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Chi lavora in famiglia?

E’ l’anno delle pari opportunità e si sostiene da più parti che occorre aumentare il lavoro delle donne. Ma in Italia già oggi lavorano più degli uomini. Lo fanno senza essere pagate, nella cura della casa e dei famigliari. E quando lavorano per un salario spesso rinunciano ad avere figli. Se vogliamo davvero aumentare il benessere di più della metà degli italiani c’è bisogno di misure che riconcilino lavoro e responsabilità famigliari per le famiglie a basso reddito. Proponiamo di introdurre un contributo alle spese per i servizi di cura dei bambini piccoli e/o degli anziani. Non convince invece nè l’idea di diminuire le tasse delle donne e alzare quelle degli uomini nè quella di introdurre un quoziente famigliare.

Chi lavora in famiglia?, di Tito Boeri e Daniela Del Boca

Le donne italiane lavorano più degli uomini: in media 8 ore al giorno contro meno di 7 per gli uomini. Ma solo un quarto delle loro ore di lavoro è remunerato contro due terzi per gli uomini. Gran parte del lavoro delle donne è dedicato alla casa, alla cura dei famigliari e agli acquisti. E più di una donna su due non ha un lavoro remunerato del tutto: si tratta principalmente delle donne con bassa istruzione (solo un terzo di queste ha un impiego remunerato), che vivono al Sud (dove solo 4 donne su 10 hanno un impiego) e che hanno figli piccoli (solo il 53 per cento di queste lavora contro il 70 per cento delle donne senza figli).

Il circolo vizioso bassa partecipazione, bassa fertilità

Solo il 30 per cento delle donne italiane riprende a lavorare dopo avere avuto un figlio. E il basso reddito famigliare spinge le donne a non avere spesso più di un figlio . Si crea così un circolo vizioso di bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e bassa fertilità. Le donne lavorano di più, ma a casa e nella cura dei figli e dei genitori anziani. E diventa questo il ruolo loro assegnato. Le indagini di opinione documentano come in Italia ci sia un atteggiamento fortemente ostile rispetto all’idea di portare i figli con meno di 3 anni agli asili nido. È un atteggiamento più forte tra gli uomini che tra le donne . Ed è anche per questo che in Italia ci sono pochi asili nido privati (oltre che pubblici). Costano troppo in rapporto al reddito che le donne potrebbero ottenere sul mercato e alla sanzione sociale legata al fatto di affidare i figli ai nido.

Aiutare la famiglia non imponendo alle donne di averne una

Per spezzare il circolo vizioso, bisogna permettere alle donne che lavorano di comprare sul mercato i servizi di assistenza per gli anziani e di mettere i figli negli asili nido, anche quando il loro reddito da lavoro di per sé non permetterebbe loro di accedere a questi servizi. È un problema non solo economico. Bisogna al contempo superare la sanzione sociale rispetto a chi si affida a servizi di cura acquisiti sul mercato: più donne lo fanno, in questo senso, meglio è anche perché stimola più concorrenza nel mercato e, dunque, costi più bassi per i nidi privati. (1) La proposta di ampliamento del numero dei asili nido contenuta nella Finanziaria 2007 va in questa direzione. Ma non basta. Utile anche rafforzare il potere contrattuale delle donne nella famiglia, ponendole nella condizione di imporre agli altri famigliari di poter lavorare acquistando sul mercato servizi specializzati di cura. E di poterlo fare anche quando non sono sposate, anche quando non convivono con un altro adulto generatore di reddito.
È un modo per aiutare la famiglia, senza imporre il fatto di avere una famiglia. Proprio perché non si impone alla donna di doversi da sola prendere carico dell’intera famiglia.

Un credito di imposta per la cura dei figli e dei famigliari dipendenti

Uno strumento che, se adattato al contesto italiano, potrebbe rispondere a tali requisiti è un credito d’imposta per i famigliari a carico, che riprenda gli aspetti più convincenti delle esperienze del Working Family Tax Credit (WFTC) e del Child Tax Credit (CTC) introdotti nel Regno Unito dal 2003.
Il credito di imposta per i famigliari a carico dovrebbe coprire il 70 per cento delle spese effettivamente sostenute per la cura dei figli (sia nel settore pubblico che nell’ambito di istituti privati), fino a un limite massimo predeterminato, ad esempio 3mila euro. La concessione di un credito d’imposta anziché di un trasferimento avrebbe il vantaggio di incentivare forme di lavoro regolare, scoraggiando invece gli impieghi nel sommerso. Tuttavia, per chi non supera il reddito minimo imponibile, il credito d’imposta dovrebbe essere concesso come trasferimento diretto, come imposta negativa (oppure come franchigia nel caso in cui venisse introdotto in Italia un reddito minimo garantito). Anche il fatto di dover documentare le spese per la cura di figli o parenti anziani servirebbe a far emergere attività oggi sommerse (ad esempio il lavoro delle badanti) contribuendo a finanziare la misura anche con l’ampliamento della base contributiva.
Il credito d’imposta per i famigliari a carico dovrebbe essere concesso direttamente alle donne (2) ed esclusivamente a due condizioni: i. un reddito complessivo della persona, della famiglia o della coppia di fatto inferiore a una soglia prestabilita e ii. nel caso di una coppia, il fatto che entrambi i suoi componenti siano occupati, anche part-time. Quest’ultima condizione serve a imporre che l’onere della cura dei famigliari non ricada interamente su di un membro della coppia.
I costi di questa misura dipendono chiaramente dalla soglia di reddito prestabilita. Ponendo la soglia a 10mila euro per un genitore single con un figlio, graduando la soglia in base alla scala di equivalenza di Carbonaro per le famiglie con una composizione diversa e circoscrivendo la misura a famiglie con figli con meno di 3 anni, si ottiene che circa il 2 per cento delle famiglie italiane ne potrebbero beneficiare. Ipotizzando che il credito sia mediamente di 1.500 euro, si ottiene un costo attorno a 700 milioni di euro all’anno per questa misura. Potrebbe essere finanziata assorbendo i finanziamenti per il fondo nazionale per le non autosufficienza, cui non è stata trovata ancora destinazione e nell’ambito di interventi di razionalizzazione degli assegni famigliari. L’ampliamento della base contributiva legata alla commercializzazione di servizi precedentemente prestati dalle madri, contribuirebbe anch’esso al finanziamento della misura, anche se riteniamo prudente non tenere conto di questi effetti.

Perché siamo contrari al quoziente famigliare e alle aliquote differenziate per genere

Si tratta di una proposta molto diversa da quella recentemente avanzata da Alberto Alesina e Andrea Ichino  che sono favorevoli ad aumentare le tasse di tutti gli uomini e ridurre quelle di tutte le donne, a parità di gettito. La loro proposta, a nostro giudizio, è basata su di un presupposto sbagliato, quello secondo cui l’offerta di lavoro delle donne è maggiormente influenzata di quella degli uomini da variazioni nei redditi da lavoro, per ragioni in gran parte indipendenti dalla loro posizione nel mercato del lavoro e nella famiglia (i due autori fanno riferimento a ragioni biologiche). In realtà la cosiddetta elasticità al salario dell’offerta di lavoro femminile è molto simile a quella degli uomini quando ricade su di loro interamente la funzione di generare reddito in famiglia (ad esempio nel caso di madri single). Questo significa che la diversa elasticità è almeno in parte il frutto dei rapporti di forza interni alla coppia, condizionati a loro volta dal rapporto col mercato del lavoro (e dalla dotazione di servizi per l’infanzia o per gli anziani non autosufficienti). Il che rende fortemente incerto l’impatto di aliquote differenziate per genere sull’offerta di lavoro complessiva.
Una politica efficace a sostegno dell’uguaglianza di opportunità dovrebbe perciò cercare di intervenire su ciò che sta alla base di queste differenze di comportamento nell’accesso al mercato del lavoro, soprattutto in un paese come l’Italia dove il potere contrattuale nella coppia (anche per ragioni culturali) è fortemente sbilanciato a favore degli uomini. Si tratta allora di offrire soprattutto alle donne la possibilità di conciliare lavoro sul mercato e responsabilità famigliari.
Un credito d’imposta per la cura dei famigliari avrebbe anche effetti redistributivi migliori di una riduzione generalizzata delle tasse delle donne, essendo circoscritto alle famiglie con redditi più bassi. Non si vede perché dovremmo ridurre ulteriormente le tasse ai partner di ricettori di stock option milionarie, a fronte di uomini single spinti al lavoro sommerso per via di aliquote fiscali attorno al 70 per cento (come contemplato dalla proposta di Alesina e Ichino).
Non convince neanche la proposta di introdurre un quoziente famigliare, definendo l’aliquota fiscale in base al reddito pro-capite della famiglia, anziché del singolo, in quanto tenderebbe a ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro femminile. Trasferisce infatti sul membro della famiglia con reddito più basso parte del carico fiscale del coniuge, mentre con un sistema di tassazione individuale, come quello vigente, l’imposta si applica separatamente al reddito di ciascun componente della famiglia. Per capire gli effetti negativi sull’offerta di lavoro legati all’introduzione di un quoziente famigliare basta guardare a cosa è successo in Italia quando nel 1974 si è passati dalla tassazione su base famigliare (in regime di cumulo dei redditi) a una su base individuale. Come mostra la tabella qui sotto, il tasso di occupazione delle donne è cresciuto mentre quello degli uomini diminuiva. Introducendo oggi il quoziente famigliare rischiamo di fare l’operazione opposta: ridurre il tasso di occupazione delle donne e aumentare quello degli uomini. (3)

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Tasso di Partecipazione

Tasso di Occupazione

Prima

Dopo

Prima

Dopo

1972-1974

1975-1977

1972-1974

1975-1977

Uomini

77.55%

78.50%

0.95%

76.17%

75.73%

-0.44%

Donne

28.57%

32.00%

3.43%

27.31%

29.51%

2.20%

Effetto su donne

   2.48%

Effetto su donne

 2.64%

 

(1) Gli studi sull’effetto su aumenti degli asili per bambini da 0 a 3 anni mostrano che è l’offerta di lavoro delle donne con bassa istruzione/reddito e delle madri sole a essere più sensibile a variazioni dei costi e disponibilità dei servizi: un aumento del 10 per cento dell’offerta di asili aumenta la partecipazione delle meno istruite di quasi il doppio delle più istruite .
(2) L’evidenza empirica mostra che il reddito percepito dalle madri ha un impatto maggiore sulle spese riguardante i figli dal reddito ricevuto dai padri (vedi per esempio Lundberg S. R. Pollak and T. Wales “Do Husbands and Wives Pool Resources? Evidence from the UK Child Benefit,” Journal of Human Resources, Summer 1997 e Duncan Thomas “
Intra-Household Resource Allocation: An Inferential Approach“, Journal of Human Resources Fall 1990)
(3) C’è un altro aspetto messo in luce dalla tabella: aumentare l’offerta di lavoro femminile non comporta aumentare nella stessa misura l’occupazione femminile. C’è, in altre parole, anche un problema di domanda di lavoro, soprattutto nelle regioni del Sud. Su questo piano l’operazione avviata nell’ultima Finanziaria con la riduzione dell’Irap per le assunzioni femminili nel Mezzogiorno sembra andare nella direzione giusta.

Donne, lavoro e biologia, di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Tito Boeri e Daniela del Boca affermano che la nostra proposta di tassazione differenziata per genere è basata su “(…) un presupposto sbagliato, quello secondo cui l’offerta di lavoro delle donne è maggiormente influenzata di quella degli uomini da variazioni nei redditi da lavoro, per ragioni in gran parte indipendenti dalla loro posizione nel mercato del lavoro e nella famiglia (i due autori fanno riferimento a ragioni biologiche)”.

Non riusciamo a capire dove Boeri e del Boca possano aver trovato menzione di questo “presupposto” nei nostri articoli (scientifici e sui quotidiani). Valga, ad esempio del contrario, la frase di apertura del nostro articolo sul Sole24Ore del 27 marzo in cui scriviamo: “Lavorare fuori casa è più difficile per le donne che per gli uomini per motivi biologici e culturali. Gli uomini non possono sostituirsi alle donne nella gravidanza e, piaccia o no, data l’attuale divisione dei ruoli nella famiglia e nella società, sono ancora le donne a occuparsi maggiormente dei figli”.

Nessuno di noi ha mai scritto che la diversa elasticità dell’offerta di uomini e donne dipenda solo da ragioni biologiche. Abbiamo detto che ragioni biologiche e ragioni culturali contribuiscono insieme a generare differenze di partecipazione al lavoro, e in particolare differenze di elasticità dell’offerta.

 

Il tabù delle differenze biologiche

 

Purtroppo, parlare di differenze biologiche è “tabù”, soprattutto nella sinistra, anche se si tratta di differenze evidenti a tutti, come il rischio di gravidanza. Ma ritenere che esistano differenze biologiche rilevanti per la partecipazione al lavoro non significa pensare che siano le sole differenze rilevanti. Boeri e Del Boca associano la nostra proposta a un presupposto che nessuno di noi si è mai sognato di affermare e che non è necessario per la validità della proposta stessa.

L’elasticità dell’offerta è diversa tra uomini e donne per molti motivi, tra cui senz’altro anche la posizione delle donne nella famiglia e nel mercato. Quali che siano le ragioni di queste differenze, la loro esistenza oggi suggerisce che sia ottimale dal punto di vista fiscale tassare le donne meno degli uomini. Oltre a conseguire questo obiettivo di efficienza fiscale (a costo zero per il bilancio), la nostra proposta consente anche di facilitare l’accesso al mercato delle donne, come auspicato da Boeri e Del Boca.

E questo aiutando non solo le donne che decidono di avere figli, ma tutte le donne che lavorano e che sono discriminate perché potrebbero avere figli.

Poiché le differenze nell’offerta di lavoro maschile e femminile non sono esogene e immutabili, nel lungo periodo la tassazione differenziata per genere contribuirà a cambiare la tradizionale divisione del lavoro all’interno della famiglia che attualmente vede gli uomini lavorare di più nel mercato e le donne di più a casa. Se e quando questo accadrà (come molti auspicano) le elasticità dell’offerta di lavoro maschile e femminile diventeranno più simili.

Nella misura in cui questo accada, si potrà ridurre gradualmente la differenziazione per genere delle aliquote, come suggerito dalla teoria della tassazione ottimale e come spieghiamo nel nostro articolo scientifico. Ecco perché la nostra proposta non richiede come presupposto che le differenze di elasticità tra donne e uomini siano esogene e immutabili. È vero però, come illustrato recentemente da Alberto Alesina e Paola Giuliano, che la riduzione delle differenze sarà lenta. La nostra proposta può accelerare questa evoluzione.

 

Una proposta che si auto-finanzia

 

Tutto sommato non si vede perché Boeri e Del Boca vogliano a tutti i costi contrapporre la loro proposta contro la nostra: ben vengano tutte e due, avendo intenti simili. Stupisce però che da un economista come Tito Boeri che più volte ha scritto criticando il governo per l’incapacità di contenere la spesa pubblica, venga una proposta la cui copertura finanziaria è tutta da dimostrare. Al contrario, la nostra proposta si auto-finanzia. In Italia, non appena si parla di ridurre il prelievo fiscale sorgono subito mille obiezioni, mentre se si parla di aumentare la cosiddetta spesa sociale la strada sembra spianata da qualsiasi obiezione compreso il suo finanziamento.

Infine, non è chiaro quale sia il fallimento del mercato che dovrebbe giustificare un sussidio pubblico alla fertilità. Perché chi non ha figli dovrebbe sovvenzionare chi ha liberamente deciso di averne? Ma anche se vi fosse un buon motivo per sussidiare la fertilità, la nostra proposta ha un altro scopo e quindi non va giudicata da questo punto di vista.

 

Ps

Forse Boeri e del Boca avevano in mente il fatto che uno di noi (Andrea Ichino) ha mostrato, in un articolo con Enrico Moretti, che il ciclo mestruale determina un maggiore assenteismo ciclico nelle donne e comporta per loro dei costi in termini di salari e carriere. In quell’articolo, Moretti e Ichino suggeriscono la possibilità che gli uomini vengano chiamati a compensare le donne per le conseguenze economiche del ciclo mestruale di cui le donne non sono responsabili. Ma nulla dicono o intendono dire sulla relazione tra ciclo mestruale ed elasticità dell’offerta.

Dar credito alle donne, di Chiara Saraceno

Le ricerche empiriche sulla offerta di lavoro femminile mostrano non solo che le donne che hanno figli sono penalizzate dalla divisione del lavoro familiare, ma che questa penalizzazione è diversa a seconda del livello di istruzione e qualificazione professionale, oltre che di residenza geografica.

Donne che lavorano

Le donne più istruite e con migliore qualificazione professionale, che di solito sono anche sposate con uomini istruiti e con buona qualificazione, riescono a mantenere una continuità di partecipazione al mercato del lavoro di gran lunga superiore a quella delle donne a bassa istruzione: perché fanno lavori più gratificanti e meglio remunerati, che è quindi più costoso – in termini culturali e finanziari – abbandonare per dedicarsi esclusivamente alla famiglia; perché il loro reddito da lavoro, unito a quello del marito, consente loro di acquistare sul mercato la parte di lavoro di cura e di servizi domestici che non effettuano loro direttamente (e che non è quasi mai compensata da una maggiore partecipazione del marito). Nelle coppie ad alta istruzione e con buona qualifica professionale, perciò, è più facile che vi siano due percettori di reddito, mentre nelle coppie a bassa istruzione è più facile che ce ne sia uno solo, e con un reddito basso.
Alla luce di queste evidenze empiriche condivido le obiezioni di Tito Boeri e Daniela Del Boca alla proposta di Alberto Alesina e Andrea Ichino di detassare il lavoro femminile in generale, contestualmente aumentando la tassazione per quello maschile, altrettanto in generale. Il divario tra le coppie ricche, insieme di reddito e di lavoro, e quelle povere sia di reddito che di lavoro aumenterebbe. I costi per il bilancio pubblico della detassazione del reddito da lavoro della insegnante moglie del professionista (con o senza figli) sarebbero pagati dalle tasse più alte dell’operaio metalmeccanico in una coppia monoreddito, magari con figli.
Il problema della offerta di lavoro femminile sta nel combinare responsabilità familiari e partecipazione al mercato del lavoro, una difficoltà più grave (e con minori contropartite sul piano dei vantaggi) per le donne a bassa qualifica e che vivono nel Mezzogiorno. Condivido perciò la proposta di Boeri e Del Boca di utilizzare piuttosto lo strumento del credito di imposta – integrato da una imposta negativa in caso di incapienza – che compensi, alle donne che lavorano, parte delle spese di cura certificate.

Crediti per il lavoro e la pensione

Il credito di imposta è uno strumento in varie forme utilizzato per incentivare al lavoro persone altrimenti a rischio di entrare nel novero dei beneficiari di assistenza sociale. Ma può benissimo essere utilizzato per riconoscere il costo della cura per le lavoratrici, anche se limitatamente a quelle a reddito più basso. Unito all’ampliamento della offerta di servizi per la prima infanzia e a una riduzione del loro costo soprattutto per chi ha un reddito modesto (oggi basta essere occupati in due per pagare la tariffa piena), avrebbe un potente effetto di sostegno alla occupazione delle donne che fanno più fatica, e hanno meno convenienze, a rimanere nel mercato del lavoro.
Certo, la cosa ha un costo. Ma molte ricerche empiriche hanno mostrato che il lavoro femminile aumenta la domanda di lavoro, quindi anche la base imponibile. Inoltre, se ci si muovesse in questa direzione, si potrebbe affrontare anche la questione della età pensionabile delle donne. Come ho avuto modo di scrivere su La Stampa, l’equiparazione della età pensionabile delle donne a quella degli uomini dovrebbe avvenire contestualmente al riconoscimento del lavoro di cura che molte di loro effettuano. Ciò può avvenire con una combinazione di strumenti: crediti di imposta, crediti pensionistici, servizi. È in questo tipo di interventi che dovrebbe essere investito il risparmio derivante dall’innalzamento dell’età pensionistica delle donne.
Sono meno d’accordo, invece, sulla proposta di Boeri e Del Boca di utilizzare il fondo per la non autosufficienza, sia perché è una voce che non si sa se sarà in bilancio anche negli anni prossimi, sia perché la questione della non autosufficienza è altrettanto grave di quella della cura dei più piccoli. Richiederebbe più, non meno, risorse.

La controreplica degli autori ad Alesina e Ichino

Ringraziamo Alberto Alesina e Andrea Ichino per i loro chiarimenti e perché ci permettono di approfondire le ragioni sia della nostra proposta, che delle nostre critiche alla loro.

Cominciamo dalle prime. Riteniamo utile sussidiare due cose al tempo stesso — il lavoro formale delle donne e la fertilità – perché l’Italia è oggi intrappolata in un equilibrio fatto di bassa fertilità e bassa partecipazione. E’ una situazione molto diversa da quella prevalente negli altri paesi Ocse dove più donne lavorano e si fanno più figli. Confortati dai risultati di molte indagini, riteniamo che questa situazione non corrisponda a una condizione ottimale né per le donne né per la società nel suo complesso. Per ragioni culturali (lo stigma associato a chi mette i figli in un nido) e per il fatto di avere una ristretta base imponibile (molte donne lavorano a casa e i servizi di cura domestica sono anch’essi informali) ci sono pochi servizi per l’assistenza dei figli e, quindi, è più difficile che in altri paesi per le donne conciliare lavoro e famiglia. Dunque si fanno pochi figli e chi fa figli (e ha bassi redditi) è costretta ad uscire dal mercato. Le due cose vanno di pari passo. La nostra proposta serve ad affrontare al contempo il problema culturale e quello di base imponibile.
La nostra proposta ha costi limitati, ma non zero. Per questo ne proponiamo anche una copertura. Essere contro la crescita della spesa pubblica non impedisce di proporre una diversa composizione della stessa.

Le nostre perplessità sulla proposta di Alesina ed Ichino di differenziare le tasse per genere si basano sulle seguenti argomentazioni.

1) Le donne non sono un gruppo omogeneo come non lo sono gli uomini. Quindi la differenziazione della tassazione per genere rischia di essere ancora più distorsiva dello status quo. Le differenza fra generi possono rivelarsi più contenute di quelle all’interno di ciascun genere. Ad esempio, le elasticità alla variazione del reddito da lavoro delle donne non sposate e delle madri singole non sono molto diverse da quelle degli uomini. Tra gli uomini vi sono differenze importanti nelle elasticità a seconda che si tratti di giovani che hanno come attività alternative lo studio o di anziani che hanno come alternativa la fruizione della pensione.
2) La diversa elasticità tra donne e uomini a variazioni di reddito da lavoro sembra essere in gran parte il risultato di una divisione del lavoro nella famiglia. Sono principalmente le donne sposate (specie se con figli) ad avere una elevata elasticità in quanto impegnate in attività alternative (cura dei figli e lavoro domestico). Non è perciò affatto chiaro che ridurre le aliquote per le donne in questo caso aumenterebbe l’offerta di lavoro della famiglia. Alesina e Ichino basano le loro conclusioni (e la loro convinzione che la proposta sia politicamente fattibile) sull’ipotesi che la famiglia sia composta da persone tutte con le identiche preferenze con decisioni indipendenti dalla distribuzione del reddito familiare. E’ una ipotesi confutata da molti studi applicati in questi anni.
3) Quanto sopra indica che la diversa elasticità dell’offerta di lavoro femminile riscontrata da diversi studi empirici (non tutti!) può essere legata a fattori essi stessi influenzati dalla struttura del sistema fiscale. Inoltre c’è una fortissima incertezza sulle stime. Quindi fondare una proposta di tassazione differenziata su questi valori è quanto meno rischioso.
4) Alesina e Ichino non si preoccupano delle implicazioni della loro proposta sulla distribuzione del reddito che porta, a parità di reddito individuale, a tassare molto di più un operaio single della compagna di un ricettore di stock options milionarie. In presenza di aliquote fortemente differenziate per genere (nei calcoli di Alesina ed Ichino le aliquote per gli uomini sono del 70% contro il 30% per le donne) vi potrebbero essere effetti importanti anche sulle scelte di matrimonio (agli uomini converrebbe sposarsi mentre alle donne no) di cui gli autori non sembrano voler tenere conto.

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25 commenti

  1. riccardo boero

    Purtroppo ancora una volta si devono leggere proposte, che seppure meno deliranti di quella di discriminare i contribuenti in base al sesso (e per i trans?), ricorrono sempre al vecchio trucco dell’elemosina statale per agire sul lato della domanda.
    Riflettendo sulle probabili reazioni del mercato alla forzatura statale del credito di imposta per la cura di familiari infanti o non autosufficienti, viene subito da pensare al nuovo ingresso di un gran numero di donne (o uomini naturalmente) su un mercato del lavoro gia` asfittico e assediato dall’immigrazione.
    Se da un lato e` proprio cio’ che gli esimi Autori cercano di provocare, dall’altro non vanno dimenticate le pressioni al ribasso sui salari, conseguenti a un improvviso e rapido aumento dell’offerta di manodopera. Il provvedimento del credito d’imposta risulterebbe dunque neutro per molti soggetti e penalizzante per chi non ha la fortuna di avere figli infanti o anziani non autosufficienti.
    Molte manovre diventano possibili: pagare al minimo (non imponibile) un familiare per occuparsi dell’infante, beneficiando cosi’ del credito d’imposta sul proprio lavoro.
    Ma soprattutto si introdurrebbe un altro ennesimo “entitlement”, e peso per le disastrate finanze statali, che seppure di entita` modesta (ma destinata a crescere in un’eventuale crisi economica, che moltiplicherebbe il numero di redditi bassi o non imponibili), non sarebbe poi facile rimuovere senza estenuanti conflitti sociali.
    A tutto vantaggio del solito stantio incremento della domanda, che provoca inflazione monetaria e sostiene le varie bolle immobiliari, azionarie etc etc
    A tutto vantaggio altresi’ di un ulteriore aumento demografico, che in un paese sovrappopolato come il nostro e` la prima causa di disoccupazione, conflitti sociali, degrado ambientale etc etc
    Grazie di una cortese risposta.

    • La redazione

      L’aumento dell’offerta di lavoro formale porta ad un aumento della base contributiva. Qui c’è un effetto doppio: più donne che lavorano per un salario e più servizi di cura remunerati anzichè forniti in modo informale. Cordialmente

  2. Antonello Oliva

    Condivido pienamente i contenuti e lo spirito/obiettivi della proposta, il limite che vorrei sottolineare è che spesso nelle proposte di sostegno al reddito dei meno abbienti (di qualsiasi tipo esse siano) c’è un approccio un po’ troppo “neo-pauperistico”. Voglio dire che, anche se è fatto solo come esempio, lo capisco, il limite di 10.000 euro (sia netti che lordi non cambierebbe) è un limite inutile ai fini dell’efficacia redistributiva/di sostegno, chi li guadagna? Un genitore single (prevalentemente donna) che vive in una grande città può aver bisogno di un sostegno anche se guadagnasse, diciamo 20-25.000 euro annui, ovvero fino a circa 2.000 euro al mese, visti i costi di affitti, carenze di asili, ecc. non è che una madre-single in queste condizioni navigherebbe nell’oro e si può stimare un costo per il bambino pari a circa 6-700 euro al mese. Lo so che il costo per l’erario sarebbe elevatissimo, ma altrimenti… cui prodest?
    cordiali saluti
    antonello oliva, roma

    • La redazione

      Sono soprattutto le donne con redditi più bassi a faticare oggi ad entrare nel mercato del lavoro. E per le famiglie con redditi medio-bassi gli asili costano meno di 600-700 euro al mese. In ogni caso, nel momento in cui si renderessero disponibili altre risorse riducendo altra spesa corrente, la soglia potrebbe essere innalzata.

  3. Ettore Navone

    L’osservazione relativa al quoziente famigliare non mi convince perchè
    * la tassazione del reddito famigliare (cumulo del reddito) aumentando l’aliquota media sul reddito famigliare (oltre ad essere incostituzionale, come fu dimostrato) faceva “costare” di più in termini fiscali ogni lira (di allora) di reddito addizionale (tipicamente il lavoro femminile)
    * la proposta di quoziente famigliare diminuendo l’aliquota media sui reddito (famigliare o individuale, i componenti della famiglia possono essere tutti a carico di un genitore o 50/50 in caso di genitori che lavorano) fa “costare” di meno in termini fiscali ogni euro di reddito addizionale (incentivando il lavoro femminile e maschile)

    • La redazione

      Il quoziente familiare comporta l’applicazione all’intero reddito familiare dell’aliquota media che sarebbe dovuta sul reddito procapite dei componenti della famiglia (reddito ottenuto dividendo il reddito familiare per il numero dei componenti) corretto e cioè aumentato per tenere conto che il vivere insieme comporta dei risparmi sui costi fissi (abitazione, riscaldamento, ecc.) e cioè delle economie di scala.
      L’aliquota media che si ottiene è quindi sicuramente più bassa rispetto a quella che si avrebbe sempre con riferimetno al reddito familiare (inteso come cumulo di tutti i redditi dei familiari), nel caso di applicazione dell’imposta individuale.
      Ma se si considerano i singoli redditi individuali questa aliquota media può essere più bassa di quella individuale (e lo è sicuramente nel caso dell’unico percettore in una famiglia
      monoreddito) e può essere anche più alta, con riferimento al reddito individuale del coniuge a più basso reddito.
      L’effetto di disincentivo viene generalmente misurato però non con riferimento all’aliquota media, ma all’aliquota marginale. ci si chiede cioè quanto pesa l’imposta non già su tutto il reddito ma su una variazione del reddito, variazione che si può avere, nel reddito familiare, quando un coniuge che prima non lavorava decide ora di lavorare. In quest’ottica, se si ragiona nell’ipotesi che il coniuge in
      questione sia la moglie, si va a vedere la variazione dell’imposta che deriva dall’aggiunta del reddito femminile a quello del marito. Se si ragiona in questi termini esattamente come nel cumulo, in presenza di progressività dell’imposta
      il reddito femminile aggiuntivo è colpito da un’aliquota marginale più alta con il quoziente.
      Speriamo che quanto sopra sia chiaro. Cordialmente

  4. Giuseppe Caffo

    Una donna che mette al mondo dei figli si fa carico di un evidente grosso impegno fisico,economico,esistenziale. Ovviamente viene penalizzata ad ogni livello sul piano lavorativo.Il punto a mio avviso è aiutare veramente MOLTO le donne che crescono figli e lavorano o vogliono lavorare.Sono persone da rispettare e ammirare particolarmente in un paese che pullula di scansafatiche.Gli aiuti proposti nell’articolo mi sembrano blandi.Il problema è veramente centrale.

  5. stefano guidoni

    la proposta esposta nell’articolo è sicuramente degna di attenzione, mentre quella di alesina e ichino mi sembra onestamente impraticabile e, come è stato messo in luce, possibile fonte di effetti perversi. non mi convince molto, invece (ma è probabile che mi sbagli) l’attribuzione della causa dell’aumento del tasso di partecipazione e di occupazione femminile (solo) alla riforma del ’74, perché si sottostimano i cambiamenti culturali avutisi nel corso degli anni ’70, secondo me in buona parte dipendenti da ragioni economico-sociali più “profonde” e di lungo termine.

  6. Filippo Proietti

    E se a lavorare in famiglia fosse anche l’uomo? Sempre, in Italia, quando si parla di “pari opportunità” e di problemi per le donne a reinserirsi nel mondo del lavoro dopo la gravidanza, si permane nell’ottica unilaterale “famiglia = donna”. Se però, oltre alla madre, come parte attiva nella famiglia, si considerasse anche il padre, allora si otterrebbero risultati migliori insieme a un notevole cambio di prospettiva.
    E questa non è un’utopia. Nei paesi scandinavi – e di recente anche in Germania – entrambe i partner sono impegnati nella cura del neonato. In Svezia il padre, continuando a percepire l’80% dell’ultimo stipendio, è obbligato a rimanere a casa col figlio. In Germania i genitori possono allevare il proprio bambino per 14 mesi, e il papà può scegliere di prendere congedo dal lavoro per un periodo dai due ai sette mesi mantenendo il 67% della propria retribuzione.
    A questo si aggiunge una forte diffusione degli asili nido per i bambini sotto i tre anni. In Germania, grazie all’impegno del ministro della Famiglia Ursula von der Leyen, i kindergarten entro il 2013 saranno triplicati. In Italia esiste un’agevolazione per il padre a rimanere a casa col figlio, ma è esigua e poco allettante.
    Incentivi di tipo “scandinavo” permettono un più veloce reinserimento delle donne nel mercato lavorativo, un aumento dei figli – e di giovani genitori – nonché un vero e proprio cambio di marcia nelle politiche di genere. Cosa che delle reali politiche delle pari opportunità dovrebbero avere almeno come sfondo.

  7. Barbar Bondavalli

    Sono un imprenditrice e vorrei sottolineare che c’è solo un motivo per cui le aziende non assumono donne che sono quasi sempre più brave degli uomini. Il costo della maternità.
    Es: nel maggio 2006 una mia operaia (ex 3 liv. ccnl metalmeccanica artigiani) è entrata in maternità anticipata. Il costo per la mia azienda comprensivo di: 20% di lordo, rateri ferie, rol, tfr tredicesima, festività per 11 mesi + tfr per il congedo parentale di 1 mese è stato di quasi 6000 euro al netto degli sgravi per l’assunzione in sostituzione di maternità. Si tratta del 10% del mio utile annuo. Nell’azienda lavora anche mio marito, abbiamo due figlie e vorremmo mangiare anche noi e non lavorare per pagare i figli delle altre. La maternità deve essere una responsabilità collettiva, fino a quando rimarrà a carico delle aziende in maniera così pesante io non assumerò più donne e tanti fanno già come me. Quindi, invece di parlare di sgravi fiscali per le donne che lavorano e di quote rosa, provate a pensare al modo di rendere la maternità a carico dell’INPS, magari cercando di punire in maniera seria e scoraggiare le malattie finte (altre grave problema per le aziende di cui nessuno parla).

  8. Marco Di Marco

    Proposta importante, che affronta un nodo cruciale. Sono d’accordo a introdurre forme di credito d’imposta rimborsabile (imposta negativa) applicate ai redditi familiari. Infatti, non è possibile utilizzare l’attuale irpef individuale come strumento anti-povertà (nella no-tax area non si possono percepire trasferimenti). Le forme di imposta negativa superano questa grave limitazione.
    Se ai redditi familiari si applica una scala di equivalenza, come nella vostra proposta, si può anche notare una certa affinità ‘formale’ con il quoziente familiare, almeno al di sotto della soglia minima, dove l’imposta netta varierebbe in funzione della composizione della famiglia e del numero di figli (lo dico sperando in un accoglimento bi-partisan della vostra proposta).
    Se capisco bene, escludete le famiglie monoreddito. Se è così, temo che gli effetti redistributivi siano perversi: a parità di figli, le coppie monoreddito riceverebbero meno delle bireddito, anche quando queste ultime fossero meno povere.
    Condivido il timore che la tassazione a livello familiare possa provocare effetti di incentivo al tempo libero del secondo percettore. Tuttavia sospetto che, al di sotto di una soglia minima di reddito familiare, quando non sono pienamente soddisfatti bisogni molto più importanti del tempo libero, l’offerta di lavoro delle donne con figli sia scoraggiata più dall’assenza di asili nido e dalle scarse opportunità di occupazione che dall’assenza di incentivi all’offerta di lavoro femminile (come quello che voi volete introdurre).
    Inoltre, vedo una difficoltà tecnica a gestire l’esclusione delle coppie monoreddito: dovendo infatti erogare il beneficio ai monogenitori, si rischia di incentivare separazioni fittizie, mancati matrimoni etc…
    Secondo me sarebbe preferibile introdurre un’imposta negativa sui redditi familiari equivalenti di tipo universale (cioè, una specie di quoziente familiare per i più poveri).

  9. Ettore Navoe

    Ho molto apprezzato l’attenzione e il dettagli con cui si è risposto al mio commento. Grazie.
    Sono d’accordo con voi, se si assumono scelte economiche indipendenti o competitive tra coniugi (cosa che – per il bene della famiglia – non dovrebbe accadere anche in regime di separazione dei beni) . Con queste ipotesi -tipiche dei modelli economici- il vostro ragionamento fila. Sottolineare la rilevanza dell’aliquota marginale e non media come costo fiscale di ogni euro guadagnato in più è corretto. Non sono convinto però -come commenta anche un altro lettore- che le scelte in materia di lavoro dipendano in modo così elastico dall’aliquota marginale, ma assumendo che sia così, perchè allora non scaricare -a parità di beneficio fiscale complessivo (riduzione aliquota media) per la famiglia- tutto il beneficio induviduale sul reddito meno capiente dal punto di vista fiscale (di norma -purtroppo- quello femminile). Se è come voi dite dovremmo vedere esplodere il lavoro femminile delle madri con figli (lavori con redditi medi ad esempio part time sarebbero praticamente non tassati!). Se anche non fosse così, la famiglia godrebbe comunque di un beneficio fiscale pieno. Da marito e padre non mi sentirei affatto penalizzato.

  10. antonella cordeschi

    La mia è una proposta, se vogliamo banale, che darebbe, però, alle mamme-lavoratrici – almeno a quelle tra loro che “beneficiano”, come me, del part-time orizzontale” – il senso che questo loro superlavorare viene apprezzato! Come vi è senz’altro noto le 52 settimane che un part-time orizzontale lavora, non sono tutte utili ai fini del calcolo della futura pensione (già così tanto messa in discussione). Non è già molto, lavorando come e forse più dei colleghi a tempo pieno (il part-time si vive come un regalo ….) rinunciare a parte della propria retribuzione? Perchè anche all’atto del pensionamento dover scontare il fatto che avendo dei figli (tre nel mio caso) si debba ridurre il proprio impegno lavorativo per occuparsi di loro, per aiutarli a diventare buoni cittadini del domani? se questo ruolo viene riconosciuto come socialmente utile, perchè non evitare almeno le penalizzazioni che anche dal punto di vista pensionistico il part-time prevede? anche piccoli incentivi, come questo, potrebbero contribuire a rendere meno difficile la scelta di diventare madri.

  11. Gianluca

    Ho avuto la fortuna di avere una moglie che è riuscita a trasformare un lavoro a tempo pieno in uno a 24 ore settimanali. La trasformazione ha voluto il suo dazio: lasciare il precedente impiego dove il part-time non è contemplato (settore grande distribuzione con occupazione prevalentemente femminile che dava una maggiore garanzia) per un altro (nella piccola ristorazione certamente meno sicuro) dove il sacrificio è perdere un livello retributivo oltre alla conseguente riduzione di reddito. Mi sento comunque fortunato perché la differenza di stipendio è compensata dal risparmio della retta per l’asilo nido che, confermando i dati degli autori, anche per i figli di due lavoratori è inferiore ai 600 € mensili (almeno per quello comunale e senza estensioni di orario pre/post). Ed inoltre, perché dove vivo (Lombardia) esistono molte strutture per i bambini, ed il lavoro anche per le donne si trova (con qualche sacrificio e adattamento).
    Quello che mi chiedo è perché molte aziende non attuano estesamente il part-time che aiuterebbe le famiglie a sostenere il carico famigliare senza costringere le donne a lasciare il proprio impiego. Una domanda agli autori: premesso che sono convinto che la civiltà di un Paese si misura anche e soprattutto nella libertà per le donne di lavorare e di non essere discriminate dalla scelta di generare figli, è corretto impostare l’azione di un governo nella direzione di trasformare ogni azione umana come la cura di famigliari in qualcosa di misurabile economicamente? Il suggerimento degli autori sotto il profilo economico è stimabile e, dal mio punto di vista, corretto, ma l’aspetto sociale conta ancora qualcosa? Mi spiego meglio: misurare in termini d’aumento di pil queste attività non fa diventare il Paese più ricco e gli italiani meno stressati e con più tempo libero a disposizione, semplicemente gonfia un numero e dà l’illusione che siamo ricchi come gli altri.

  12. Barbara Appierto

    Dovremo anche interrogarci sul perchè il lavoro di cura è ancora affidato alle donne e quello del sostentamento economico agli uomini. Fermarci solo ad analizzare il fenomeno sugli aspetti culturali è riduttivo ed anche pericoloso. Infatti, proseguendo per questa strada si arriva a le proposte formulate da Inchino. Forse dovremmo allargare il campo di osservazione e notare, ad esempio, che molte donne sono portate ad uscire dal mondo del lavoro o entrarci part-time, non perchè “sentano” il ruolo di cura ma perchè i servizi a supporto della genitorialità (sottolineo genitorialità e non maternità, la responsabilità non deve cadere solo su un componente) sono mal strutturati oltre ad essere scarsi. Gli asili hanno l’orario normale dalle 7.30 alle 16, ciò significa che chi termina alle 17 o alle 18 (orari full-time) hanno un grosso buco da colmare, per non parlare dei genitori che svolgono l’attività su turni (mattina-pomeriggio notte)…. Indirizzando politiche di ottimizzazione dei servizi potrebbe aiutare notevolmente le cose, anche senza nuove politiche fiscali. Riflettiamoci.

  13. fabiana musicco

    è certamente vero che siamo indietro nei servizi sociali offerti, che la donna rinuncia a lavorare dopo il primo figlio perchè, ad esempio, l’asilo nido è troppo caro, ma ci sono anche altre questioni importanti e cruciali, oltre al fattore reddituale, soprattutto in una grande città (posso parlare di roma in cui vivo). per esempio: in un mondo del lavoro che disdegna il part time, anche se si trova il posto in asilo nido, bisogna comunque prevedere un ulteriore sostegno familiare o a pagamento che si faccia carico di “ritirare” il bambino superato l’orario di chiusura dell’asilo, che quasi mai coincide con orario di termine del lavoro a tempo pieno + tempo per gli spostamenti (che non è poco). si fanno sempre meno figli non solo perchè non ci sono servizi sociali ma anche perchè non si ha il tempo di aiutarli a crescere: perchè non incentivare per le aziende la concessione del part time a chi lo richieda, soprattutto se mamma con bambino inferiore ai 5 anni (ad esempio ?)

  14. luca melindo

    Cari Boeri e Del Boca,
    l’unica ragione oggettiva che trovo per giustificare la Vostra ostilità nei confronti del quoziente famigliare è la verosimile riduzione (ceteris paribus) delle imposte sui redditi delle persone fisiche con conseguente “danno” per l’Erario (e, dunque, necessità di contenere la spesa pubblica….).
    Se una delle preoccupazioni degli autori (e dei politici) è davvero la scarsa fertilità delle coppie italiane (non delle donne, i figli si fanno in due…), allora giusto è incentivarle indipendentemente dal fatto che nella coppia lavorino uno o due soggetti. Infatti, la famiglia è un unico centro di spesa finanziato in modo indifferenziato da tutti i redditi percepiti dai suoi componenti. Il quoziente permetterebbe, quindi, con l’aumentare del numero di figli, di non penalizzare i redditi marginali e dunque di permettere, anche alle donne, di lavorare di più senza dover fare ricorso al lavoro sommerso…

    • La redazione

      La famiglia non è monolitica e il secondo percettore di reddito è penalizzato dal quoziente. In ogni caso i dati che ci riportiamo ci sembra che parlino chiaro. Cordialmente

  15. Gino

    Precisazioni ai 4 punti della controreplica di Boeri-Del Boca:
    1) Se le elasticità sono stimate bene, la tassazione differenziata non può essere più distorsiva. Lo dice la optimal taxation theory.
    2) Il secondo punto è corretto e condivisibile. Ma non è la proposta di Alesino-Ichino ad essere sbagliata. Lo sarebbero le stime dell’elasticità.
    3) Il punto 3 è fondato. Quantificare rigorosamente il taglio di aliquote per le donne è impossibile. Spetterebbe ai politici.
    4) La tassazione differenziata per genere resterebbe anche differenziata per reddito. Il problema si pone perché Alesina-Ichino stimano aliquote uomo-donna troppo distanti tra loro sulla base di elasticità non affidabili.

    • La redazione

      Grazie dell’esame. Il punto primo è che, data la loro endogeneità, le elasticità cui Alesina e Ichino si riferiscono non sono stimate correttamente. E non sempre è possibile stimarle in modo corretto. Saluti

  16. Salvatore

    Il Vostro intervento chiarisce molto bene perchè l’applicazione del quoziente familiare potrebbe arrecare uno svantaggio, rispetto alla situazione attuale, al soggetto con il reddito più basso.Allora, poichè tutti – almeno a parole – dichiarano di voler aiutare la famiglia, potrebbe trovarsi una soluzione nella quale convivano aliquote individuali e quoziente familiare, lasciando ai contribuenti la scelta in base a quale criterio pagare le imposte sul reddito (in fondo già adesso con la clausola di salvaguardia viene applicata una certa discrezionalità). In questo modo si potrebbe attuare quella politica di equità fiscale a favore delle famiglie monoreddito più volte sollecitata dai giudici costituzionali e rimasta lettera morta.
    Voi cosa ne pensate?

    • La redazione

      L’equità e il sostegno alle famiglie numerose di reddito basso possono essere perseguite con politiche di assistenza a ciò mirate, come un reddito minimo garantito. Lasciare alla famiglia la scelta fra i due regimi può esporre ancora di più la parte più debole alle pressioni dell’altra. Le famiglie non sono monolitiche, sono composte da persone che hanno valori e obiettivi diversi fra di loro.

  17. Lorenzo Lusignoli

    Pienamente condivisibili i 4 punti critici elencati da Boeri-Del Boca sulla proposta Alesina-Ichino di ridurre le aliquote Irpef per le donne a scapito degli uomini. In particolare il punto 3: possibile mai che gli autori (Alesina e Ichino) ritengano che l’offerta di lavoro sia indipendente dalla struttura della tassazione?
    Come punto 5 aggiungerei i rischi di ripercussione sul mercato del lavoro. Siccome ciò che conta nella contrattazione è il salario netto, non sarebbe infatti lecito attendersi accanto ad una maggiore domanda di lavoro per le donne anche inquadramenti a livelli inferiori (o se preferite più bassi salari lordi)? Questo potrebbe trasferire in parte se non in toto il vantaggio dalle donne alle imprese. Non so se Alesina e Andrea Ichino avessero in mente questa possibile evoluzione … Sembra che nel loro articolo gli effetti comportamentali della loro proposta su domanda e offerta di lavoro non vengano tenuti in conto.
    Mi sembra invece assai interessante e condivisibile la proposta Boeri-del Boca poiché parte dal presupposto di facilitare il lavoro delle donne senza porre differenze di genere. Mi chiedo se però l’effetto di disincentivo del sommerso, probabilmente lieve, è sufficiente a far propendere per l’uso del credito d’imposta invece del trasferimento. L’irpef oggi è già complicata da plurime detrazioni. Introdurne un’altra con in più (giustamente per gli incapienti) un’imposta negativa mi pare una complicazione eccessiva. La strada dei trasferimenti sembra più lineare. Questi potrebbero ridursi in progressione anziché scomparire dopo una certa soglia per evitare una trappola di povertà.
    Infine una battuta: se siamo arrivati (come ci racconta di aver fatto Andrea Ichino nella replica) ad analizzare gli effetti del ciclo mestruale sull’assenteismo ciclico, con relativa proposta di trasferirne i costi economici agli uomini, forse è meglio che facciamo un passo indietro e rivolgiamo la mente per un po’ ad altre interessanti attività invece che all’economia

    • La redazione

      Riguardo al punto 3 di Boeri e Del Boca, non abbiamo mai sostenuto che l’offerta di lavoro sia indipendente dalla struttura della tassazione.
      Non si capisce in base a cosa Lusignoli (cosi’ come Boeri e Del Boca) debba attribuirci una tale affermazione. Su questo punto non posso che ripetere quanto gia’ abbiamo scritto:
      ” Poiché le differenze nell’offerta di lavoro maschile e femminile non sono esogene e immutabili, nel lungo periodo la tassazione differenziata per genere contribuirà a cambiare
      la tradizionale divisione del lavoro all’interno della famiglia che attualmente vede gli uomini lavorare di più nel mercato e le donne di più a casa. Se e quando questo accadrà (come molti auspicano) le elasticità dell’offerta di lavoro maschile e femminile diventeranno più simili.
      Nella misura in cui questo accada, si potrà ridurre gradualmente la differenziazione per genere delle aliquote, come suggerito dalla teoria della tassazione ottimale e come
      spieghiamo nel nostro articolo scientifico. Ecco perché la nostra proposta non richiede come presupposto che le differenze di elasticità tra donne e uomini siano esogene e immutabili. È vero però, come illustrato recentemente da Alberto Alesina e Paola Giuliano, che la riduzione delle
      differenze sarà lenta. La nostra proposta può accelerare questa evoluzione ”
      Il punto 5 sollevato da Lusignoli e’ interessanti (ed e’ cosa di cui non ci siamo dimenticati ). Cio’ che dovrebbe importare alle lavoratrici e’ il salario al netto delle tasse (post-tax), che
      aumenterebbe grazie alla nostra proposta, non il salario lordo (pre-tax). Se la domanda di lavoro fosse perfettamente elastica, il salario pre-tax (e il costo del lavoro per le imprese) non avrebbe motivo di modificarsi. Nella misura in
      cui la domanda di lavoro non sia perfettamente elastica, la nostra proposta potrebbe indurre una diminuzione del costo del lavoro “femminile” per le imprese e un aumento del salario post-tax per le lavoratrici. In altri termini le
      imprese e le lavoratorici si dividerebbero l’incentivo fiscale, finanziato dagli uomini.
      Esiste un solo altro modo per far si’ che le imprese assumano piu’ donne: obbligarle a farlo, ad esempio con le quote rosa. Lusignoli pensa che questa soluzione sia preferibile? Noi no perche’ avrebbe costi molto maggiori, incluso il rischio
      di chiusura delle imprese che si rifiuterebbero di ottemperare all’obbligo.
      Tra l’altro Lusignoli non sembra realilzzare che anche la proposta di Boeri e Del Boca per funzionare deve produrre un vantaggio economico per le imprese, oltre che ovviamente per le lavoratrici (ma solo quelle con figli). Pero’ qualcuno deve pagare questo vantaggio. Se lo pagassero solo le donne con figli ovviamente sarebbe una inutile partita di giro. Perche’ la cosa stia in piedi in equilibrio generale chi lo paga devono essere gli uomini e le donne senza figli. Davvero non si capisce come Lusignoli possa affermare che la proposta di Boeri e Del Boca aiuta le donne senza porre diifferenze di
      genere, se avesse la bonta’ di riflettere su chi alla fin della fiera finanzia quella proposta.
      Segnalo infine a Lusignoli, che esiste una sconfinata letteratura medica sulle conseguenze della Pre-Menstrual Sindrome (PMS) che include anche la valutazione delle conseguenze economiche. Se Lusignoli volesse leggere
      l’articolo “Biological gender differences, absenteeism and the gender gap” (scaricabile dal mio sito) scoprirebbe che l’assenteismo ciclico indotto dal ciclo mestruale spiega un terzo del differenziale di assenteismo breve tra donne e
      uomini e circa il 12 per cento del differenziale salariale (almeno nei dati da noi considerati). Beato lui che da maschio considera queste cose irrilevanti!
      Andrea Ichino

  18. angela padrone

    I commenti a questo articolo andrebbero conservati e analizzati, sono una straordinaria raccolta di tutte le possibili posizioni sul lavoro delle donne. Che comunque, in generale, sono da noi appena tollerate. Credo siamo d’accordo che, di tutti i sistemi, l’unico veramente da non prendere in considerazione è il quoziente di reddito familiare, che spingerebbe di nuovo l’Italia verso il patriarcato.
    Sul mio sito ho messo insieme 30 dati statistici sulla discriminazione delle donne e la bassa natalità. Chi vuole li può trovare su http://www.angelapadrone.blogspot.com

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