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Cosa succede agli studi di settore

Contrariamente a quanto si dice in questi giorni, lavoratori autonomi e piccole imprese pagano le loro imposte sul reddito effettivo. Mentre gli studi di settore sono solo uno strumento di accertamento. I nuovi indici di coerenza introdotti dalla Finanziaria 2007 servono a contrastare una duplice attività di “manipolazione” dei dati. Sono però diventati la testa di ariete per il tentativo di far crollare l’intero impianto degli studi di settore. Ma siamo sicuri che con un’evasione stimata attorno al 27 per cento del Pil, il nostro paese possa rinunciarvi?

Contrariamente a quanto è stato a più riprese affermato da molti commentatori in questi giorni di convulso dibattito sugli studi di settore, i lavoratori autonomi e le piccole imprese non pagano le imposte su redditi presunti ricavati dagli studi di settore, ma sono chiamati a versare le loro imposte sul reddito effettivo, che risulta dalla differenza fra i ricavi (che devono essere certificati, ad esempio, attraverso gli scontrini e le ricevute fiscali) e i costi sostenuti. Nessuna norma che riguarda gli studi di settore può quindi essere accusata di ampliare la base imponibile, o di violare lo statuto dei contribuenti introducendo prelievi retroattivi.

Cosa sono e cosa sono sempre stati

Gli studi di settore, la cui disciplina di base risale al 1993, ma che hanno cominciato a essere operativi alla fine degli anni Novanta, sono sia uno strumento di accertamento, servono all’Amministrazione per la propria attività di controllo, sia un ausilio al contribuente per valutare la propria situazione economica, anche a confronto con quella degli altri contribuenti. Sono realizzati tramite la raccolta sistematica di dati presso l’universo dei contribuenti: sia quelli di carattere fiscale, che quelli di tipo “strutturale” che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui questa si svolge. Vengono ad esempio rilevati gli acquisti di beni e servizi, i prezzi medi praticati, i consumi di materie prime, il capitale investito, l’impiego di manodopera e di beni strumentali e la localizzazione dell’attività. Questi elementi vengono poi combinati, attraverso apposite tecniche statistiche, per individuare i ricavi che con massima probabilità possono essere attribuiti al contribuente, considerando anche fattori che potrebbero determinarne una limitazione (per esempio, orari di attività, situazioni di mercato).
I ricavi presunti che emergono dagli studi di settore possono essere calcolati dal singolo contribuente attraverso un’apposita procedura informatica (Gerico) al momento della dichiarazione dei redditi. Nell’ipotesi in cui i ricavi o compensi contabilizzati siano inferiori a quelli presunti, il contribuente può adeguare spontaneamente i primi ai secondi, al momento della dichiarazione. Quando si verifichino discrepanze fra i ricavi dichiarati dal soggetto e i ricavi calcolati sulla base degli studi di settore, che lascino presumere l’esistenza di evasione fiscale, l’Amministrazione può operare un accertamento di tipo analitico presuntivo, il cui primo passo consiste in un confronto con il contribuente, chiamato a motivare tale scostamento. (1)

Come hanno reagito i contribuenti?

Nel corso del tempo i contribuenti congrui (in regola con gli studi di settore) sono cresciuti. Ciononostante, in più settori i redditi dichiarati sono addirittura calati . Ciò sembra essere in larga parte il risultato di una duplice attività di “manipolazione”. In primo luogo i contribuenti hanno iniziato ad alterare i dati strutturali su cui si basano gli studi di settore: dichiarando, ad esempio, un minor impiego di beni strumentali, si fanno emergere ricavi presunti più bassi. In secondo luogo, si è assistito a un aumento fittizio di quei costi che non sono utilizzati per la determinazione dei ricavi presunti, ma che servono per passare dai ricavi al reddito imponibile. Questi comportamenti hanno indotto il legislatore, già con la Finanziaria del 2006, a potenziare l’analisi della coerenza economica e cioè della conformità di alcuni indicatori economici caratterizzanti l’attività svolta dal contribuente con quelli previsti dagli studi di settore.

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Gli indici di normalità economica

La Finanziaria per il 2007, ha previsto la predisposizione di ulteriori indici di coerenza. Con decreto ministeriale del marzo 2007 sono stati individuati quattro indici di normalità economica, che verranno utilizzati con riferimento alle dichiarazioni relative al 2006.
Due di questi, l’uno relativo all’”Incidenza dei costi di disponibilità dei beni strumentali mobili rispetto al valore storico degli stessi”, l’altro relativo alla “Rotazione di magazzino”, contrastano fenomeni noti, quale quello che consiste nel dichiarare valori di beni strumentali mobili (che concorrono alla determinazione dei ricavi presunti) molto contenuti e evidenziare invece costi di ammortamento (che non concorrono a tale determinazione) elevati, per abbattere il reddito imponibile. Per il 2006, i costi di ammortamento che eccedono quelli coerenti con i valori dei beni strumentali dichiarati verranno utilizzati come indicatore per la valutazione dei ricavi presunti.
Sono stati poi introdotti due ulteriori indicatori, l’uno relativo alla redditività dei beni strumentali mobili, l’altro al valore aggiunto per addetto. Quest’ultimo, da cui ci si attende la maggiore efficacia nella valutazione corretta dell’imponibile (e quindi il maggior gettito), è quello che ha maggiormente irritato i contribuenti.
Il valore aggiunto, pari ai ricavi (presunti) meno i costi per materie prime e beni intermedi, viene diviso per il numero di addetti, inclusi i familiari che lavorano nell’impresa e lo stesso lavoratore autonomo o imprenditore. Poiché il valore aggiunto serve, fondamentalmente, per remunerare l’imprenditore e i suoi dipendenti (al lordo dei contributi sociali e delle imposte) nonché per pagare interessi passivi e per gli ammortamenti, non è insensato pensare che, salvo i casi di marginalità, o di situazioni temporanee che hanno una loro legittima giustificazione, tale valore non possa scendere al di sotto di soglie minime. Tali soglie minime sono state individuate, a partire dai dati utilizzati per l’approntamento degli studi di settore, con riferimento a ciascun settore tenendo conto anche dell’area territoriale in cui opera l’impresa. Se il valore aggiunto per addetto calcolato a partire dai dati forniti dal singolo contribuente è al di sotto della soglia minima così individuata, i ricavi presunti per quel contribuente che emergerebbero dallo studio di settore vengono aumentati aggiungendovi una quota pari al prodotto tra il numero degli addetti e la differenza tra la soglia minima di coerenza e il valore dell’indicatore.
Le soglie minime, articolate per i diversi settori, sono per lo più concentrate attorno ai 14-15mila euro. Per quanto non sembri trattarsi di valori economicamente implausibili, in alcuni settori, tipicamente del piccolo commercio o dei servizi alle persone, i contribuenti che dichiarano, storicamente, valori al di sotto di questa soglia, magari anche non di molto, sono numerosissimi, con il risultato che, in questi settori, molti sono gli scontenti mentre l’incremento di gettito prevedibile per il fisco non è necessariamente elevato.
Le organizzazioni di categoria, che hanno sempre partecipato alla predisposizione degli studi di settore, hanno protestato per non essere state coinvolte nella definizione dei nuovi indicatori. Con un apposito comunicato, il viceministro Visco ha chiarito che, in accordo con una prassi consolidata, nell’accertamento effettuato in base agli studi si terrà conto degli aggiornamenti di tali studi, in corso di elaborazione e concertati al tavolo degli esperti, in tutti i casi in cui essi diano risultati più favorevoli al contribuente. Ha ricordato che non vi è alcun obbligo di adeguarsi preventivamente ai risultati degli studi di settore e che vi è interesse e disponibilità a valutare assieme alle categorie i casi di marginalità economica a cui non applicare i nuovi indicatori.
Le rassicurazioni non sembrano essere state sufficienti a tranquillizzare i contribuenti e i professionisti che li assistono negli adempimenti fiscali. Non solo gli evasori, che come ovvio hanno interesse a rimanere tali, ma anche gli onesti, che atavicamente diffidano dell’Amministrazione finanziaria e non sono aiutati nella comprensione delle novità né da una produzione normativa e regolamentare molto spessa complessa, frammentaria e non sempre ben comunicata, né dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione, inadeguati ad affrontare gli aspetti tecnici del problema.
Su tutto ciò si è, come è prevedibile, innestata una speculazione politica: gli indici di normalità economica sono diventati la testa di ariete con cui si cerca di fare crollare l’intero impianto degli studi di settore. Ma siamo sicuri che il nostro paese, con un’evasione stimata attorno al 27 per cento del Pil, possa davvero permettersi di rinunciare a questo strumento di accertamento?

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(1) Un commerciante può, ad esempio, argomentare che il suo negozio è localizzato in un mercato rionale o vicino a un grande centro commerciale, e che tale localizzazione lo obbliga a una politica di prezzo difensiva.

La risposta audio di Maria Cecilia Guerra ai numerosi commenti.

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38 commenti

  1. Antonio Fiori

    Condivido pienamente quanto si osserva e si sostiene nell’articolo. Ci sarebbe ancora tanti argomenti e dati di conforto, ma mi limito ad un’unica considerazione: se dal 1974 al 2005 le categorie economiche interessate avessero sempre dichiarato redditi medi superiori di un solo 30% superiori a quelli medi dei propri dipendenti, possiamo seriamente pensare che sarebbero maturati questi studi e quest’inversione dell’onere della prova sul contribuente? Quale governo li avrebbe perorati? Il fatto è, come dice in chiusura l’articolo, che i redditi medi dichiarati da imprese e professionisti, non solo non sono stati quasi sempre inferiori a quelli dei dipendenti, ma sono addirittura…calati.
    A evasione diffusa (ormai ne è ben convinto anche Montezemolo) non si può rispondere che con lotta all’evasione diffusa e con strumenti, inevitabilmente, straordinari.

  2. Di Marco Antonio

    Cecherò di dare il mio contributo riferendo di una esperienza vissuta. Ho assistito la Commercialista mentre stava preparando il bilancio della mia azienda. Lo stesso risultava non congruo ed allora ha cominciato a parlarmi di cosa era possibile fare prima per rendere il bilancio congruo: variazione scorte; registrazione di spese non inerenti espressamente l’attività e quanto altro. A questo punto mi sono sentito “defraudato del diritto ad essere creduto anche quando mento” dichiarando come spese per l’azienda quelle che erano spese per me. La Commercialista mi ha tentato di dirmi che tutto sommato era corretto quello che Gerico faceva. Mi chiedo, però, se devo pagare la Commercialista perchè mi dica queste cose o, invece, non siano altri, magari con altri mezzi, a dovermelo dire. Mi sono chiesto pure perchè la Commercialista ha usato un approccio diverso da quello usato da alcuni politici a partire Rutelli che invece di spendersi per convincermi della correttezza del supporto che mi dava Gerico e della infondatezza del sentirmi “defraudato…” ha trovato che è meglio spendersi a farmi sentire “defraudato del diritto ad essere creduto anche quando mento”.

    • La redazione

      2. Enrico, la sua domanda coglie un punto importante. La maggioranza dei nomi che aggiugiamo alla lista deriva da segnalazioni di colleghi che stanno in Italia – quelli che sono all’estero sembrano curasene meno. Quindi ha raggione che le statistiche (preliminari) messe nell’articolo sono delle stime verso il basso della percentuale di scienziati italiani che sono emigrati. Tuttavia le differenze fra le diverse discipline rimangono. La sottostima vale per tutte.

  3. giuseppe

    Nella piccola impresa come negli studi professionali i rapporti con i dipendenti hanno un significato interpersonale col datore di lavoro peculiare. I nuovi parametri, oltre a scoraggiare le assunsioni a tempo indeterminato (cosa molto grave),non tengono conto di molteplici situazioni particolari che vengono a crearsi. Conosco un Professionista che ha due dipendenti che vanno alternativamente in maternità da oltre un anno e per qualche anno ancora. Sono due brave lavoratrici, hanno un ottimo rapporto col datore di lavoro,che di recente ha subito un calo di fatturato e che potrebbe benissimo lavorare o da solo o con una dipendente. Ma non vuole (e non può) licenziare, così tira avanti sperando in un futuro migliore comprimendo i suoi guadagni ormai molto bassi. Lo vogliamo penalizzare coi nuovi studi di settore? Lo vogliamo spingere in futuro all’illegalità del lavoro nero?

  4. Leonardo LIBERO

    Non capisco come mai ci si rompa ancora le testa sul problema dell’evasione fiscale. Credevo assodato una volta per tutte che per farla diminuire occorresse renderla non più conveniente abbassando la pressione fiscale. Perchè anche l’evasione ha un costo, in termini di rischio.

    Leonardo Libero

  5. paolo

    Saro’ molto crudo e diretto, gli studi di settore non possono risolvere il problema dell’evasione. Lavoro nel settore impiantistico. Vedo ogni giorno nuove ditte o secondo lavoristi che ci portano via il lavoro perchè applicano tariffe irrisorie evadendo spudoratamente. Per il nostro settore bisogna controllare sistematicamente produttori e distributori che vendono a tutti i loro prodotti senza fattura ma con il solo scontrino fiscale. Cosa voglio dire con questo? Che se non puoi acquistare i materiali con cosa fai il lavoro in nero? Inoltre per intallare gli impinati bisogna avere l’iscrizione alla camera di commercio e le famose lettere. Ma nessuno controlla ed un sacco di gente si ritrova con impianti peericolosi e non a norma.

  6. Billo Dario

    Vista dall’altra parte della “barricata”: nell’articolo si afferma che “lavoratori autonomi e piccole imprese pagano le loro imposte sul reddito effettivo”. Sbagliato, le imposte vengono pagate sull’emissione di fatture/scontrini, non sul reddito effettivamente entrato in possesso dell’impresa (leggi: rischio fallimento). Seconda osservazione:si devono rilevare delle anomalie, derivanti dal fatto che viene messo sullo stesso piano il commerciante in centro a Vicenza, come quello che sta in una piccola frazione, e quando si dice che viene messo sullo stesso piano è dire poco. In base agli sds viene valutato perfino il consumo energetico annuo, paragonandolo tra attività simili, ma a parità di consumi è difficile che vi sia parità di profitti. Queste osservazioni si possono fare un pò su tutto, e non le considero sbagliate. Ma quando una anomalia viene rilevata attraverso gli sds il contribuente viene trattato come un evasore della peggior razza, maltrattato da migliaia di cavilli e regolamentucci cui è praticamente impossibile sfuggire. Risultato, una visita fiscale, x quanto buone possano essere le tue intenzioni, può trasformarsi nella tomba della tua attività, e molto dipende dal buonsenso, dalla ragionevolezza e talvolta dalla corruttibilità del finanziere di turno.
    Di fronte a tutto questo come stupirsi se l’imprenditore considera lo studio di settore come una grana, piuttosto che altro? O le regole (e le reazioni delle autorità) valgono per tutti, altrimenti chi paga alla fine è il pesce piccolo.

  7. fabio scarsi

    Spiace osservare che un articolo su un sito tanto autorevole come LaVoce.info parta da una promessa tanto inadeguata. Nei fatti, ne deriva uno scritto a mio modo di vedere assolutamente fuorviante.
    Il curriculum e le cariche di Maria Cecilia Guerra in seno all’Agenzia sono ad un tempo impressionanti ma anche indicativi di un punto di vista di parte. Ma, evidentemente, la professoressa Guerra ignora completamente come, nella pratica corrente dell’accertamento, anche in base alle pretese della stessa Agenzia sulla capacità probatoria degli studi, i team di accertamento, anche per effetto dei budget annui di maggior imponibile da accertare, utilizzino gli studi. Prima di affermazioni come quelle che aprono l’articolo, su questo si dovrebbe aprire un serio dibattito. Capisco che un professore universitario ignori tali simili futilità della pratica professionale, ma gli studi sono strumenti che incidono sulla vita concreta di milioni di persone. Occorrerebbero forse un po’ più di prudenza e cautela, anche nel difenderne le recenti forzature. E in ogni caso è chi ha voluto tali dilettantesche forzature che dovrà assumersi pienamente la responsabilità politica del rischio di un affossamento delle strumento.
    Naturalmente mi scuso con l’autrice per il tono polemico che è indirizzato solo alle posizioni che sostiene.
    Ancora una volta vale il monito del Governatore Draghi sul come in Italia, per eccesso di simili esagerazioni spesso ideologizzate, i contribuenti onesti siano tra i più percossi al mondo.
    Cordialmente
    Fabio Scarsi

  8. MacLaser

    Leggo spesso articoli che sembrano scritti solo per confondere i cittadini e creare confusioni.
    Gli studi di settore sono, come anche in altri stati, un sistema per una scrematura delle dichiarazioni infedeli, chi è sopra una determinata soglia è congruo, chi è al di sotto non è automaticamente un evasore, ma potrebbe esserlo.
    Questo meccanismo serve per andare a mettere il naso dove è più probabile che ci sia evasione.
    Sicuramente per chi evade e si tiene solo un pelo al di sopra della soglia è fastidioso che la soglia si alzi, per chi è al di sotto con valide motivazioni non sono un problema gli studi di settore.
    Temo solo che la convinzione, errata, che le tasse si paglino sugli studi di settore sia indotta volontariamente, mi piacerebbe che il Ministero delle Finanze denunciasse coloro che avendo incarichi e/o nomine fanno affermazioni volontariamente errate, a mio parere solo per difendere interi gruppi di evasori.

  9. Stefano

    A mio modo di vedere ci sono delle imprecisioni nell’articolo:
    1) I redditi dichiarati possono sembrare apparentemente bassi se paragonati con i lavoratori dipendenti. Tuttavia nele società quei redditi sono il surplus dopo che l’imprenditore si è preso i suoi compensi da amministratore (magari per qualche decina di migliaia di euro) o come dipendente. Anzi in questo caso, se non c’è trasparenza, tali redditi vengono tassati due volte: una prima in capo alla società ed una seconda al momento della distribuzione
    2) I redditi sono medi e inglobano le imprese in perdita, purtroppo numerosissime
    3) In periodo di recessione e contrazione dei consumi ci può stare che i redditi diminuiscano anche per le imprese.
    4) I lavoratori dipendenti prendono un netto su somme realmente percepite. I redditi dichiarati dall’impresa sulla quale oggi pago tasse si basano sul fatturato del l’esercizio a prescindere se incassato oppure no.Peccato che consistenti quote di fatturato non saranno mai pagate dai clienti (ed il fenomeno è in netto peggioramento a causa di una prassi consolidata che è dovuta da un sistema giudiziario a favore di chi non rispetta le regole).
    Stefano

  10. Maria Cecilia Guerra

    Una critica che deve essere mossa è quella che lo studio non disegna realmente le concrete modalità di svolgimento dell’attività; occorre rifiutare la frase secondo cui gli studi di settore tengono conto delle differenze socio economiche : basta riscontrare che sostituendo il luogo di esercizio dell’attività sia evidente come le differenze quantitative non riflettano assolutamente il reale divario esistente tra le diverse aree del Paese.
    E’ facilmente dimostrabile che indicando come sede dell’attività il comune di ROMA o MILANO o CANOSIO (comune montano della provincia di Cuneo con 94 abitanti) il risultato degli studi di settore non cambia.
    Come spiega il sito dell’Agenzia delle Entrate, gli studi di settoer sono uno strumento per valutare la capacità di produrre ricavi delle singole attività economiche.
    Sono realizzati tramite la raccolta sistematica di dati: sia quelli di carattere fiscale sia quelli di carattere strutturale che caratterizzano l’attività ed il contesto economico in cui questa si svolge.
    Consentono quindi di determinare i ricavi che con massima probabilità possono essere attribuiti al contribuente.” La probabilità è certezza?
    L’evasione è stimata attorno al 27 per cento del PIL, è questo è un grave danno per tutti i contribuenti (pensionati, dipendenti, artigiani, commercianti ecc ), ma dobbiamo finirla di colpire sempre e solo i piccoli imprenditori.
    In ITALIA ci sono 4.125.000 imprese – 1 ogni 14 abitanti : ciò significa che le microimprese costituiscono oggi l’asse portante dell’economia nazionale e che ad esse deve essere riconosciuto il dovuto rispetto e consentito di svolgere la propria attività in modo sereno e con la massima produttività, il che risulta possibile soltanto in assenza di regole eccessivamente ossessive.
    Vogliamo colpire i furbi? Due consigli: lasciate che il committente finale abbia qualche agevolazione dal richiedere la fattura e maggiore utilizzo dell’accertamento sintetico (così si colpiscono tutti!).

  11. Giampaolo Geravini

    Credo che tutta l’argomentazione, pur condividendone le conclusione (sull’evasione al 27%) abbia il vizio di fondo di non considerare il vulnus fondamentale che si tratta di uno strumento presuntivo del reddito e che come tale (viste le esperienze precedenti: minimum tax, redditometri ecc.) ha scarse possibilità di funzionare, qualsiasi correttivo si voglia introdurre, oltre ad essere profondamente iniquo per coloro che ne devono subire gli effetti. Come d’altra parte sostiene l’estensore dell’articolo, i furbi avevano già introdotto i loro correttivi per risultare congrui, mentre chi come me, per principio, si rifiuta di pagare un commercialista per pagare le tasse (in quale tavola della legge sta scritto che mi debba per forza avvalere di tale professionista?) se congruo (sic) non sarò, l’accertamento avrò. Ma a parte le rime, quando sarà possibile evere una legislazione fiscale che non cambi ogni 6 mesi, che tutti gli anni si inventa scadenze variabili (è di stamattina l’ultima comunicazione dell’Agenzia delle Entrate sulla proroga dei termini per il versamento), che non richieda la Laurea in economia per effettuare un versamento?

  12. lucrezia

    Sono andata a farmi visitare da un famoso ortopedico in un ospedale di Milano. Al momento di pagare la parcella il luminare mi ha detto che anzichè 200 euro avrei potuto pagarne 160 senza fattura. Lo stesso discorso fa il dentista e l’idraulico. Basta parlare con un qualunque direttore di banca amico e si viene a sapere che la maggior parte delle banche concedono il fido bancario alle famose piccole aziende brianzole e milanesi sulla base non dei bilanci ufficiali, ( in base ai quali dovrebbero chiudere loro i conti) ma riferendosi ai bilanci del “nero”, quelli si in attivo. E che dire delle varie “banchette” brianzole che ricevono felici e contente valigette di contanti senza fare le denuncie previste dalla legge? E le varie roulottes che ogni giorno passano il confine con destinazione la Svizzera, zeppe di contanti? E i soldi sporchi della n’drangheta riciclati in attività pulite nel nord? E qualcuno ha ancora il coraggio di scandalizzarsi degli imponibili miserimmii degli studi di settore? La guardia di finanza va stimolata a incentivare i controlli e uno dei modi per combattere la corruzione potrebbe essere quello di riconoscere ai finanzieri una % sostanziosa sul montante delle somme evase scoperte e denunciate.

  13. Marco Solferini

    Io leggo e penso ai cari vecchi antenati, i Romani del Mare Nostrum che con i Sesterzi ben conoscevano il problema delle ricchezze occulte, ma lo conoscevano anche lo stesso Senato e affini era solito gozzovigliare alle spalle della meritocrazia e del buon Governo. Si dibatte molto su quanto la sfiducia dei Cittadini sullo stile di vita di quanti fanno le Leggi abbia un impatto nell’ottemperanza e nella serietà con cui le Leggi stesse vengono recepite, ma nel nostro Paese si dibatte sempre su qualcosa. La commedia buffonesca che oggi recitiamo è una litania di contenuti a livello di “lotta all’evasione” che nel vocabolo ha coniato un gergo assai ristretto, se riferito a tutto ciò che non è critica aperta, spesso veemente e un pò brutale, quantunque sempre condita da quell’immancabile sentimento di ignoranza che personalizza il proprio malessere. Gli Studi di Settore sono un bel romanzo di Collodi, a realizzarli si sarebbe potuto chiamare Mastro Geppetto perchè sanno dar vita perfino a ciò che non nasce con la vita e lo fanno per amore delle buone intenzioni. In Italia sono un compromesso, orchestrato per dare filo da torcere anche alla negazione plausibile. E’ la loro tenacità che sorprende, ortodossa saccenza di numeri che sono colpevolmente distanti dalle persone. Non è lo Studio di Persone che non funziona, ma è il modello, tarato per un Italia che non vuole cambiare e come tale illativo, ambiguo e chiaramente coercitivo, nella sua gendarmeria espositiva. Eppure, malgrado il celebre paradosso se sia nato prima l’uovo o la gallina, io continuo con un interrogativo: ma non sarà che questa evasione è così alta perchè le tasse sono troppo alte?

  14. Gianluca Cocco

    270 miliardi di euro all’anno. Questa la cifra stimata e diffusa oggi dall’Agenzia delle entrate. Una cifra simile si registra nei 51 stati uniti d’america. E il governo che fa? Non sa come distribuire i 12 miliardi di tesoretto. Quand’è che si preoccuperà seriamente di questo tesorone? Mai, perchè combattere seriamente l’evasione sarebbe elettoralmente inopportuno e sostanzialmente perchè è un governo che non rappresenta certo chi non si trova nella condizione di poter evadere. Bisogna fare in modo che i cittadini abbiano la convenienza a pretendere la fatturazione, altro che studi di settore. Bisogna tendelzialmente abolire le forme di imposizione indiretta, altro che studi di settore. Bisogna mandare in galera chi evade, perchè evadere significa rubare risorse a chi non evade. Anche l’evasione fiscale, come molte altre piaghe, è una scelta politica.

  15. Stefano Valenti

    Sarebbe più facile dar ragione a chi si lamenta degli studi di settore se le lagnanze contro il fisco occhiuto e sospettoso non si scontrassero ogni giorno con esercizi pubblici e professionisti di tutti i tipi che non rilasciano scontrini né ricevute e che impallidiscono quando si chiede loro se è possibile pagare con assegno (bar, lavanderie, barbieri e parrucchieri, carrozzieri, tappezzieri, idraulici etc.)
    La domanda della professoressa Guerra è posta ottimamente: no, non possiamo rinunciare agli studi di settore, che peraltro io ricordo invocati a gran voce dalle organizzazioni dei lavoratori autonomi durante gli anni 1990, all’epoca dei vari redditometri.

  16. Ing. Marzio Marigo

    A mio avviso gli studi di settore sono uno strumento di sintesi che difficilmente si può adattare al poliedrico mondo delle professioni e piccole e medie imprese del nostro tessuto produttivo. Tali studi, rispetto alla gaussiana che rappresenta l’universo del reddito del settore, dove posizionano la congruità? Sulla media gaussiana? Oppure sulla media diminuita di una deviazione standard? Oppure cos’altro? In sostanza, e qui sta la scelta tecnico/politica, quant’è l’universo del settore che si vuole “rendere” non congruo e sulla base di quali considerazioni? Ecco, a mio avviso mancano i criteri ed i descrittori con i quali tali studi sono elaborati. La “non congruità” per i singoli settori, a quanto viene “progettata”; al 30% per il settore X e al 10% per il settore Y? Tale informazione risulta totalmente mancante e, come cittadino, ritengo di avere il diritto di conoscere il dettaglio di queste scelte.
    Ultima considerazione: dato per dimostrato che la maggior parte dell’evasione si determina dove esiste contatto tra azienda/professionista e privato (tra aziende è più difficile in quanto la fattura dell’azienda Z è un costo detraibile per l’azienda K), perché non dare un minimo vantaggio di detrazione di costi sostenuti anche al privato in modo da rendere “intrinsecamente ineludibile” l’adempimento fiscale?

    Marzio Marigo

  17. Stefano

    A mio modo di vedere ci sono delle imprecisioni nell’articolo:
    1) I redditi dichiarati possono sembrare apparentemente bassi se paragonati con i lavoratori dipendenti. Tuttavia nele società quei redditi sono il surplus dopo che l’imprenditore si è preso i suoi compensi da amministratore (magari per qualche decina di migliaia di euro) o come dipendente. Anzi in questo caso, se non c’è trasparenza, tali redditi vengono tassati due volte: una prima in capo alla società ed una seconda al momento della distribuzione
    2) I redditi sono medi e inglobano le imprese in perdita, purtroppo numerosissime
    3) In periodo di recessione e contrazione dei consumi ci può stare che i redditi diminuiscano anche per le imprese.
    4) I lavoratori dipendenti prendono un netto su somme realmente percepite. I redditi dichiarati dall’impresa sulla quale oggi pago tasse si basano sul fatturato del l’esercizio a prescindere se incassato oppure no.Peccato che consistenti quote di fatturato non saranno mai pagate dai clienti (ed il fenomeno è in netto peggioramento a causa di una prassi consolidata che è dovuta da un sistema giudiziario a favore di chi non rispetta le regole).
    Stefano

  18. Pablo

    Gli studi di settore sono un strumento complicato e inutile. E’ più facile e attendibile commisurare l’imposizione fiscale al tenore di vita. Le imposte vanno pagate su tutti i redditi, non solo su quelli che si riesce ad accertare.

  19. Luca Guerra

    E’ evidente, che chi parla di studi di settore, non ne è mai stato oggetto! presupporre che perchè nel mio ufficio vi sono 4-5 pc funzionanti allora devo ricarvarne tot. è demenziale!! si applicano logiche da dipendenti (pubblici) al settore privato, ove non vi è la certezza che si ripeterà l’incasso dell’anno prima, ma solo che le spese aumenteranno….. perchè vi sono anni buoni ed anni meno buoni, ma con il clima da caccia all’evasore instaurato da questo governo è davvero difficile ragionare. Per il resto un’osservazione banale, ma sin’ora trascurata: quando un professionista od artigiano non emette la fattura o lo fa in forma ridotta rispetto a quanto incassato, dall’altro lato vi è qualcuno che risparmia l’iva, ma di questi soggetti non si parla, come mai??

  20. Sten Bach

    La caccia all’untore/evasore è sempre un esercizio di forza di una maggioranza contro una minoranza. Non sempre la maggioranza possiede scienza, conoscenza, verità. Forse in questa maggioranza troviamo anche quei 1.300 lavoratori dell’Arsenale Militare di Taranto che percepiscono lo stipendio – e vi pagano tasse e contributi – senza fare nulla. Colpa loro? Colpa dei pubblici amministratori che non li fanno lavorare, come essi sostengono? Ognuno valuti a modo suo, ma resta il fatto che le maggiori entrate fiscali contribuiscono anche a pagare l’aumento mensile di 100 euro di quelle retribuzioni. Nei bilanci annuali dello stato il totale delle voci di spesa non diminuisce mai. Cresce sempre. Poi, basta guardarsi intorno – senza pregiudizi e senza facile demagogia – per vedere come vengono spesi i soldi dei contribuenti. E’ normale che i nostri governanti sentano sul collo il fiatone di entrate insufficienti. Ciò che non è normale è avvallare il pregiudizio che la colpa sia soltanto di quei lavoratori autonomi che non hanno un reddito congruo rispetto a studi di settore che ricordano la statistica del pollo di Trilussa; non è normale che il lavoratore dipendente, che fa onestamente il proprio lavoro, sia spinto al linciaggio dei presunti untori-evasori. Contro ogni radicato pregiudizio, perchè non essere positivi e credere che la gran parte di coloro che non hanno un reddito “congruo” stia lanciando un grido di dolore ? Perchè non credere che quel grido di dolore sia anche socialmente utile a frenare la dilapidazione dell’erario da parte di un ceto poltico – conniventi e clienti inclusi – dagli interessi inconfessabili. E se i “non congrui” fossero come quegli untori mandati a morte per la diffusione della peste? loro sapevano di non avere colpa, ma sapevano anche di non poterne convincere i loro giudici e carnefici.

  21. Lucio Tamagno

    L’articolo è molto valido, dovrebbe essere pubblicato anche su quotidiani di larga diffusione.
    Lo scandalo dell’evasione fiscale italiana è una mina alla convivenza sociale dirompente. Inoltre la sua dimensione si appoggia su un giro di illegalità così ampio da offrire alla criminalità organizzata ottime occasioni per compiere il percorso inverso da nero a bianco dei propri capitali. Oltre a misure tecniche ritengo siano necessarie misure politiche. L’omissione della ricevuta fiscale deve essere oggetto di due interventi. Uno volta al recupero dell’IVA e della base imponibile del soggetto che non emette il documento, la seconda per consentire la detrazione dell’IVA versata o di una quota consistente da parte del percettore del servizio. Lo stato infatti recupererebbe il gettito IVA, in parte restituito in genere a contribuenti “necessariamente onesti”, e maggior imposizione ficale per contribuenti molto meno onesti. La misura può essere graduata in base al “rischio infedeltà” del fornitore del servizio, per certi servizi puo essere deduzione per altri detrazione. Un secondo effetto sarebbe quello di spezzare molti legami del vasto giro del nero con benefici indiretti, ma strutturali credo molto ampi.

  22. Stefano

    Se veramente fossero così precisi come l’articolo vuol fare intendere, perchè il Fisco non ci evita di compilare le dichiarazioni dei redditi, tenere la contabilità e fare i mille adempimenti e direttamenteci invia un bel bolletino con le imposte da pagare? Anche se pagassimo un pò di più di tasse risparmieremmo di commercialista…
    Invece la verità è che sono una minum tax che presuntivamente decreta imponibili ed imposte non avendo nessuna sensibilità su magazzini con basse rotazioni perchè cumulate nei decenni, incrementi di acquisti per motivi commerciali ecc.
    Uno strumento troppo grezzo che alimenterà un contenzioso incredibile (per fortuna quasi sempre vinto dai contribuenti).
    Infine la teoria della deducibilità delel spese riguarderebbe i privati e non le imprese che già deducono tutto o quasi.

  23. Pier Giovanni Dal Mas

    L’articolo è parzialmente corretto. Infatti non precisa che l’antipatia che gli studi di settore stanno generando è dovuta alla circostanza che la finanziaria 2007 ha equiparato gli studi di settore a presunzione legale, quindi se il contribuente non si adegua essi costituiscono titolo legale per accertare il maggior reddito senza possibilità di prova contraria. Questo dice la legge in vigore, poi articoli interviste dicono che l’A.F. valuterà singoli casi e non applicherà gli studi di settore. Oltre il danno la beffa perchè significa che il contribuente è alla merce della benevolenza del signore che può non applicare la norma di legge (cioè lo studio di settore). E’ una situazione civilmente inaccettabile.
    Inoltre la pratica degli anni scorsi, ha evidenziato che al di la delle belle parole gli uffici, probabilmente per ordini interni, non riconoscono le particolari ragioni e/o circostanze pratiche che giustificano, o possono giustificare le eventuali discordanze della contabilità del contribuente rispetto agli studi di settore, e l’unica difesa dagli studi di settore era il contenzioso fiscale.
    Questo è uno strumento pessimo gestito in modo pessimo.

  24. marco lodi

    vedo che “la lingua batte dove il dente duole”e molto. Credevo, da incompetente, che l’accertamento che segue al discostarsi dal minimo richiesto dagli studi di settore, fosse un vero accertamento: verificare concretamante il reddito del contrubuente. Invece leggo come sia il contribuente a dover portate le ragioni del proprio discostarsi. Non siamo fuori dallo stato di diritto? Diventa difficile discutere di redditi presunti sulla base di paramantri medi e non di redditi accertati sulla base di concrete verifiche. Sempre da incompetente, forse ingenuo, credo che un po’ di credibilità da parte delle Pubblica Amministrazione preposta agli accertamanti non guasterebbe.

  25. Carlo

    l’analisi della dottoressa Guerra sarebbe corretta se gli uffici locali instaurasero un serio contraddittorio con i contribuenti non congrui.
    Nei fatti, il soggetto risultante non congruo che dimostra (dimostra, non prova a dimostrare) la correttezza del proprio operato si sente quasi sempre proporre una riduzione del 30% di quanto astrattamente calcolato da Gerico.
    Se le cifre non sono esorbitanti conviene quindi adeguarsi per non dover sopportare le spese di un ricorso, che probabilmente sarebbe anche vittorioso.
    Da qui un’ultima cosiderazione: le stime di evasione sono basate sul maggior reddito accertato? Se così fosse, meglio sarebbe attendere gli esiti del contenzioso.

  26. massimo

    Nel periodo settembre-dicembre 2006 viene predisposta ed approvata la finanziaria che prevede la stima di quanto gettito produrrà la lotta all’evasione
    successivamente nel mese di marzo 2007 vengono approvati gli studi di settore non per il 2007, ma per l’anno precedente
    molti contribuenti congrui per i redditi 2005 si trovano, pur con situazioni analoghe, non congrui per i redditi 2006
    non sarebbe più trasparente invertire la tempistica?

  27. Barbara Bondavalli

    Vorrei sottolineare che gli studi di settore non sono assolutamente adeguati a inquadrare la situazione economica di chi lavora in conto terzi.
    Per chi lavora in conto terzi è impossibile fare del nero. Nonostante questo il mio studio di settore mi dice che non sono congrua perchè ho tot metri di magazzino (ma il materiale non è mio, è del cliente e se il materiale gira poco non so cosa farci), perchè ho comperato il nuovo furgone (che bello investire in Italia), perchè ho un certo numero di addetti, tra cui una povera impiegata che non sta all’assemblaggio, ma che per l’A.F. deve produrre ricavi. Lo studio di settore per i terzisti sarebbe facilissimo da fare. A quanto si lavora mediamente all’ora? Nel settore oleodinamico a non più di 17 euro, grazie alla concorrenza delle FINTE COOPERATIVE, nel settore plastica e cablaggi a non più di 13 grazie alla concorrenza DEI CINESI.
    Se quelli dell’A.F. avessero mai messo piede in un’azienda nella loro vita, capirebbero che basterebbe moltiplicare tali importi per le ore lavorate dagli operai…..ma credo che chiedere a uno statale di lavorare in un’azienda per un giorno sarebbe troppo!!!! Meglio dargli 110 euro di aumento per il disturbo di alzarsi al mattino.

  28. franco benincà

    Una volta emanate le regole vi sono le solite polemiche: viene contestato il metodo sulla base di assiomi relazionali tra categorie economiche (o forse si tratta di vere e proprie lobbies che fingono di litigare prima di consumare il matrimonio?). Gli autonomi lamentano una pressione nei loro confronti riversando la rabbia sull’aumento dei dipendenti pubblici, gli industriali rivendicano pressioni riversando i guasti di sistema sulle inefficienze della pubblica amministrazione e via dicendo… I policy makers cercano di distribuire il minore sacrificio in cambio della massimizzazione delle quantità di voti nel loro collegio….Ciò che voglio dire è che siamo di fronte ad una grave incapacità di dialogo di quella società civile tanto richiamata ed elevata a protagonista: società civile composta dai rappresentanti di tutti i cittadini, le quali debbono convincersi che la spesa pubblica è onere civile di ognuno e, contemporeneamente, i policy makers debbono rispondere della responsabilità di spese inutili, dannose o peggio essere loro stessi protagonisti di pindariche elusioni sulla base di normative sedimentarie, antinomiche e contradditorie che altro non sono se non ghibli del deserto per gli stessi operatori economici.

  29. Matteo Capanni

    Riporto dal Corriere della Sera di oggi la seguente notizia: Il 53,8% dei lavoratori autonomi e delle piccole-medie imprese (pmi) sottoposte agli studi di settore dichiarano ricavi per 193.600 euro all’anno, ma poi denunciano al fisco un imponibile su cui pagare le tasse di 10.500 euro, ossia 875 euro al mese, meno di un operaio metalmeccanico (sic!). I dati emergono dalle ultime elaborazioni dei dati degli studi di settore effettuate dal ministero dell’Economia sui redditi del 2005 diffusi dal vice ministro Vincenzo Visco. I lavoratori autonomi e le pmi in linea con i calcoli del fisco sono invece il 39,4% del totale e dichiarano mediamente 45.800 euro.

  30. Paolo Briziobello

    Dott.ssa Guerra, il suo articolato nasce da un assunto sacrosanto: che nessuna norma possa produrre effetti retroattivi. Temo che la principale causa di questo malessere collettivo che attualmente si sta manifestando da parte di imprenditori, autonomi e commercialisti stia proprio nella non applicazione di questo basilare concetto di equità.
    E non credo valgano a molto le ripetute comunicazioni a mezzo agenzie di stampa, con le quali alti Funzionari ministeriali si premurano di tranquillizzare i contribuenti.
    Per chi è abituato a far rispettare le norme di legge, ovvero anche e prima di tutto i professionisti della materia, la norma resta sovrana.
    Forse gioverebbe ricordarlo.
    In merito all’esegesi degli studi mi trova concorde nell’analisi di merito.
    Mi auguro tuttavia che si ponga un freno alla deriva qualunquista ma di grande impatto mediatico, frequente in questi giorni a discapito del lavoro autonomo e di impresa.
    In ultima analisi, la più banale ma che è frequente sentirsi porre dalle pmi, gioverebbe rispondere anche a questa domanda: se le imprese sono costrette a rivedere i loro cicli produttivi anche in termini di addetti, a chi gioverebbe il conseguente incremento della disoccupazione?
    Non certo alle casse dello Stato.
    Con stima

  31. Arnaldo Roberto

    Possibile che in Italia non ci si mette daccordo neanche sui numeri? Nell’articolo viene detto che l’evasione e’ stimata nel 27% del PIL, mentre io avevo letto da un documento ISTAT che dagli ultimi dati fosse intorno al 17% e le parole del Ministro Padoa Schioppa confermano questo dato: tratto dal sito del Corriere della Sera di oggi : “Il ministro ha ricordato che il sommerso è stimato in una percentuale variabile tra il 16,6% e il 17,7% del Pil con un valore aggiunto non dichiarato che varia fra i 230 e i 245 miliardi di euro. «L’evasione fiscale è una pandemia che comporta una perdita di oltre 100 miliardi di euro all’anno, pari a circa 7 punti di Pil in mancate entrate per l’erario statale». Non e’ che l’autrice si e’ confusa e intendeva scrivere 270 miliardi di euro di evasione (cifra’ piu’ compatibile con le percentuali date dal ministro, anche se ancora diversa) ?A meno che,lei non abbia dati ISTAT del 2006 che indichino un 27% di sommerso o si riferisca ad altri studi.
    Come prima cosa,occorrerebbe almeno mettersi daccordo sui dati,citando anche le relative fonti o studi.E’ esatto quello che ho scritto?
    Dal documento pubblicato dall’ISTAT relativo al periodo 2000-2004 si ritrovano i dati citati dal ministro,relativi al 2004 ( http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20061214_00/ ) e da questo documento si rileva che nel 2001 la forbice era 18,1%-19,1% sul PIL:ma allora io mi chiedo:cio’ vuol dire che dal 2001 al 2004 il sommerso in rapporto al PIL e’ diminuito,e allora perche’ si dice che con il governo Berlusconi sarebbe aumentato (in valori assoluti,certamente,ma quello che conta e in rapporto al PIL)?E’ pur vero,che dal 2002 dopo un a brusca discesa,ha cominciato a riaumentare,ma rimanendo sempre inferiore di 1,5 punti.O sbaglio?
    E come si spiega il dato dal 2001 al 2002,dove il sommerso sarebbe sceso da 18,1%-19,5% a 16,8%-17,3% rispetto al PIL? C’entra qualche calcolo e contabilizzazione relativa a condoni?

  32. Alessandro

    Sono un lavoratore autonomo e devo dire che se si lavora solo con imprese il nero non esiste e quindi quello che dichiaro è reale. Gli studi di settore non mi piacciono perché rendono tutti uguali, cosa che non è possibile nel modo lavorativo per vari motivi esposti in precedenti commenti. Sicuramente l’evasione danneggia anche me e io sarei molto grato all’amministrazione pubblica se volesse invece effettuare a campione accertamenti e sanzionare anche con la galera chi evade le tasse. La conclusione, penso molto semplice al di là di percentuali e quant’altro è che se ci fosse la certezza della pena e controlli seri probabilmente l’evasione diminuirebbe.

  33. Alessandro Sciamarelli

    Vorrei tentare di fornire una risposta al Sig. Arnaldo. In effetti, la confusione sulle cifre è evidente, spesso alimentata dalla (scarsa) qualità media dell’informazione in campo economico. Le stime sull’entità dell’evasione fiscale, in quanto tali, non sono dati certi come i national accounts e dunque spesso non sono univoche, ancorché autorevoli. Credo di far cosa utile nel segnalare il rapporto “La vulnerabilità dei conti pubblici italiani”, redatto nel 2005 da un gruppo di economisti fra i quali il compianto R.Faini. I dati riportati sono “strutturali” e dunque non suscettibili di grandi variazioni da un anno all’altro per effetto di policies governative. L’ammontare dell’evasione fiscale viene indicato, grosso modo, in 200 mld di € (il 14% del Pil), simile a quello di riferimento dell’Istat ma assai inferiore rispetto a quanto riportato dall’Agenzia delle Entrate, che addirittura lo eleva al 46% del Pil. Gli estensori del rapporto si attengono alla prima delle stime, più realistica. Il rapporto fornisce, credo, anche una risposta alla domanda posta sull’andamento dell’evasione fiscale durante il governo Berlusconi: si riscontra sì una lieve diminuzione (in rapporto al Pil), anche se gli estensori del rapporto tendono, pur con qualche cautela, a porla in relazione con gli effetti contabili dovuti ai condoni; ma negli anni 2002-2005 è scesa sensibilmente l’elasticità del gettito dell’IVA (ove si concentra gran parte dell’evasione) rispetto al Pil, il che, appunto, sembrerebbe fornire un quadro ben diverso. Se leggiamo congiuntamente a questo dato che il livello delle “total revenues”, aumentate negli ultimi anni sino toccare il 46,1 3% del Pil a consuntivo 2006, dato certamente non imputabile al governo Prodi (fonte Bankitalia; per la CE il 45,8;), allora è probabile che la pressione fiscale in questi anni sia salita per i soliti noti. Quale che sia, il dato sull’evasione fiscale fa dell’Italia un’autentica vergogna nel novero delle economie avanzate.

  34. pierfranco parisi

    Una volta si parlava di manette agli evasori. Qualc’uno è stato mai condannato? Neppure Previti, reo confesso. Non pensate che se un imprenditore avesse il timore di farsi 15 giorni di domiciliario e di sporcarsi la fedina ci penserebbe di più ad evadere? La patente a punti docet.

  35. Giancarlo Finesso

    Un piccolo contributo al dibattito sull’articolo! Vorrei solo fare alcune brevi considerazioni:
    1) Il livello di tassazione, sopratutto per le piccole aziende, è tale da far correre il pericolo di una progressiva marginalizzazione di migliaia di aziende che ora agiscono ed operano, hanno dipendenti e pagano contributi. La chiusura delle aziende toglie risorse allo Stato, non le incrementa, per cui mi sembra miope una politica tendente solo ad incrementare le entrate fiscali;
    2) Questa politica potrebbe d’altro canto essere di stimolo ad una aggregazione delle piccole realtà produttive, per trovare insieme economie di scala e risparmi, ma non mi risulta vi siano incentivi particolari all’aggregazione (forse intendiamo le lenzuolate solo come maggiori opportunità per le grandi aziende commerciali?)
    3) Questa guerra fra poveri fra piccole aziende autonome e lavoro dipendente mal pagato, non toglie una lira agli sprechi e ai privilegi troppo presenti nel nostro paese (dovrebbero vietare Report e lasciarci nell’incoscienza!). L’unico modo a mio avviso è che maggioranza e opposizione si rendano conto di occupare temporaneamente posizioni di potere e che l’obiettivo deve essere quello di rendere i cittadini compartecipi e consapevoli delle scelte attraverso una progressiva informatizzazione/informazione che ormai gli strumenti tecnici rendono possibile, rivendicabile e irrinunciabile (da cio’ anche una responsabilità innegabile degli organi di informazione.. ma su questo sarebbe opportuno un capitolo a parte)…

  36. Fabrizio Francescone

    Gentile Dottoressa Guerra,
    la ringrazio per aver fatto luce su un argomento che, a causa del suo elevato tecnicismo, risulta un po’ ostico alla maggior parte delle persone. Nonostante i criteri per la determinazione dei ricavi in base agli studi di settore siano particolarmente complessi perchè derivano da fattori contabili ed extracontabili e dalla combinazione statistica dei loro elementi, resta il fatto che il risultato finale, se il contribuente ha correttamente inserito in Gerico i dati che lo riguardano, dovrebbe essere abbastanza aderente alla realtà. Inoltre, nonostante le categorie, per ovvi motivi, lo neghino, gli uffici dell’Agenzia delle Entrate prendono in considerazione i dati che i contribuenti forniscono per giustificare, almeno in parte il loro scostamento. Il nocciolo è proprio questo: sono gli uffici, che conoscono il territorio, che possono valutare tali elementi e riconoscerli, anche se solo parzialmente.

  37. sergio graziosi

    Gentile professoressa,
    dispiace leggere un Suo articolo che pare apertamente uno spot pubblicitario dell’agenzia delle entrate. Non solo nel contenuto ma addirittura nel lessico. Le medesime parole utilizzate dal ministero e da Visco: gli studi di settore “un ausilio al contribuente per valutare la propria situazione economica”? Stampa inadeguata a comunicare per mancanza di mezzi tecnici: il sole 24 ore e italia oggi?
    I contribuenti hanno criticato non gli studi di settore ma i calcoli di questi studi di settore perlopiu’ illogici e definiti senza il contributo degli operatori.
    Ed infine le assicurazioni del viceministro e il metadiritto: per prassi consolidata i risultati di tali studi non varranno se una loro futura revisione portera’ a risultati piu’ favorevoli per il contribuente!! Lei ritiene sensate questo tipo di dichiarazioni sapendo quante centinaia di incognite ci sono?
    Con l’inalterata stima di quando La leggevamo scrivere sulla riforma della tassazione delle rendite finanziarie (cosi’ giusta e cosi’ scomparsa!)
    Un lettore de la voce

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