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Si puo’ fare di più

Se il disegno di legge Gentiloni coglie l’esigenza di liberare spazi e risorse per nuovi operatori televisivi, gli strumenti per realizzarla appaiono deboli e spuntati: un passaggio anticipato al digitale terrestre che non preclude il ritorno, tre anni dopo, ai duopolisti tricanale che oggi dominano il mercato; tetti pubblicitari stringenti, ma senza gli strumenti adeguati a farli rispettare. Più lineare sarebbe invece una misura di cessione di una rete Mediaset e di una rete Rai sul mercato.

Il disegno di legge del ministro Gentiloni, di cui in questi giorni sono circolate le linee guida, contiene numerosi elementi di riforma rispetto alla legislazione vigente. È difficile oggi entrare nel merito dei singoli aspetti, dal momento che non è ancora noto il testo nella sua interezza. Alcuni commenti sono tuttavia possibili almeno su quelli che sembrano gli elementi portanti della proposta. In particolare, discuteremo qui due aspetti su cui il dibattito di questi giorni si è incentrato: il passaggio di Rete 4 e di una rete Rai al digitale terrestre; la fissazione di una soglia massima del 45 per cento della raccolta pubblicitaria. Discuteremo questi due elementi guardando alla loro fattibilità e agli effetti che potrebbero produrre rispetto al problema di partenza, e cioè la creazione di nuove possibilità perché emergano altri gruppi televisivi arricchendo il pluralismo in questo segmento cruciale.

Due canali sul digitale

Il disegno di legge fissa a quindici mesi dopo l’approvazione della nuova legge la data per lo spostamento di Rete 4 e di una rete Rai dalla trasmissione in tecnica analogica a quella in tecnica digitale. Questo comporterà il fatto che solamente i telespettatori dotati di decoder e residenti in aree coperte dal segnale digitale potranno vedere i due canali. Immaginando il 2009 come periodo in cui questo spostamento avverrà, possiamo pensare a una copertura effettiva di poco più della metà della audience potenziale. Questa misura, se attuata, comporta quindi una caduta nel valore degli investimenti pubblicitari su queste reti, capaci di assicurare una audience minore rispetto a oggi.
È lo spostamento credibile? Il passaggio al digitale obbliga almeno la Rai, in base al suo contratto di servizio, a una altissima copertura del territorio nazionale. La copertura è relativamente meno costosa per il primo 60-70 per cento di popolazione, ma poi richiede investimenti cospicui per la parte residua. Se in prossimità del 2009 (per una rete Rai) o del 2012 (per l’insieme delle reti) tale copertura non verrà raggiunta cosa avverrà?
Al di là di questi dubbi, un elemento apprezzabile della misura sta nella simmetria imposta ai due duopolisti, entrambi obbligati a rinunciare a una delle reti in trasmissione analogica. Tuttavia, rimanendo agli scenari del disegno di legge, tale spostamento anticipa di un triennio quanto poi caratterizzerà l’insieme dei canali nazionali, ricostituendo quindi dal 2012 due gruppi televisivi con tre canali (digitali) ciascuno. Quali prospettive potrebbe avere un nuovo operatore di crescere e rafforzarsi in questo breve lasso di tempo prima di subire nuovamente la concorrenza che sino a oggi ha impedito l’emergere di nuovi soggetti?

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Addio al Sic

Il secondo elemento importante del disegno di legge riguarda l’abbandono del Sic e la valutazione delle posizioni dominanti nei singoli mercati, con un tetto del 45 per cento nella raccolta pubblicitaria calcolata includendo, a differenza di oggi, anche le telepromozioni. È bene ricordare la situazione di oggi, che vede Mediaset attestata su una quota tra il 60 e il 65 per cento e la Rai tra il 30 e il 35 per cento. Data questa asimmetria nei punti di partenza (la Rai già subisce restrizioni nell’affollamento pubblicitario derivanti dal vantaggio del canone) è naturale che la fissazione di un tetto massimo incida prima di tutto sull’operatore maggiore. Rispetto agli standard quantitativi che solitamente vengono associati a una posizione dominante, il 45 per cento del mercato risulta molto elevato, prevalendo in genere soglie del 35-40 per cento.
Ma il vero punto debole di questa misura sta negli strumenti spuntati che vengono messi a disposizione dell’operatore pubblico nel caso di un superamento dei tetti consentiti: una riduzione dal 18 al 16 per cento dell’affollamento orario, presumibilmente insufficiente a rientrare nelle soglie stabilite.
Il passaggio di due reti alla trasmissione digitale e la fissazione di tetti pubblicitari sono misure che vanno all’origine della situazione di abnorme concentrazione degli ascolti. Abbiamo più volte sottolineato come questo problema non nasce in Italia da una carenza di frequenze disponibili, ma dal circolo, vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista, tra alti proventi pubblicitari, alta audience e capacità di coprire gli alti costi dei palinsesti di successo. Già oggi abbiamo dodici canali (analogici) nazionali, ma sei di questi raccolgono il 90 per cento di audience e risorse pubblicitarie. Senza incidere su questo meccanismo non si possono liberare spazi e risorse per nuovi operatori.
Se il disegno di legge Gentiloni coglie questa esigenza, gli strumenti proposti appaiono deboli e spuntati: un passaggio anticipato al digitale terrestre che non preclude il ritorno, tre anni dopo, ai duopolisti (digitali) tricanale che oggi dominano il mercato; tetti pubblicitari stringenti ma privi di adeguate misure di enforcement. Strumenti, inoltre, che comportano una riduzione nei ricavi e nei profitti degli operatori dominanti, subito pronti a gridare all’esproprio. Più lineare sarebbe invece una misura di cessione di una rete Mediaset e di una rete Rai sul mercato, attraverso cui questi recuperino interamente il valore delle attività cedute e un nuovo soggetto editoriale possa nascere in concorrenza con operatori meno forti di oggi.

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Le ceneri di Angela

  1. Luigi D. Sandon

    Vorrei segnalare che la Svizzera è già passata al digitale terreste. È sicuramente piccola, ma con un territorio difficile. Non credo che a RAI e Mediaset manchino i mezzi per aggiornare i ripetitori, anzi, non si capisce perché il digitale vada bene se si vendono le schede prepagate tanto da “regalare” i decoder e poi non vada bene per spostarci un canale in chiaro.

  2. Paolo Gabriele

    L’idea di costringere RAI e Mediaset a mettere sul mercato le frequenze ed un programma, perchè questa mi pare la soluzione prospettata si presta ad alcune osservazioni: quali dei programmi i due gruppi sceglieranno di cedere, a quale prezzo e con quali contenuti. Ma mentre la concorrenza si sposterà sempre di più dai mezzi di diffusione e dalle reti ai contenuti (cfr. FT, The Economist, IDC, BT, Murdoch etc.etc.) e le dorsali broadband così come le reti satellitari stanno già ottenendo un discreto successo e si va verso una tv a la carte scelta dal telespettatore, noi ragioniamo troppo e troppo spesso sull’analogico destinato ad essere superato. Il digitale terrestre come alternativa, vera o presunta, ma con enorme potenzialità è stato spartito fra gli attuali gestori delle frequenze e reti di trasmissione: i contenuti continuano ad essere quelli che fanno la differenza. Cosa farebbero satelliti, digitale terrestre, e cavi, dove ci sono, senza il calcio, lo sport, qualche film ed i contenuti per adulti? Orbene mettere sul mercato frequenze e programmi non basta: bisognerebbe mettere sul mercato l’intero ramo d’azienda, compresa quella parte del portafoglio clienti e contenuti relativa. Altrimenti a cosa servirebbe? Il ditale terrestre sembra con la moltiplicazione dei programmi su singolo canale (pari a multipli di 5) poter risolvere la questione dell’accesso di nuovi competitor, ma a conti fatti il problema è quello di ridurre il potere attrattivo verso gli investitori pubblicitari di quelli esistenti per far spazio ad altri. Inoltre cerchiamo di evitare di avere come sul satellite un solo gestore della piattaforma di trasmissione a cui gli altri si accodano a condizioni prefissate.

    • La redazione

      Concordo e ho spesso sostenuto sulla voce che la concentrazione non nasce dalla mancanza di frequenze ma dalla spinta a concentrare i contenuti di maggiore
      attuazione, consentita dall’alta audience così ottenuta e dai corrispondenti proventi pubblicitari. Una parte “evoluta” del pubblico pian piano migrerà verso un comportamento selettivo “a la carte” facendo zapping tra un canale e
      l’altro. ma il grosso del pubblico è ancora attratto da pochi generi (sport, film, varietà) per i quali i contenuti top sono molto costosi. Concordo anche sulla cessione di reti e non di frequenze
      m.p.

  3. Stefano Parravicini

    Sono convinto che la vera anomalia della televisione italiana sia la presenza massiccia ed invasiva di una televisione pubblica, economicamente irresponsabile e totalmente asservita ai partiti, principalmente di area di sinistra.
    Credo che non ci possa essere una vera riforma senza la privatizzazione (cessione) della televisione di Stato, come peraltro deciso da un referendum.
    Solo tale operazione, con l’ingresso di editori forti e competitivi, potrà dare fiato a vera concorrenza e potrà spezzare il duopolio esistente.
    In sostanza invece che proibire il mercato si dovrebbe aprire al mercato.

  4. giuseppe faricella

    Personalmente credo che il trasferimento anticipato di una rete mediaset sul digitale, la “riforma” dell’auditel e il riordino delle frequenze (tutti fatti positivi) dovrebbero accompagnarsi alla vendita di rai1 e/o di rai2. Credo che anche Gentiloni ne sia convinto , ma questa è ovviamente una strada politicamente impraticabile, dal momento che è considerata inaccettabile sia da settori dell’unione che da mediaset (al riguardo, credo che la proposta di casini sia stato solo una mossa tesa a dimostrare la sua forza nella lotta per il comando del cdx).

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