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Riforma dell’ordinamento giudiziario, la storia infinita

Il Parlamento ha approvato la sospensione di buona parte della riforma Castelli. Tuttavia, alcune idee di quella legge non vanno abbandonate. La separazione delle carriere va realizzata, anche se gradualmente. E va migliorato il controllo sulla professionalità dei magistrati, pur senza interferire con la loro indipendenza. Il sistema migliore potrebbe essere quello di intervenire sulla formazione iniziale, scuola della magistratura compresa. Altrimenti, difficilmente sarà possibile migliorare il rendimento della nostra giustizia.

Il 23 ottobre la Camera ha definitivamente approvato la sospensione, fino al 31 luglio 2007, di buona parte della riforma dell’ordinamento giudiziario varata dalla precedente maggioranza nella scorsa legislatura. In particolare, la sospensione interessa due aspetti di rilievo della riforma ideata dall’ex-ministro Castelli: la cosiddetta separazione delle carriere e la progressione in carriera dei magistrati.

Separare le carriere?

La riforma Castelli prevedeva che entro il 28 ottobre 2006 i magistrati in servizio dovessero optare per una o l’altra delle due funzioni: quella di giudice o quella di pubblico ministero. Per il futuro, era poi previsto che, a cinque anni dall’entrata nel corpo, i magistrati dovessero scegliere definitivamente a quale funzione appartenere.
Era una soluzione di compromesso che manteneva il corpo giudiziario unito, anche se dopo i primi anni rendeva impossibile passare da una carriera all’altra. Per questo avrebbe ulteriormente irrigidito i percorsi professionali dei nostri magistrati, cosa di cui non si sente assolutamente il bisogno. Per di più, gli avvenimenti di questi giorni dimostrano che la riforma è difficilmente attuabile. Infatti, pare che, in vista della scadenza del 28 ottobre, centinaia di magistrati abbiano deciso per protesta di chiedere il cambio di funzioni: se la legge non fosse intervenuta a sospendere la riforma, il Consiglio superiore della magistratura sarebbe stato paralizzato.
La discussione sulla necessità di separare le carriere di giudice e pubblico ministero è in corso da lungo tempo. Grosso modo, gli avvocati, specie i penalisti, sono favorevoli e i magistrati, largamente contrari.
La separazione, di per sé, poco influirebbe nell’immediato sul rendimento del sistema giudiziario. D’altra parte, il nostro processo – penale e civile – ha bisogno di una forte semplificazione, se si vuole ricondurne la durata a tempi ragionevoli. (1) Per fare questo però è necessaria la collaborazione di tutti i protagonisti del processo: senza il sostegno fattivo dell’avvocatura difficilmente potranno essere portate a compimento riforme che snelliscano le nostre procedure. Quindi, la separazione delle carriere, e in generale un rapporto più stretto fra magistratura e avvocatura, non deve essere abbandonata ma, pur con gradualità, realizzata.

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Assicurare la professionalità?

Un secondo aspetto importante della riforma Castelli riguardava i controlli sulla professionalità dei magistrati. Da tempo è noto che l’attuale situazione è nettamente insoddisfacente e che le qualità dei nostri magistrati sono affidate per lo più alla loro coscienza (che in molti casi, per fortuna, funziona). La riforma del centrodestra voleva risolvere il problema introducendo un complicatissimo sistema di concorsi interni – circa una ventina – che avrebbe assorbito un’enorme quantità di risorse, senza garantire i risultati.
Il problema di come verificare le qualità professionali dei magistrati è complesso. In primo luogo è necessario individuare strumenti che le verifichino davvero e non misurino invece qualcos’altro. Ad esempio, i concorsi basati su esami tendono a valutare non tanto le effettive capacità professionali quanto le conoscenze teoriche, che non sempre sono alle prime collegate. Hanno inoltre il difetto di non incentivare l’impegno lavorativo. Anzi, in realtà di scoraggiarlo, dato che la valutazione si basa su conoscenze teoriche che possono essere apprese soprattutto fuori dall’ufficio. Quindi, se valutazioni ci devono essere, è opportuno che tengano presente soprattutto il modo con cui il magistrato svolge le sue funzioni. Importanti potrebbero quindi essere i giudizi dei capi degli uffici, dei consigli giudiziari, dell’avvocatura e, con le dovute cautele, degli stessi cittadini. Semmai, andrebbero costruiti strumenti per evitare le valutazioni sempre e comunque elogiative che non discriminano fra i magistrati.
La valutazione dei magistrati solleva però la questione di come evitare che la loro indipendenza ne possa essere in qualche modo danneggiata. È questo un rischio presente anche quando a compiere la valutazione è un organo interno alla magistratura, come il consiglio giudiziario e lo stesso Csm. Una soluzione è quella di allargare e diversificare la provenienza dei giudizi, in modo da ridurre la probabilità di abusi. D’altra parte, per non ammazzare la qualità con la quantità, è anche opportuno che le valutazioni non siano troppo numerose. Prevedere che tutti i magistrati siano valutati ogni quattro anni (2) significa effettuare almeno duemila valutazioni l’anno: è realistico aspettarsi che siano fatte tutte con sufficiente cura? Una strada forse più efficace è quella di investire sulla formazione iniziale.

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Perché non selezionare meglio?

Una legge organizzativa ben nota afferma che il rendimento lavorativo può essere assicurato da una serie più o meno ampia di controlli o da un processo di selezione particolarmente accurato o da una combinazione di questi due strumenti.
Se si ritiene, non senza ragione, che i controlli sull’attività del magistrato debbano tenere conto della necessità di non interferire con la sua indipendenza, è opportuno rafforzare il processo di selezione iniziale e farlo seguire da un adeguato periodo di formazione. In questo campo, la riforma Castelli offre qualche buona idea. Innanzitutto, per partecipare al concorso iniziale, oltre all’ovvia laurea in giurisprudenza, richiede un’ulteriore serie di qualificazioni.
La lista dei titoli necessari può ovviamente essere ritoccata, ma l’idea resta valida, soprattutto perché per la prima volta tiene in qualche conto l’esperienza professionale. Inoltre, la riforma ha istituito finalmente la scuola della magistratura. (3) Anche in questo caso, qualche ritocco è necessario. Alla scuola sono stati assegnati troppi compiti e voler istituire tre sedi è perlomeno velleitario. La riforma Castelli non va però abbandonata: senza una miglior formazione – che includa anche una dimensione organizzativa – difficilmente sarà possibile migliorare il rendimento della nostra giustizia.
Naturalmente, molto dipenderà dalla capacità del Parlamento di decidere. Molto dipenderà anche dalla volontà degli attori principali – magistratura e avvocatura in primis – di trovare un accordo. Oggi, le prospettive non sembrano promettenti. Ma, si sa, la speranza è l’ultima a morire.


(1)
L’ultima, ennesima, condanna del Consiglio d’Europa è del 2 ottobre scorso.
Vedi http://www.coe.int/t/dc/press/.
(2) Vedi Italia Oggi del 26 ottobre 2006.
(3) Il decreto è in vigore, anche se finora non sembra avere ancora trovato applicazione.

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  1. Adriano Sala

    I giudici non sono “indipendenti”, sono autonomi nel giudizio. Perchè, fino a prova contraria, prendono lo stipendio dai contribuenti e ai contribuenti devono dare conto dei soldi spesi. Non mi pare che questo sia l’orientamento delle toghe, perciò strillano. E se strillano, vuol dire che la riforma Castelli andava nlla direzione giusta.
    Cordialità

    • La redazione

      Indubbiamente anche i magistrati devono rendere
      conto dei soldi pubblici di cui fanno uso. Che il loro “strillare” sia un sintomo della bontà della riforma Castelli mi sembra un ragionamento un po’ frettoloso. Come ho cercato di illustrare, la riforma non è da buttare, come dicono molti, ma non è neanche priva di difetti. Per questo sarebbe opportuno che la sospennsione decisa il 23 serva a correggerla, non a buttare via “il bambino con l’acqua sporca.”

  2. A.Battista

    Quando si parla di separazione delle carriere, si sottovaluta spesso il logico portato di credibilità di medio termine che un sistema in cui pm e giudice appartengono ad ordinamenti diversi. La credibilità per un prodotto come la giustizia ha un valore enorme.
    Il paragone con la politica monetaria é forse un pò forzato ma naturale: l’indipendenza delle banche centrali é stata alla base della deflazione degli anni ’80.
    L’introduzione con gradualità di tale riforma é difficilmente realizzabile sul piano politico: non esistendo un consenso diffuso sulla materia, é evidente che la gradualità rischia di tradursi in “stop and go” poco funzionali, come sta avvenendo ora.
    La gradualità può risolvere il problema del numero di domande arrivate per cambiare le funzioni: tutte verranno accolte se arrivate entro una certa data ma in un arco ragionevole di tempo, ad esempio 3 anni; qui la gradualità viene indubbiamente bene, poiché il processo di trasferimento dei singoli una volta avviato é difficilmente reversibile.
    Infine esame della performance e retribuzioni: la difficoltà della valutazione della performance é ovviamente un alibi, la disciplina della valutazione delle prestazioni professionali ha risolto problemi almeno altrettanto complessi.
    Lo snodo critico é il link tra valutazione e retribuzione.
    Il medievale meccanismo degli scatti di anzianità – che la Finanziaria sembra mettere in discussione- potrebbe essere sostituito da un sistema di remunerazione performance based, in cui l’incidenza della componente variabile arriva ad essere anche il 30% della retribuzione.
    La lezione finale a mio parere anche in tema di giustizia non é diversa da quella di altri campi: per invertire la rotta il sistema degli incentivi per tutti gli operatori – avvocati, giudici, politici – deve essere virtuoso e coerente con le aspettative dei fruitori del servizio, i cittadini che lo finanziano a caro prezzo.

    • La redazione

      Sono d’accordo sul fatto che la separazione delle carriere porti, almeno a medio termine, ad un miglioramento della credibilità della giustizia.
      Anzi, questo è uno dei principali argomenti a suo favore, come ho argomentato a suo tempo anche su lavoce. Quanto alla gradualità le cose sono un po’ più complicate. In mancanza di un decisore che sia in grado di imporre la separazione – e non tenendo conto della difficoltà di applicare
      poi concretamente tale decisione – la gradualità si impone, proprio perchè non c’è consenso. Non tutte le decisioni graduali sono necessariamente disfunzionali. Il difetto della riforma Castelli è la sua rigidità, fatto che la rende inattuabile
      (come mostrano le migliaia di domande di passaggio presentate). Una strategia più realistica potrebbe essere un provvedimento più limitato su cui ottenere consenso – es. proibire i passaggi all’interno dello stesso distretto – e
      poi operare per creare nell’opinione pubblica un atteggiamento favorevole alla separazione. In questo campo, a meno di non trovarsi in situazione di “crisi di regime”, forzare la situazione può essere controproducente.
      L’attuale meccanismo retributivo basato sugli scatti d’anzianità è medievale (anche per i professori universitari). E’ anche possibile arrivare a valutazioni abbastanza affidabili
      della prestazione del magistrato. Si tratta però di operazioni molto complesse – che il nostro CSM non credo sia in grado di fare – per cui temo che si tratti di tempo sprecato. In Spagna comunque ci stanno provando: vedremo i risultati. Le dirò
      comunque che, in generale, le magistrature che sembrano funzionare meglio si basano su personale reclutato dopo aver acquisito rilevanti esperienze professionali – paesi anglosassoni – oppure formato con lunghi periodi di tirocinio –
      europa centro-settentrionale. In altre parole, la motivazione che deriva dall’identificazione professionale è spesso più importante della retribuzione.
      Un ultimo commento: sicuramente il sistema degli
      incentivi degli operatori deve essere coerente. Ma fino a che punto con le aspettative dei fruitori del servizio? Nel caso della magistratura in gioco non ci sono solo i “consumatori” di giustizia ma anche dei fini istituzionali (rendere giustizia secondo la legge, bilanciare gli altri poteri…). Il fatto che in Italia i primi siano stati trascurati non significa un domani trascurare i secondi.
      Grazie comunque per le stimolanti osservazioni.

  3. Lettore

    Il tema della separazione delle carriere viene visto, nell`articolo, molto pragmaticamente, come possibile espediente organizzativo da valutare sopratutto nei termini di possibili vantaggi di efficacia ed efficienza della `macchina´ della c.d. amministrazione della giustizia italiana (velocità dei giudizi, selezione del personale, ecc.)
    È interessante valutare la questione in termini più ampi, più `filosofici, nei termini di questioni di profilo più astratto sul senso profondo di avere un sistema di corti di giustizia, un meccanismo di accusa pubblica, e procedure sul ruolo delle diverse parti.
    Nei limiti di un breve commento in un forum , qualche spunto polemico.
    Una (buona?) strategia argomentativa è quella dell`analisi comparata, secondo il principio che una buona proposta è quella che potremmo proporre sotto una varietà di latitudini, adatta a moti contesti diversi, perchè recepisce e articola principi comunque universali
    La domanda è quindi: chi si oppone alla separazione delle carrriere/funzioni in Italia, vede il caso italiano come soluzione da esportare, esperienza da proporre come modello universale? Se la risposta è si, questa sarebbe una posizione teoricamente molto interessante, anche se credo estremamente minoritaria (pensa qualcuno seriamente che l`amministrazione della giustizia statunitense dovrebbe rivoluzionarsi a tal punto di aderire al modello continentale?). Se la risposta è no, rimane l`onere della prova del perchè un modello che non si proporrebbe ad altri dovrebbe essere il migliore per noi.
    Altro spunto di analisi: l`attività di accusa pubblica può essere considerata attività giudiziaria? Se questa ultima qualificazione è riservata a chi giudica ove sia la ragione tra due parti in contesa, sembra di no, o no? Questione non solo terminologica, perchè da essa dipende quanto si crede che il giudizio debba essere altro dall`accusa.

  4. alessandro

    L’articolo di Guarnieri sorvola su un aspetto decisivo della separazione delle carriere. Il controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Una magistratura divisa e’ piu’ facilmente controllabile da parte del potente di turno. E le ultime vicende di cronaca (le spiate illegali di Telecom, il rapimento illegale di cittadini inermi presunti sospetti) dimostra di quanto ci sia bisogno di una magistratura indipendente.
    Simceramente mi sento piu’ garantito da una magistratura unica ma forte nella sua indipendenza, che da una magistratura giudicante separata da quella requirente ma dove sulla requirente grava il peso e l0’influenza del potere esecutivo. E i fatti in Italia parlano chiaro: la classe politica – sia la governo che all’opposizione – e’ sempre fortemente tentata di derubare i cittadini sia dei loro diritti che dei loro soldi! E a salvaguardia dei cittadini per il momento rimangono solo la (poca) stampa ancora libera e la magistratura.

    La legge Castelli da questo punto di vista e’ un vero e proprio disastro. Sarebbe stato meglio gettarla al macero e rifarla daccapo! Senza contare che non riesce minimamente ad affrontare il piu’ grave problema della giustizia in Italia: la lunghezza eccessiva dei processi.

  5. Jean Baptiste Clamence

    Si fa spesso confusione in Italia tra “indipendenza del giudice” e “indipendenza della magistratura”. La prima è un essenziale valore delle democrazie liberali, ribadito dall’art. 101 della nostra costituzione. La seconda è solo un principio organizzativo proprio del nostro ordinamento, anch’essa in Costituzione, con l’art. 104, ma niente affatto cruciale, tanto è vero che esistono fior di sistemi democratici, quello anglosassone in primis, dove un ‘ordine giudiziario’ e una ‘magistratura’ come corpo organico nemmeno esistono. Esistono giudici singoli, la cui garanzia di indipendenza sta nella loro inamovibilità.
    Il nostro ordinamento tutela l’indipendenza del giudice non in modo diretto, ma mediato: attraverso l’autonomia della magistratura, alla quale sono riconosciute ampie prerogative di autogoverno. Si tratta però di un equivoco: il giudice è forse indipendente dal potere politico, non lo è dai suoi colleghi. Che – singolarità che distingue il nostro sistema da quello anglosassone – non sono solo giudici ma anche pubblici ministeri.
    Il giudice non è indipendente nemmeno da sé stesso. Selezionati in giovane età, è piuttosto ovvio che i Magistrati aspirino a far carriera, e per questo hanno bisogno di consenso. Nei sistemi di common law invece il giudice – nominato od eletto tra giuristi esperti, spesso avvocati – non ha più niente da aspettarsi: non può essere rimosso, ma nemmeno “promosso”. Infine, ulteriore anomalia italiana è il ‘pantouflage’ tra diversi incarichi amministrativi, non solo di natura tecnica, ma anche politici: i Magistrati diventano con facilità. Capi di gabinetto, Direttori generali, consiglieri di uomini politici, quando non passano direttamente dalla toga al laticlavio di parlamentare. Insomma, dire che l’attuale sistema garantisce l’indipendenza e l’autonomia del giudice italiano mi sembra quanto meno esagerato…

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