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Tanto rumore per nulla?

La reazione italiana al rapporto Ocse sulle pensioni ha sollevato un vespaio che ha tolto credibilità al nostro governo, rendendo ancora più difficile il negoziato in corso sulla riforma. Non si voleva far apparire il nostro sistema come troppo generoso. Ma se i “tecnici” del ministero della Solidarietà sociale avessero letto con cura le tabelle, avrebbero potuto notare che non lo è affatto. E magari anche che le stime dell’Ocse ipotizzano che vi sia nel frattempo una revisione dei coefficienti di trasformazione.

La vicenda del rapporto Ocse sulle pensioni censurato dal governo italiano testimonia due cose. Primo, se il governo ha davvero al suo interno competenze tecniche maggiori del precedente esecutivo, fa di tutto per non metterle in mostra. Secondo, la moltiplicazione dei centri decisionali (ben tre ministeri coinvolti, più Palazzo Chigi, che non si parlano tra di loro) genera mostri. Questa storia ha sollevato un vespaio che ha tolto credibilità al governo italiano, rendendo ancora più difficile il negoziato in corso sulla riforma delle pensioni.

Stime Ocse e rilievi italiani

Il governo italiano, unico fra i trenta paesi dell’Ocse, ha voluto apporre una nota di censura in calce alla prima pagina del rapporto dell’organizzazione sulle pensioni negli Stati membri. Motivo? Una tabella contestata dai “tecnici” del ministero della Solidarietà sociale (non ci risulta siano stati consultati quelli del ministero dell’Economia).
Le statistiche dell’Ocse si basano su ipotesi che devono, per ragioni di comparabilità, essere applicate a tutti i paesi. Ad esempio, le statistiche sui tassi di occupazione (quelle prese a riferimento negli obiettivi di Lisbona) definiscono la popolazione in età lavorativa, il denominatore del tasso di occupazione, come la popolazione fra 15 e 64 anni. Non in tutti i paesi si inizia a lavorare così presto e si finisce così “tardi”. Ma è una convenzione da tempo accettata da tutti. Per quanto lontana dalla realtà di alcuni paesi, è vicina a quella della media dei paesi Ocse e permette di fare comparazioni internazionali su grandezze omogenee. Bene armonizzare le ipotesi tra paesi anche per renderle meno manipolabili dai governi nazionali: se un governo decide di permettere a tutti di andare in pensione a 50 anni, non deve poter abbassare il limite superiore della popolazione in età lavorativa di 15 anni per mostrarsi virtuoso nel raggiungimento degli obiettivi di Lisbona.
La ragione per cui l’Italia non ha firmato il rapporto è tutta in una tabella, quella che stima i tassi di sostituzione futuri delle pensioni (il rapporto fra pensione e salario). Questa tabella viene calcolata ipotizzando che un lavoratore entri nel mercato del lavoro a 20 anni e lavori fino al raggiungimento dell’età legale di pensionamento ai salari medi. In Italia, come nella maggioranza dei paesi Ocse, questo significa una carriera di 45 anni, da 20 a 65 anni. Troppo lunga la carriera ipotizzata, secondo i “tecnici” del ministero della Solidarietà sociale, che hanno chiesto all’Ocse di considerare una carriera di soli 40 anni e iniziata a 25 anni. L’Ocse ha rifatto le stime sotto queste ipotesi e le ha pubblicate sul rapporto, in aggiunta alla tabella originaria. Questo non è bastato al governo italiano, che, creando un pericoloso precedente, ha fatto aggiungere a pagina tre una nota in cui “esprime seri dubbi sull’adeguatezza dei dati e, dunque, sulla comparabilità dei risultati”. Una volta delegittimato dal governo italiano, il rapporto è stato poi immediatamente bocciato dal segretario della Cgil che lo ha definito “strabico”. Insomma, dietro all’obiezione “tecnica” si avverte il disagio nel vedere il sistema pensionistico italiano classificato come uno di quelli che offre trattamenti più alti (in rapporto al salario) tra i paesi Ocse.

Leggi anche:  Anticipo della pensione: dieci anni di provvedimenti parziali*

Criterio OCSE

Criterio italiano

95,7

Grecia

92,9

Grecia

90,3

Lussemburgo

81,2

Spagna

83,6

Danimarca

79,8

Lussemburgo

81,7

Paesi Bassi

78,2

Danimarca

81,2

Spagna

76,7

Paesi Bassi

80,1

Austria

74,8

Islanda

80,1

Islanda

71,2

Austria

76,9

Ungheria

66,8

Ungheria

72,7

Corea

65,9

Turchia

72,5

Turchia

64,6

Corea

67,9

Italia

61

Italia

63,7

Svezia

60,5

Svezia

63,4

Finlandia

59,1

Repubblica Ceca

62

Svizzera

59

Norvegia

61,2

Polonia

58,2

Finlandia

60

Norvegia

58,2

Svizzera

56,7

Slovacchia

54,3

Portogallo

54,3

Repubblica Ceca

53,3

Polonia

54,3

Portogallo

49,5

Canada

51,2

Francia

48,8

Slovacchia

49,5

Canada

46,8

Nuova Zelanda

47,9

Australia

45,9

Australia

46,8

Nuova Zelanda

43,6

USA

43,6

USA

38,2

Irlanda

40,7

Belgio

37,9

Belgio

39,9

Germania

37,5

Francia

38,2

Irlanda

35,5

Germania

36,8

Giappone

34,4

Giappone

36,6

Messico

32,6

Regno Unito

34,4

Regno Unito

31,5

Messico

Media

Media

60,8

56,6

Coefficiente di correlazione tra le due graduatorie

0,98

Fonte: nostra elaborazione su dati Ocse

 

I calcoli secondo criteri italiani

Ma come sarebbe cambiato il rapporto se l’Ocse avesse seguito alla lettera le indicazione dei nostri “tecnici”? La tabella compara le stime di Pension at a Glance con quelle che si sarebbero ottenute ipotizzando per tutti i paesi una entrata sul mercato del lavoro a 25 anni. Come si vede, il tasso di sostituzione si abbassa per tutti i paesi (non potrebbe essere altrimenti: meno contributi portano a pensioni meno generose), ma non cambia affatto la posizione relativa dell’Italia.
Il tasso di sostituzione stimato per l’Italia dall’Ocse (67,9 per cento, vale a dire una pensione che rimpiazza circa due terzi del salario medio durante la vita lavorativa) è in linea con molte stime. All’atto della riforma Dini, il Bollettino economico della Banca d’Italia stimava il tasso di sostituzione per analoga carriera e profilo retributivo addirittura al 75 per cento. Anche i salari medi ipotizzati dall’Ocse (22mila euro lordi all’anno), sono coerenti con altre fonte statistiche. Infine, è utile ricordare che si tratta di tassi lordi: quelli al netto delle tasse, che servono a valutare il potere d’acquisto delle pensioni rispetto ai salari, sono di circa 10-15 punti più alti.
Insomma non si voleva far apparire il nostro sistema come troppo generoso. Ma se i “tecnici” avessero letto con cura le tabelle dell’Ocse, avrebbero potuto notare che il nostro sistema pensionistico non è affatto generoso: è solo di una insostenibile pesantezza perché versando il 33 per cento dei salari porta a un tasso di rimpiazzo inferiore a quello di paesi, come la Svezia, in cui il contribuente versa meno del 19 proprio del proprio salario. Inoltre le stime dell’Ocse dopotutto dimostrano che, anche con 45 anni di contributi, non si riesce a ottenere più di due terzi del salario. Per chi ha carriere discontinue questo traguardo è un miraggio. Ma il problema è più nel mercato del lavoro che nel sistema pensionistico.
Né i “tecnici” del ministero né Guglielmo Epifani hanno notato che le stime dell’Ocse ipotizzano che vi sia da qui al 2040 una revisione dei coefficienti di trasformazione, che dovrebbero scendere a 4.99 (dagli attuali 6.136) a 65 anni. Se ritengono le stime dei tassi di rimpiazzo dell’Ocse siano troppo alte, vuol dire che hanno non solo accettato di rivedere i coefficienti, ma anche di rendere questi aggiustamenti automatici, in base all’andamento demografico. È davvero così?

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  1. Antonio Fiori

    Ho letto con interesse l’articolo, che pacatamente dimostra a che risultati conducono certe rigidità mentali. Mi pare che si voglia assicurare una fascia di tutela dalla manovra sui coefficienti attorno ai mille euro mensili lordi e che sarà sempre possibile presidiare il potere d’acquisto con alleggerimenti fiscali ogni volta lo consentano le compatibilità di bilancio. Quindi ben venga una misurata revisione dei coefficienti, ricordando che chi è in pensione o ci andrà a breve non gode quasi mai della pensione integrativa mentre chi andrà fra 15-20 anni avrà, verosimilmente, quel sostegno previdenziale ancorchè a fronte di minori basi di calcolo e minori coefficienti per la pensione INPS. Concludo suggerendo una possibile alternativa allo ‘scalone’ (da valutare in termini di impatto in alternativa alla fisarmonica incentivi/disincentivi suggerita in questo sito in un articolo recente): si tratta di consentire anche agli uomini quanto lasciato in facoltà alle donne dalla riforma Maroni – uscita a 57 anni con 35 di contributi anche in futuro ma esclusivamente col metodo contributivo.

  2. giuseppe

    Questo ottimo articolo è l’ennesima prova del grande impegno dell’ attuale governo a non mettere in mostra le sue competenze tecniche.

  3. Maurilio Menegaldo

    Complimenti agli autori, che hanno portato l’attenzione su di un fatto “sfuggito” alla maggioranza degli organi d’informazione. Un appunto però: oltre a ragionare in termini di percentuale, bisogna valutare i valori effettivi. Potrebbe essere, infatti, che un tasso di sostituzione del 40% per un lavoratore tedesco porti a una pensione in assoluto più elevata di quella di un lavoratore italiano, che può contare su uno stipendio medio inferiore; sarebbe poi interessante capire quanto pesa la previdenza complementare, che nei vari paesi europei viene gestita ormai da decenni, con diverse soluzioni.
    Un cordiale saluto

  4. Costantino Nigra

    Sono molto sorpreso dai valori dei tassi di sostituzione che leggo a prposito dell’Italia. Dai numerosissimi articoli e contributi tratti dalla stampa specializzata e dai maggiori esperti del settore avevo maturato la convinzione che il tasso di sostituzione, con il sistema contributivo a regime, non sarebbe stato superiore al 50%. Potete spiegare come, a partire dal 32,7% di aliquota contributiva, sia possibile arrivare a tassi intorno al 70%?
    Complimenti e buon lavoro!

  5. Fabio Pancrazi

    Provo ad intervenire sulle pensioni in questa sezione, anche se abbastanza arrabbiato.
    Cerco di spiegare la mia ira: ho 53 anni e 31 di contribuzione. Con la scorsa normativa sarei potuto andare in pensione a 57 anni, con i 35 di contributi. Con l’attuale potrò andarci nel 2016 con 62 anni di età (quelli richiesti dal 2014).
    Leggendo tutte le ipotesi della trattativa in corso fra governo e sindacati per “togliere lo scalone” scopro che per me non cambierà nulla, cioè potrò andare in pensione sempre nel 2016, a 62 anni di età e con dieci miliardi di euro da pagare insieme alla collettività per permettere di “togliere lo scalone”.
    Mi domando: perchè, in tempi di vacche magre, c’è chi non vuole andare in pensione a 60 anni ma a 58 mentre io dovrò andarci a 62, comunque vada? Ripeto, spendendo anche dieci miliardi di euro della collettività?

  6. Fabio Pancrazi

    La equa soluzione per una riforma pensionistica:
    1) in pensione a 65 anni di età coloro che non fanno in tempo a maturare i necessari anni di contribuzione;
    2) in pensione quando la somma di età anagrafica e contributi arriva ad una quota minima fissata uguale per tutti quanti vadano a riposo tra un anno oppure tra venti (esempio con quota “95”, 57 anni di età con 38 di contributi, o 58 anni di età con 37 di contributi, ecc.).
    Ma forse così è troppo equo!

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