia di determinare una forte compressione dei poteri legislativi spettanti alle Regioni, con il loro sostanziale declassamento a poteri meramente regolamentari. Anche se in linea teorica, nelle materie concorrenti, lo Stato dovrebbe limitarsi a predisporre una mera legislazione di principio tale da consentire a ciascuna Regione una certa discrezionalità attuativa, nella pratica spesso esso va ben oltre arrivando (spesso con l’avallo della Corte Costituzionale) a disciplinare molti e significativi aspetti di autentico dettaglio. L’obiettivo di procedere ad un ridimensionamento dei poteri legislativi regionali può anche essere da qualcuno (non da me) considerato desiderabile, ma bisogna averne consapevolezza o, almeno, il coraggio di enunciarlo con chiarezza (nel contributo si legge, invece, che il nuovo assetto delle competenze legislative permetterebbe “su un campo vastissimo di materie l’intervento regionale (il federalismo), lasciando allo Stato solo la definizione dei principi generali”, il che pare poco verosimile.)
    2) Non si comprende la soppressione dell’attuale comma 5 dell’art. 117, che disciplina (fra l’altro) il concorso delle Regioni alle fasi c.d. ascendente e discendente del diritto comunitario, consentendo alle medesime di contribuire (peraltro secondo modalità definite dalla legge dello Stato) all’elaborazione della normativa europea ed alla sua successiva attuazione. Pare trattarsi di un intervento in pieno contrasto con il principio di sussidiarietà su cui si basa la stessa architettura comunitaria.
    Scusate se mi sono permesso, ma credo che la diversità di opinioni giovi ad un dibattito che (concordo con voi) è assolutamente necessario rilanciare.

  3. ANGELO DR. BALDAN

    Abolirei, semmai, la potestà legislativa concorrente, e distinguerei in maniera più chiara le materie di potestà legislativa statale dalle materie di potestà legislativa regionale, prevedendo anche strumenti di raccordo che però non determinino interferenze reciproche.
    Il Senato dovrebbe contenere soltanto, e con diritto di voto, i rappresentanti delle istituzioni regionali e degli Enti Locali.
    Non può esistere un federalismo fiscale che non sia riferibile al territorio. Sulle Province il problema è aperto. D’altra parte che si farebbe dei territori non compresi nelle Città metropolitane ?. C’è pure bisogno di un ente intermedio tra il Comune e la Regione.

  4. GIGI BOLLATI

    Confesso di non essere in grado di commentare questi articoli, molto tecnici, al di sopra della mia preparazione. Un dubbio mi sto ponendo da tanto tempo: sono veramente indispensabili le Comunità Montane? Le ritengo uno spreco ben superiore alle Provincie, anche se, per queste ultime, si è forse esagerato nel consentirne la polverizzazione: si ha difficoltà a tenerne il conto…
    Ritengo che le comunità montane possano essere abolite e sostituite con i Comuni Montani, attualmente non previsti. Siccome le comunità montane sono costituite da una miriade di piccoli e piccolissimi comuni, ognuno con i propri organi amministrativi, sempre difficili da costituire, ed il proprio piccolo impianto amministrativo, complesso quanto quello dei grandi comuni (occorre il segretario comunale, l’anagrafe, l’ufficio tecnico, ecc), non si potrebbe trasformare la sede della comunità montana in unico comune montano con tante frazioni quanti sono gli altri comuni costituenti la comunità montana?
    Chiaramente, il comune montano dovrebbe racchiudere le competenze comunali e della comunità montana, comprese le agevolazioni economiche ed i finanziamenti. Il risparmio starebbe nell’unico impianto amministrativo e nell’enorme riduzione del numero di amministratori.
    La popolazione, grazie all’informatizzazione degli uffici, non dovrebbe subire alcun disagio perchè, mantenendo attivo un ufficio in ognuna delle attuali sedi comunali, si potrebbero ottenere tutti i documenti necessari. Amministratori meglio indennizzati, cosa possibile grazie al forte risparmio numerico, potrebbero dare disponibilità a spostarsi sul territorio per incontrare la popolazione, anche nel loro interesse…
    Grazie.
    Saluti

  5. Giulio Betti

    Siamo proprio sicuri che con il referendum gli italiani si siano dichiarati contrari al finanziamento diretto delle singole autonomie territoriali con parte del gettito dei tributi riferibili ai rispettivi territori?
    Penso proprio che se nelle Regioni del Nord si riuscisse a votare su un testo di autonomia fiscale spinta come quello approvato in Catalogna (o per non andare lontano su quello del Trentino-Alto Adige) ci sarebbe un plebiscito.

  6. Piero Borla

    La proposta indica alcuni punti di equilibrata semplificazione del sistema, qualificanti e del tutto condivisibili : la soppressione della competenza legislativa esclusiva delle regioni, e del richiamo territoriale alla compartecipazione finanziaria; nonché della rilevanza costituzionale delle province.
    Non appare ancora chiaro il criterio di distinzione della competenza legislativa della Camera e del Senato. La decisione finale potrebbe essere demandata alla seduta comune del Parlamento (a questo effetto, prevedere p.es. un vincolo al numero dei senatori pari a metà dei deputati; una previa commissione redigente bicamerale convocata su richiesta del primo ministro e autorizzata dal presidente della repubblica).
    Inoltre non convince il mantenimento in Costituzione delle ancora inesistenti città metropolitane, dopo averne tolto le province (una soluzione lineare, da perseguire con legge di principi fondamentali adeguabili dalle regioni, è di separare i capoluoghi dal territorio provinciale, secondo il modello tedesco; attribuire alle città capoluogo anche le competenze di provincia; attribuire ai sindaci e consiglieri comunali l’elezione del presidente e del consiglio delle province residuali; sfoltire così la pletora di enti e organismi subprovinciali)

  7. Fabio Pietribiasi

    Tra i molti spunti che offre l’articolo, commento brevemente l’idea di abolire le Province per dire che va svolta con due ordini di considerazioni. La prima è ovvia e va nella direzione dello snellimento del settore pubblico, abolendo Enti inutili o di dubbia utilità fra i quali vanno ricomprese certamente le Province, trasformandole in organizzazioni amministrative decentrate delle Regioni. Però la proposta di abolire o ridurre gli Enti inutili non è nuova, è stata più volte ventilata ed ogni volta è stata accantonata. Come mai? Bisogna quindi fare un secondo ragionamento, che riguarda i costi della politica e renderlo esplicito. Molti Enti vengono tenuti in vita in quanto uffici di collocamento di personale politico e solo secondariamente per ragioni istituzionali. Siamo disponibili a sostenere questi costi, mettendoci anche i costi occulti di sovrapposizioni, inefficienze strutturali, lungaggini? Se non si affronta questa domanda, ridisegnare a tavolino la nostra geografia istituzionale diventa un esercizio astratto e fonte continua di incomprensioni.

  8. Mirko Serra

    I suggerimenti e le critiche che portate nei vostri articoli ritengo siano sempre utili e costruttivi, per questo sono convinto sarebbe un fatto molto positivo se fra gli iscritti alla newsletter de lavoce.info ci fossero molti più parlamentari e amministratori locali di quanto non sembri, stando ai provvedimenti che spesso vengono presi. Ci sono però alcune “soluzioni”, come quella paventata in questo articolo in merito all’abolizione delle province come organi politici, che pur essendo ottimali per il “benessere collettivo” non lo sono affatto per quello dei partiti politici (e quindi quasi sicuramente non verranno mai adottati): non potreste farvi “promotori” di proposte di legge di iniziativa popolare per questo tipo di situazioni?

  9. Marco D'Egidio

    Per un Paese di forte tradizione centralista, che ha vissuto sessant’anni come Stato regionale, diventare Stato federale non può che essere una transizione difficile (almeno più di quanto non sia il contrario). Lo è particolarmente se si aggiungono le inefficienze endemiche dell’amministrazione pubblica, e se i decenni impiegati affinchè la macchina pubblica lavorasse a regime e con pochi sprechi sono stati praticamente dilapidati. Adesso una fase pre-federalista (aggravata dagli arzigogoli della riforma del titolo V) è un dilemma poichè ciascuna regione interpreta a modo suo la tabula rasa costituzionale sulle materie a potestà legislativa residuale regionale. In più l’elencazione (di carattere federalista) delle materie di legislazione esclusiva statale operata dalla riforma “lavora” e “lavorerà” sempre, in mancanza di altre riforme, all’interno di una repubblica delle autonomie, se non più di uno stato regionale. Sicuramente non di uno Stato federale, almeno finchè non si cambia anche il bicameralismo paritario. La mia provocazione, da non addetto ai lavori, è: non è meglio, invece di interstardirci su questa via ibrida, prima di cambiare la forma di governo, che credo non si modificherà a breve (causa referendum), tornare all’elenco diretto delle materie di legislazione esclusiva regionale, di sicuro arricchito, e con molte altre modifiche? Non gioverebbe all’autonomia stessa delle regioni, che possono almeno godere della chiarezza?

  10. Marco Orlando

    Il dibattito sull’abolizione delle province mi sembra viziato dall’errata presupposizione che esse, nella migliore “enti intermedi”, nella peggiore “enti inutili”, svolgano compiti irrilevanti per la comunità.
    La presupposizione è errata poiché antica e superata.
    Le province, oltre a garantire in modo eguale servizi a territori vasti e disomogenei, hanno sviluppato negli ultimi anni funzioni di particolare rilievo, caratterizzandosi come interlocutori di cittadini ed imprese quasi al pari dei comuni. Gli esempi vanno dai servizi per il lavoro e formazione professionale, a quelli per la riconversione industriale e l’internazionalizzazione delle imprese, alle tante attività di autorizzazione e controllo in campo ambientale e territoriale.
    Definirle ancora “enti intermedi” è quindi sintomo di poca informazione e supericialità.
    Del resto, i promotori della soppressione non ci indicano un’alternativa efficiente.
    Se “costa troppo” una giunta ed un consiglio provinciale, allora quanto costano 20 Municipi di una Città Metropolitana (ipotesi della “Grande Torino”) ed almeno 30 Unioni di Comuni (con Presidenti, Giunte ed Assemblee) per il resto del territorio?
    Mi sembra che, alla fine, sopprimere una Provincia costi di più. O no?

  11. carlo iannello

    Finalmente una proposta razionale sulle riforme costituzionali. Condivido pienamente la necessità di rimediare ai clamorosi errori compiuti con la riforma del titolo V, che peraltro è stato letteralmente riscritto dalla Corte costituzionale. Penso sia importante riflettere su questa circostanza. Infatti la sostanziale riscrittura del testo (si pensi alla sentenza 303 del 2003 sulla sussidiarietà verticlae in materia di opere pubbliche) rappresenta una vera e propria censura della riforma stessa. La Corte è stata costretta ad agire sul testo della costituzione come se si trovasse di fronte ad una legge ordinaria, al fine di tutelare la coerenza e la funzinlaità del sistema. In altre parole è come se la corte con la sua giurisprudenza avesse dichiarato in più punti il testo della riforma costituzionalemnte illegittimo.
    Mi pare dunque necessario che una modifica della costituzione recepisca la giurisprudenza della corte e vada inoltre nel senso della semplificazione degli enti di governo locale, come indicato nell’articolo. Temo tuttavia che la stupida propaganda pseudo federalista di cui siamo stati vittime negli ultimi quindici anni sia ancora ben radicata nella politica e nella cultura accademica perché un tale progetto andare a buon fine.
    Unica perplessità: l’eleminaizone del bicameralismo perfetto è certamnte necessaria, ma l’esempio della recente riforma costituzionale tedesca dovrebbe essere di stimolo per un ulteriore apporfondimento della questione. A mio parere occorre immediatamnegte rimediare agli errori del titolo V, ampiamente noti, e procedere poi, in un momento successivo, con un differente progetto per la revisione del bicameralismo. Del resto come ha chiarito lo stesso Giuliano Amato e come hanno dimostrato gli elettori con l’ultimo referendum, le riforme costituzionali devono avere un oggetto limitato, perché rischierebbero altrimenti di essere incostituzionali.

  12. Giorgio

    Non sono d’accordo con gli autori dell’articolo sulla loro proposta di rottura del bicameralismo perfetto, mi sembra eccessivamente astratta. Molto meglio sarebbe adottare l’esempio francese, in cui ad un certo punto, in caso di navette prolungata, è previsto che il Primo Ministro possa istituire una commissione paritetica composta da 7 senatori e 7 deputati con lo scopo di elaborare un testo di compromesso, in extrema ratio il Primo Ministro può poi chiedere alla sola Assemblea Nazionale di decidere. Inoltre a mio avviso il Senato dovrebbe diventare un elemento di stabilità del sistema, prevedendo magari un suo rinnovo parziale ogni 3 anni ed inserendo una quota più elevata di personalità illustri, di alto livello intellettuale e culturale, in modo tale che il Senato diventi una sorta di camera di decantazione, che, magari con tempi più lunghi, riesamini i progetti di legge in modo più sereno ed approfondito, contribuendo ad innalzare la qualità tecnica delle leggi italiane ( non proprio elevatissima).
    Perchè abolire le Province poi? La soluzione sta piuttosto nel preparare meglio i funzionari pubblici, istituendo anche da noi una sorta di Ena, come in Francia. Per esperienza personale posso infatti dire che, almeno il 60% dei dipendenti pubblici italiani, sono totalmente ignoranti nella materia amministrativa e pubblicistica, svogliati e poco attenti a svolgere con serietà il loro ruolo.

  13. Cristian

    Non concordo con l’ispirazione di fondo che muove questo progetto di riforma istituzionale, in quanto non ritengo che le disfunzioni del rapporto Stato-Regioni e le lungaggini del procedimento normativo siano direttamente imputabili al testo costituzionale. Con questo non voglio assolutamente affermare l’intangibilità della Costituzione, ma solamente esprimere il mio distacco verso soluzioni nate a tavolino senza la consapevolezza del sistema politico entro cui le stesse norme costituzionali agiscono. Ci troviamo al cospetto di una classe politica autoreferenziale e sempre più sorda alle esigenze di rinnovamento, sulla quale le illusioni dell’ingegneria costituzionale di poter sciogliere tutti i mali della democrazia italiana hanno avuto facile presa proprio nel tentativo di mascherare i propri limiti e difetti. Non si può pensare di rinnovare il costume politico e le sue dialettiche mettendo mano all’impianto costituzionale in una sorta di distorsione del rapporto causa-effetto. Le riforme non sono conigli che spuntano fuori da cappelli lucidi ed ammantati di aurea magicità, ma sono il prodotto di un’evoluzione continua, storica, politica ed istituzionale, che non può essere disconosciuta se non si vuole essere “mandati all’aria dalle dure repliche della storia”. Per queste motivazioni ritengo basilare affrontare, prima di qualsiasi proposta di riforma istituzionale, il tema del rinnovamento della cultura politica italiana, e a quanti ritengano il richiamo ad una nuova etica della politica una pura utopia vorrei rispondere anticipatamente con le parole di Eduardo Galeano per il quale “l’utopia è come l’orizzonte, cammino di due passi e di allontana di due passi, cammino di dieci passi e si allontana di dieci. L’orizzonte è irraggiungibile. Ma allora a cosa serve l’utopia? A questo serve per continuare a camminare

  14. Lorenzo Furlan

    Concorso con la proposta. Per quanto riguarda le Province, la necessità della loro abolizione dopo la nascita delle Regioni è apparsa chiara fin dai primi momenti e le proposte, anche di autorevoli esponenti politici, sono cominciate decenni fa. Nel tempo la richiesta è stata reiterata sempre più frequentemente in modo trasversale da più settori della società determinando di fatto un largo consenso. Incredibilmente fino ad oggi non vi è stata traccia di proposte concrete. In assenza di iniziative più qualificate di teorici preposti, per passare dalle parole ai fatti, dal lamento continuo alla proposta, un gruppo di semplici cittadini, notte dopo notte, con il contributo di specialisti e di amici che intendono metterci del proprio per cambiare le cose, ha messo a punto una proposta concreta, con un percorso preciso per arrivare alla Abolizione delle Province. A tal fine è stato pubblicato un blog (www.aboliamoleprovince.it) che Vi prego di visitare, sostenere, diffondere. Saluti. Lorenzo Furlan

  15. Alfredo Poluzzi

    Finora, a fronte di nuove competenze mi sembra che le Regioni si siano limitate a trattenere ampia parte delle entrate, trasferendo invece l’esercizio delle funzioni in delega alle Province, che, ovviamente, per sostentarle non hanno potuto far altro che innescare un’ulteriore richiesta di risorse piuttosto che una diminuzione delle medesime. Nel frattempo, pur delegando le funzioni, lo Stato ha continuato a magiare risorse quanto prima, nonostante spesso si sia limitato ad attività sempre più di controllo e studio sugli altri comparti. Andrebbero limitati numero di consiglieri ed assessori, nomine nei CDA, ed aboliti aboliti organismi ormai anacronistici o inutili come Prefetture, Comunità Montane, uffici decentrati dello Stato, Ato, ecc, al fine di costituire un pacchetto di servizi utilmente erogati dalle Province. Le Regioni sono e rimangono dei carrozzoni troppo distanti dai cittadini. Ma la prima grande riforma sarebbe l’abolizione del bicameralismo perfetto!

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