Hanno risultati gestionali di breve termine generalmente buoni, ma le valutazioni di lungo periodo non annunciano un futuro roseo per le casse previdenziali dei liberi professionisti. La cura più efficace rimane il passaggio al metodo contributivo. E nessuna ha finora cercato di correggere il difetto della scarsa diversificazione del rischio. Dovrebbero essere le giovani generazioni, sulle quali maggiormente peserà l’onere delle attuali promesse, a invocare le soluzioni più lungimiranti, in grado di tutelare i loro interessi pensionistici. Il futuro delle casse previdenziali dei liberi professionisti interessa non soltanto gli iscritti, circa milione e mezzo tra attivi e pensionati, ma tutti gli italiani: come contribuenti, potrebbero essere chiamati a rimediare alle scelte non proprio lungimiranti di chi le amministra. Il primo decennale dellassociazione che riunisce le casse offre loccasione per una valutazione dinsieme: nella previdenza privata, non meno che in quella pubblica, le valutazioni si fanno guardando al lungo periodo e il futuro delle Casse non si annuncia roseo, a dispetto di risultati gestionali di breve termine generalmente buoni. Dopo la privatizzazione Dotate di autonomia statutaria e amministrativa dalla “privatizzazione” del 1993, le casse funzionano secondo il metodo della ripartizione, ossia senza accumulazione di riserve. Normalmente, però, presentano iscrizioni, nonché rapporti tra attivi e pensionati, assai favorevoli, capaci di generare saldi attivi tra contributi e prestazioni. Tutto ciò sembrerebbe legittimare non soltanto lottimismo con cui gli amministratori guardano alle prospettive per il futuro, ma anche il mantenimento di generose formule di calcolo della pensione (di tipo “retributivo”, ossia commisurate al reddito degli ultimi anni di lavoro), a dispetto del fatto che questo metodo, scarsamente compatibile con la sostenibilità finanziaria, sia già stato abbandonato, anche se con una transizione molto lunga, nellambito della previdenza pubblica e non sia più applicabile alle casse nate dopo il 1993. Piccoli passi Diagnosi così diametralmente opposte all’ottimismo suscitato dai surplus correnti sono parse, nella migliore delle ipotesi, astratte e irrilevanti. Tuttavia, a poco a poco, la solidità e la concretezza delle argomentazioni hanno cominciato a farsi strada. Qualche cassa ha preso coscienza dell’insostenibilità e ha intrapreso un percorso di riforma. In qualche caso, sono state aumentate le aliquote contributive; in altri, è stato allungato il periodo di riferimento della media dei redditi adottata per il calcolo della pensione; in altri ancora, si sono ridotte le percentuali da applicare, per ogni anno di iscrizione, a tale parametro.
La realtà è però ben diversa. La privatizzazione si è realizzata trascurando un aspetto fondamentale: la garanzia delle promesse fatte agli iscritti e, in particolare, alle nuove generazioni. Nel regime pubblico, è lo Stato a farsene carico: non sempre mantiene le promesse, ma potrebbe farlo ricorrendo alla tassazione. Quando però il gestore è un ente privato, quali misure potranno coprire il disavanzo quando – comè inevitabile che succeda con il “maturare” della gestione – i rapporti demografici saranno diventati meno favorevoli, le preesistenti riserve saranno state progressivamente consumate e il margine per aumentare le aliquote contributive sarà esaurito? Né il legislatore è stato particolarmente lungimirante nel fissare “paletti”, stabilendo un orizzonte di quindici anni per la valutazione della stabilità delle gestioni e una riserva non inferiore a cinque annualità dell’importo delle pensioni in essere.
I primi allarmi su queste insufficienze, testimoniate da bilanci tecnico-attuariali che mostrano inesorabilmente lassorbimento del patrimonio entro pochi lustri, sono stati lanciati sin dalla seconda metà degli anni Novanta. Si è fatto notare che il favorevole rapporto tra pensionati e attivi, per qualunque ragionevole ipotesi sull’andamento delle future iscrizioni, non poteva perdurare all’infinito e che il suo aumento avrebbe trascinato la spesa in rapporto al flusso contributivo. Si è contestualmente sostenuto che in materia previdenziale le previsioni debbono spingersi ad almeno cinque o sei decenni. Si sono effettuate, entro scenari realistici, proiezioni di lungo termine dell’andamento di contributi e prestazioni, e se ne è dedotta linsostenibilità dellattuale disegno.
Sì è infine sottolineata linsufficiente diversificazione del rischio: anche con gestioni in equilibrio, infatti, lo schema pensionistico fa dipendere le prestazioni dalla sola dinamica della categoria. In altre parole, mentre la pensione di un lavoratore dipendente è ancorata al prodotto interno lordo e perciò alla dinamica complessiva delleconomia, quella di uno psicologo o di un consulente del lavoro dipende, oltre che dai contributi versati, dallandamento specifico della categoria. Le categorie professionali però hanno vicende alterne: qualcuna cresce, qualcuna scompare e nessuna è, in ogni caso, in grado di crescere sistematicamente più della media delleconomia.
Queste misure riducono gli squilibri, non sono però sufficienti a risolvere il problema, al più provocano un differimento dell’anno di inizio dei disavanzi e dell’anno nel quale questi azzereranno le riserve. La cura più efficace, peraltro adottata soltanto da un paio di casse, rimane il passaggio al metodo contributivo.
Nessuna, o quasi, ha finora intrapreso strade in grado di correggere il difetto della scarsa diversificazione del rischio: aumentare le riserve per aumentare il grado di capitalizzazione o almeno perseguire in modo deciso lunificazione tra più casse (ci stanno provando ragionieri e commercialisti). Queste misure sarebbero utili non soltanto agli iscritti, i quali vedrebbero meglio tutelati i loro interessi pensionistici, ma ai contribuenti in generale, dato che la storia del nostro paese è ricca, purtroppo anche in campo previdenziale, di episodi di “privatizzazione degli utili” e di “collettivizzazione delle perdite”. A ben vedere dovrebbero essere le giovani generazioni, sulle quali maggiormente peserà lonere delle attuali promesse, a invocare le soluzioni più lungimiranti, in grado di difendere il loro futuro.
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fabrizio vignali
vorrei segnalare la unicità e nel contempo il demagocico impianto della cassa di previdenza dei medici (ENPAM.).
In un sistema pubblico e privato contributivo a partire dal 31/12/95 che dovrebbe valere per tutti( il consiglio di stato a gennaio 2006 sez VI n°182 sulla direttiva CEE 92/50 ha espressamente sentenziato la casse dei professionisti enti di diritto pubblico), questa cassa riesce ancora a sostenere il metodo a ripartizione grazie ai contributi versati dai medici dipendenti INPDAP,in virtù della iscrizione all’ordine, per avere il nulla( 150 euro netti/mese).All’interno di una categoria spezzata in due, ENPAM e INPDAP, prevale la prima a dettare le regole.Potrebbe essere una soluzione travasare contributi da una cassa all’altraa a seconda di voler mantenere a tutti i costi livelli di pensione prestabiliti a prescindere da tutto e finchè la barca và, lasciala andare.All’INPDAP vengono sottratti, destinati all’ENPAM, ogni anno, 1200 euro moltiplicati per i 90.000 medici dipendenti.Qualcuno può svipuppare meglio questa e renderla pubblica?
Dott Vignali Fabrizio.
Luigi Battezzati
Mi permetto di rilevare che le affermazioni dell’articolo sono molto qualitative e un pò generiche forse per ragioni di spazio non certo per competenza. Non mi pare che si possano paragonare facilmente le gestioni della diverse casse. Non sono un esperto del settore ma un iscritto a una cassa con un pò d’informazioni e un Ph. D. in Economia. Per esempio le casse dei Notai, Ingegneri, Medici, Geometri hanno composizione, trend di crescita, logiche di gestione e d’investimento che mi paiono diverse. Mi piacerebbe avere qualche valutazione più specifica per capire quanto le affermazioni dell’articolo siano generalizzabili e in che misura.
La redazione
Le affermazioni qualitative sono volute. Dato il vincolo dello spazio, entrare nel merito di singole casse avrebbe fatto perdere di vista il punto importante che vale per la generalità delle stesse, ossia l’inadeguatezza del disegno previdenziale che le caratterizza, indipendentemente dagli avanzi di breve periodo, dalle riserve più o meno ampie e dalla bontà dei rendimenti finanziari. Tale inadeguatezza dipende dall’impropria distribuzione del rischio e, per quelle casse che
ancora sono legate alla formula retributive, dall’eccessiva
generosità di tale formula.
Una visione più dettagliata sulle singole casse – inclusa quella dei medici – si può trovare in una ricerca del CeRP di Torino, realizzata da Luca Inglese e pubblicata da Guerini editore in un volume dal titolo “Il sistema previdenziale dei liberi professionisti. L’autonomia a quale prezzo?”.
Sulla base di un metodo di analisi rigoroso (cfr. O. Castellino, Le casse di previdenza dei liberi professionisti: un ottimismo da rivedere, in Moneta e credito, dic. 1998), il volume mostra come tutte le casse siano, nel volgere di qualche lustro o decennio, destinate ad assorbire il patrimonio. Chi pagherà allora le pensioni?
Se il legislatore è stato poco prudente, ciò non esime gli amministratori delle casse dal prendere provvedimenti per rafforzare la sostenibilità.
Il passaggio al metodo contributivo rappresenta la condizione minima; il rafforzamento della capitalizzazione è la strada da intraprendere per garantirla; l’unificazione delle casse, infine, migliorerebbe la distribuzione del rischio.
enzo ruggieri
Gentile Signora Fornero,
desidero ricordarLe che prima c’erano i fondi della previdenza degli statali accatonati dal Ministero del Tesoro. Con i governi del Centro Sinistra dal 1996 al 2001 il fondo pensioni degli statali è sparito. Come sono spariti o fondi GESCAL e “fondo credito”. Un tempo per gli statali non vigeva la previdenza ad onere ripartito perchè i fondi c’erano.
Poi la gestione delle pensioni degli statali, dal 2001 passò dal Tesoro all’INPDAP. Passò la gestione senza il fondo che era stato azzerato.
Questo purtroppo nessuno lo dice.
Grazie per l’attenzione.