Fino al dicembre del 2003, l’Italia aveva un apparato di regole sufficientemente moderno per le imprese che, pagando regolarmente i creditori, erano governate dai loro azionisti. Per un eventuale crisi, scattavano però regole la cui origine era rintracciabile nel medioevo. Un panorama sconfortante, cambiato sotto i colpi di maglio del caso Parmalat. Ora occorre fare tesoro di quest’esperienza, unica e che tale deve restare, e razionalizzare la normativa per tutte le imprese, grandi, piccole e medie.

Il dissesto di Parmalat, di cui da qualche settimana si parlava in modo sempre più insistente, divenne manifesto il 18 dicembre 2003, quando Bank of America rese noto che l’immensa massa di liquidità, che la società diceva di avere lì depositata, non esisteva. L’assoggettamento del gruppo a una procedura d’insolvenza era ormai solo questione di giorni.
La procedura cui Parmalat era predestinata (l’amministrazione straordinaria detta Prodi-bis) prevedeva che l’attività d’impresa venisse provvisoriamente continuata da uno o più commissari straordinari (che non sono dei manager), in attesa di trovare un compratore per le aziende, le partecipazioni e gli altri beni del gruppo Parmalat. I creditori sarebbero stati soddisfatti con il denaro così ricavato. (1)
In quelle ore concitate emerse la consapevolezza che il caso Parmalat era troppo grande per queste regole, non sbagliate, ma certo poco coraggiose. Occorreva rassicurare il mercato nazionale e internazionale, creditori, fornitori e consumatori, sul fatto che Parmalat sarebbe rimasta in vita senza interruzioni dell’attività, sotto la guida di un manager di elevata reputazione. Per questo, il 23 dicembre il governo emanò un decreto-legge che, nella sostanza, consentiva di saltare la fase di osservazione in vista di una ristrutturazione, e con l’occasione rafforzava il controllo ministeriale sulla procedura. Il decreto non costituiva di per sé un aiuto di Stato, né ne prevedeva la futura concessione. (2)

Una legge-fotografia, ma con spunti interessanti

Nei mesi successivi, anche con il contributo dell’opposizione di sinistra, il Parlamento adeguò più volte la normativa speciale per Parmalat, fino a dar vita a una sorta di legge-fotografia: ciò che era astrattamente possibile secondo gli organi della procedura diventava prontamente legge dello Stato.
Questa creatura, benché partorita in brutte circostanze e perciò disorganica, presentava una serie di spunti interessanti:
(a) per la prima volta nel nostro sistema, si consentiva al commissario straordinario di effettuare una ristrutturazione finanziaria, e non solo una ristrutturazione industriale. L’implicazione fondamentale di questa novità fu che la vendita dei beni di Parmalat non era più l’unica possibilità, in quanto diventava possibile trasferire l’azienda e il resto del patrimonio direttamente ai creditori, allo scopo di recuperare per loro (non per gli azionisti) un valore più alto;
(b) ancora per la prima volta, si consentiva al commissario di fare ai creditori un’offerta differenziata, secondo le loro caratteristiche specifiche: diveniva infatti possibile suddividerli in varie “classi”, con caratteristiche e interessi omogenei, costruendo per loro una sorta di vestito su misura e massimizzando così il risultato complessivo.

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Sulla base della nuova legge, Parmalat ha proposto un concordato ai suoi creditori, che nell’ottobre 2005 li ha trasformati in azionisti (liberi di vendere, monetizzando un valore delle azioni superiore alle attese). (3)
Nel frattempo veniva riformata, in due tranche, fra il marzo 2005 e il gennaio 2006, la normativa prevista per il resto delle imprese. La riforma operava una decisa modernizzazione, consistente anche nell’applicare a tutte le imprese in crisi alcune delle novità scaturite dall’esperienza Parmalat. (4)

È tutto oro quel che luccica?

Le regole sulla crisi d’impresa sono importantissime per il sistema economico: governano la transizione del controllo sull’impresa dagli azionisti ai creditori e assicurano, per quanto possibile, la soddisfazione dei creditori. Ciò genera costi più bassi del credito e investimenti più ampi e, in definitiva, produce una maggiore ricchezza e competitività del paese. (5)
Se l’esperienza di Parmalat è stata importantissima per lo sviluppo della normativa, e questo è forse l’unico aspetto positivo della vicenda, ci sono valide ragioni per ritenere che essa non possa e non debba essere mai ripetuta. Infatti, 1) l’efficienza della procedura si è accompagnata all’attribuzione di grandi poteri al ministro, e dunque a una diminuzione di trasparenza e di controlli sugli atti compiuti dagli organi della procedura; 2) poco (o nessun) potere è stato lasciato ai creditori di Parmalat, se non quello di approvare un pacchetto (il concordato) “prendere o lasciare”. Sono stati trattati come i pazienti che subiscono un’operazione: possono decidere se farla o non farla, ma non dare consigli al chirurgo in sala operatoria, e debbono solo sperare che sia bravo. In questo caso è stato così – la vicenda è stata gestita molto bene sotto vari profili e i risultati sono stati ottimi. Ma certo non si tratta di un modello che vorremmo vedere riprodotto, e che in altri casi non ha funzionato (vedi Volareweb); 3) la nuova normativa, anche dopo le recenti riforme, continua a riservare alla crisi delle grandi imprese (200 dipendenti e oltre) un trattamento preferenziale e, soprattutto, meno trasparente e rispettoso dei meccanismi di mercato.
In più, con la riforma del 2006 si è ampliata a dismisura la categoria dei piccoli imprenditori non soggetti alla legge fallimentare: si è così lasciata priva di qualsiasi tutela circa la metà delle imprese italiane, che non possono più fallire, ma nemmeno salvarsi e ristrutturarsi. (6)
Una scelta molto grave.
Efficienza e trasparenza non sono risorse scarse. Non occorreva razionarle. Traiamo dunque dall’esperienza di Parmalat i tanti spunti che ci ha fornito, ma adesso archiviamola per sempre, come caso unico che tale deve restare. Occorre ora razionalizzare la normativa e applicarla, anche se con i dovuti adattamenti, a tutti: grandi, medi e piccoli imprenditori. Ma ci sono poche speranze che tutto ciò accada, perché la classe politica sembra ormai contenta così.

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(1) Regolata dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 270. Esisteva in astratto la possibilità di evitare la vendita delle aziende mediante una ristrutturazione (basata su accordi con i singoli creditori), ma la gravità del dissesto (con oltre 10 miliardi di euro di sbilancio) e l’altissimo numero di creditori la rendeva del tutto inverosimile.
(2) Decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347. Per un commento si veda: Cos’è il “decreto Parmalat”, https://www.lavoce.info/articoli/pagina846.html
(3) Sulla struttura del piano Parmalat si veda: Se Parmalat dà il buon esempio, https://www.lavoce.info/articoli/pagina1134.html
(4) Decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, e decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5.
(5) Si veda Luigi A. Franzoni, Daniela Marchesi, Economia e politica economica del diritto, Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 235-259.
(6) Piccoli imprenditori sono ora quelli con un fatturato fino a 200mila euro annui e investimenti fino a 300mila euro. La nuova legge fallimentare, più efficiente per i creditori e meno punitiva per gli imprenditori, si applicherà così a circa il 51,9 per cento delle imprese incluse nel campione Cerved (fonte: Magda Bianco, Monica Marcucci, Bankruptcy reform in Italy: an efficiency evaluation, mimeo presentato alla Società italiana di Diritto ed economia, Roma, 20 ottobre 2006).

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