Dal 2000 al 2005 il fatturato derivante dalle vendite di prodotti equo-solidali è cresciuto del 20 per cento all’anno. Alcuni prodotti, poi, hanno raggiunto quote di mercato significative nei rispettivi segmenti. Ma l’aumento di fatturato e la sempre maggiore concorrenza tra “pionieri” e grande distribuzione comporta anche rischi. Primo fra tutti che di fronte a un eccesso di domanda, gli importatori cedano alla tentazione di battezzare come equo-solidali prodotti che provengono da filiere tradizionali. Con danni rilevanti per la reputazione dell’interno settore.

L’ultimo rapporto della European Fair Trade Association indica che il fatturato derivante dalle vendite di prodotti equo-solidali è cresciuto del 20 per cento all’anno dal 2000 al 2005, seppur partendo da livelli contenuti. Alcuni prodotti, poi, hanno raggiunto quote di mercato significative nei rispettivi segmenti: 47, 28 e 9 per cento per, rispettivamente, banane, fiori e zucchero in Svizzera, 20 e 5 per cento per il caffè macinato e il tè nel Regno Unito.
Si moltiplicano nel frattempo i tentativi di imitazione da parte delle grandi imprese transnazionali e le innovazioni equosolidali con la nascita di nuove filiere.

Cos’è il commercio equo-solidale

Il commercio equo e solidale è soltanto un esempio di un più vasto fenomeno: l’importanza crescente di elementi di responsabilità sociale nelle scelte di consumo e di risparmio dei cittadini. Si tratta in sostanza di un’estensione e di un perfezionamento della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, e dunque della democrazia economica, secondo un principio di azione dal basso che ha portato alcuni manuali a ridefinire l’azione di consumo dei cittadini nel tradizionale schema del circuito del reddito come “voto con il portafoglio”.(1)
Si definisce generalmente “equo-solidale” la gamma di prodotti, in prevalenza tessili e alimentari, che arrivano sul mercato attraverso una filiera produttiva che incorpora specifici elementi di responsabilità sociale e ambientale. I principali, che mirano a mettere in moto un processo di inclusione per produttori marginalizzati, sono: i) un mark-up controciclico sul prezzo di mercato per i produttori della materia prima o del semilavorato da utilizzare per investimenti in beni pubblici locali o per favorire l’investimento in capitale umano; ii) la fornitura di un canale di prefinanziamento per la produzione in alternativa a quello del mercato del credito informale; iii) l’assistenza tecnica e servizi all’export; iv) la sostenibilità ambientale del processo produttivo.
A una prima impressione, il mark-up sul prezzo sembra contraddire il principio che chiede di lasciarne al mercato la libera determinazione. In realtà, per i produttori di base la transazione che determina il prezzo di mercato avviene spesso in condizioni di monopsonio, o comunque di squilibrio di potere contrattuale, in quanto subiscono il monopolio degli intermediari finanziari locali e di quelli che trasportano il prodotto nei porti o nei mercati di sbocco.
Da questo punto di vista, il commercio equo e solidale offre un’opportunità alternativa che aumenta il potere contrattuale di tali produttori e realizza quindi efficacemente un’azione di institution building sopperendo così all’assenza di un’antitrust internazionale in questi settori. Ma anche al di là di questa riflessione, se consideriamo i prodotti come beni contingenti, ovvero come insiemi di caratteristiche fisiche e immateriali, è possibile concepire il commercio equo-solidale come l’apertura di un nuovo mercato e un processo di innovazione di prodotto che aumenta la soddisfazione dei consumatori. in particolare di quelli con preferenze orientate alla responsabilità sociale, e il loro gusto per la varietà. In questa prospettiva, il commercio equo e solidale rovescia il tradizionale suggerimento di dare valori al mercato dando un mercato ai valori, ovvero incorporando i valori all’interno dei prodotti venduti.
È inoltre evidente che non ha nulla a che fare con le tentazioni protezionistiche che si propongono di limitare l’accesso ai nostri mercati di prodotti di paesi a basso costo del lavoro. Non prevede barriere o dazi. Al contrario, stimola il consumatore all’acquisto volontario dei prodotti provenienti da tali paesi e propone loro un “voto con il portafoglio” per quelli che assicurano un maggior contenuto di valore sociale e ambientale. Tanto meno, il commercio equo-solidale può essere confuso con il bando ai prodotti che contengono lavoro minorile, perché promuove invece attivamente la rimozione delle cause del lavoro minorile attraverso l’integrazione dei salari delle famiglie di produttori locali. (2)

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Pionieri e imitatori

È molto interessante osservare la dinamica che il fenomeno equo-solidale ha generato in termini di concorrenza tra imprese che offrono prodotti finiti ai consumatori del Nord. L’ingresso dei “pionieri” equo-solidali ha rivelato l’esistenza di una quota di mercato non trascurabile di consumatori che, assieme ai tradizionali criteri di qualità e prezzo, sono attenti anche alle caratteristiche socioambientali dei prodotti. Ciò ha spinto gli attori tradizionali (grandi marche concorrenti e grande distribuzione) a imitarne parzialmente il comportamento, inserendo nella loro gamma alcuni prodotti del commercio equo e solidale. Se, da una parte, ciò ha avuto il merito di allargare il mercato di sbocco dei prodotti, dall’altra ha generato conflitti di interesse tra marchi, importatori e rivenditori esclusivi (“botteghe del mondo”), con i primi più propensi a collaborare con gli imitatori per ampliare la loro attività commerciale.
L’esplosione della moda dei prodotti equo-solidali e, più in generale, del consumo socialmente responsabile non comporta solo opportunità, ma anche rischi. L’offerta di prodotti con le caratteristiche dichiarate è necessariamente limitata, e il suo progressivo allargamento è costoso oltre a dipendere dalla definizione e dall’individuazione di nuove filiere. È perciò possibile che nel frattempo si determino eccessi di domanda. Il rischio è che ne derivi la tentazione per gli importatori di battezzare come equo-solidali prodotti che provengono da filiere tradizionali. E dunque il pericolo di danni rilevanti per la reputazione dell’ interno settore.
Il tempo dirà se le potenzialità prevarranno sui rischi e sui limiti.

(1) Samuelson P. A., W.D. Nordhaus, 2002, Economia, XVII Edizione, Mc Graw-Hill.
(2) In assenza di opportunità alternative, il bando può paradossalmente peggiorare la condizione dei minori.

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