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La Bce dei sospetti incrociati

I due candidati all’Eliseo parlano della necessità di ridiscutere lo statuto della Bce e di sottometterla alle decisioni politiche. Eppure, la banca centrale ha giocato un ruolo stabilizzatore. Mentre l’Eurogruppo non è riuscito a coordinare le politiche di bilancio degli Stati membri. Ma se si dà l’impressione di non aderire ai principi fondatori dell’Unione economica e monetaria, si creano le condizioni perché ogni proposta del governo francese venga guardata con diffidenza. Proprio quando la zona euro rischia di dover affrontare periodi difficili.

Il 7 dicembre scorso, dichiarando che la Banca centrale europea dovrebbe sottostare “alle decisioni politiche, sia dei paesi dell’Eurogruppo, ma anche del Consiglio europeo ” Ségolène Royal ha ripreso un tono, che suona familiare, di superiorità.
Già il 22 giugno, Nicolas Sarkozy aveva dichiarato che era “urgente creare un vero governo economico della zona euro e che si sarebbero dovuti ridiscutere lo statuto e gli obiettivi della Bce”. Potremmo continuare a lungo con dichiarazioni di questo genere: è uno di quegli argomenti in cui destra e sinistra poco o nulla si distinguono l’una dall’altra.
A questo consenso nazionale in Francia, si contrappone una unanimità tedesca per difendere la Bce da tutte le minacce reali o presunte alla sua indipendenza. La posizione della grande maggioranza dei dirigenti della zona euro è allineata quella della Germania. Questo significa che il futuro vincitore (o vincitrice) delle presidenziali francesi non avrà nessuna possibilità di ridurre l’indipendenza della Bce. Perché allora queste dichiarazioni? Quali ne sono gli effetti?

Prima di Maastricht

Partiamo dalle origini: Maastricht. I tedeschi avevano affrontato le prime negoziazioni in posizione di dominanza, forti del fatto che consideravano a giusto titolo che il loro modello di politica economica aveva ben funzionato di fronte all’ondata inflazionistica degli anni Settanta. Timorosi del fatto che le cattive istituzioni monetarie (quelle degli altri) avrebbero contaminato le buone (le loro), avrebbero accettato l’euro solo a condizione che venissero erette intorno alla banca centrale una serie di fortificazioni inespugnabili.
I francesi, da parte loro, erano arrivati al tavolo delle negoziazioni con un obiettivo: introdurre l’euro prima della fine del secolo nonostante le resistenze tedesche. Questo implicava la rinuncia al modello che Napoleone riassumeva in una frase: “voglio che la banca di Francia sia sufficientemente nelle mani del governo, ma non troppo”.
Per salvare le apparenze e proteggersi per il futuro, Pierre Bérégovoy, ministro delle Finanze, ha allora inventato un concetto vago: il governo economico. I tedeschi ci hanno immediatamente visto un cavallo di Troia contro l’indipendenza della Bce e sono state necessarie delle opere di convincimento affinché accettassero un impegno di coordinamento delle politiche economiche tra i governi, una suddivisione dei compiti sulla politiche di cambi e la creazione, ottenuta nel 1997, di un consiglio informale dei ministri delle Finanze della zona euro, l’Eurogruppo. Impegni ambigui e una struttura debole, contro una Bce pienamente consapevole del suo potere, dunque, ma una porta socchiusa all’approccio francese.
Quindici anni dopo Maastricht, l’Eurogruppo è tutto ciò che rimane del governo economico. È meno di quanto sperato, ma più di quanto atteso da molti. Gioca un ruolo analogo a quello di un G7 europeo in cui si parla di temi economici tra i ministri e con il presidente della Bce. Vi è da poco un presidente stabile, il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Coloro che vi partecipano lodano la sua assenza di formalismi; ma non ha mostrato né una grande iniziativa né una grande capacità di decisione, fatta eccezione per l’applicazione del Patto di stabilità.
Se guardiamo ai fatti, bisogna ammettere che il bilancio della Banca centrale europea è migliore di quello dell’Eurogruppo. Vero, si può criticare la sua filosofia ancora intrisa di monetarismo e credere che avrebbe potuto essere più reattiva, eppure abbassando i tassi quando la congiuntura era debole (nel 2001-2002) e rialzandoli quando la congiuntura era favorevole (nel 1999-2000 e nel 2005-2006), la banca centrale ha giocato un ruolo stabilizzatore. Non si può certo dire la stessa cosa delle politiche di bilancio degli Stati che l’Eurogruppo aspira a coordinare: sono state espansioniste nella fase di espansione (nel 2000) e al meglio neutre in fase di rallentamento (nel 2003-2004), accentuando le fluttuazioni invece che attenuarle.
È dunque bizzarro voler mettere l’istituzione che meglio è riuscita nel suo compito sotto l’ala di quella che invece non ha brillato nelle sue prove. La priorità dovrebbe essere, al contrario, stabilire un mandato per l’Eurogruppo e offrirgli i mezzi per portarlo a termine. L’emergenza è dovuta alle differenze di competitività che si stanno accumulando nell’area euro.
La Bce non ha alcun potere: non fa che gestire i tassi d’interesse comuni. Solo l’Eurogruppo può agire, facendo pressione sui governi affinché questi non lascino formare situazioni talmente asimmetriche che la politica monetaria comune perda il suo senso.
Nel concreto, si tratta di dialogare con l’Italia sui mezzi per recuperare la sua competitività e con la Germania sui limiti della crescita basata sulle esportazioni. Per questo, l’Eurogruppo, come la Commissione, ha come unica arma “dire brutalmente la verità”, per citare le parole di Keynes. Un’arma debole, non sufficientemente utilizzata, e l’Eurogruppo, ancora informale, manca di legittimità per gestirla. È a questo che bisogna porre rimedio. Ma perché i nostri partner l’accettino, bisogna che abbiano fiducia nelle intenzioni francesi.
Proporre di rivedere lo statuto della Bce ha parallelamente l’effetto di rafforzare le certezze di tutti coloro che vogliono che la Banca Centrale si trinceri nella sua torre d’avorio. Se si incontrassero, a Juncker e Trichet non mancherebbero certo gli argomenti di conversazione: da come condurre le riforme ai rischi di un apprezzamento eccessivo dell’euro. Ma quando il primo l’ha proposto (goffamente è vero), il secondo l’ha interpretato come una minaccia alla sua indipendenza. Siamo pronti a scommettere che in futuro accoglierà ancora con più sospetto ogni nuova proposta di incontro, soprattutto se suggerita dalla Francia.
Dando ripetutamente l’impressione di non aderire ai principi fondanti dell’Unione economica e monetaria, i dirigenti politici francesi stanno così creando le condizioni perché ogni proposta di progresso del suo governo venga ormai guardata con diffidenza. La zona euro rischia di affrontare presto periodi difficili. Si vuole dunque che si trovi nella tempesta con al timone partner sospettosi, un Eurogruppo timido e una banca centrale acrimoniosa?

Leggi anche:  La competitività dell'Europa passa anche da Est*

* La versione originale dell’articolo è disponibile sul sito www.telos-eu.com. Versione italiana a cura di Serena Fumagalli e Ludovico Poggi

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  1. Giacomo Dorigo

    Quello di cui ha bisogno l’ eurogruppo è che i poteri dei ministri dell’ economia dei singoli stati vengano conferiti interamente ad un ministro dell’ economia dell’ eurogruppo che renda conto ai rappresentanti dei parlamenti nazionali (per es. 3 per ogni parlamento eletti dai parlamenti stessi) riuniti in una camera federale e ad una versione ristretta del parlamento europeo che contempli i parlamentari eletti solo negli Stati dell’area euro.
    In poche parole se non si riesce a rende tutta l’UE uno Stato federale, dovremmo renderla tale almeno a livello economico nell’ area euro.
    Nessuno andrebbe a toccare i poteri della BCE ma finalmente qualcuno avrebbe poteri sufficienti per fare le riforme simultaneamente in tutta l’area euro

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