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Una firma necessaria

La raccolta di firme per il referendum sulla legge elettorale si avvia alla conclusione con il serio rischio che non si arrivi al numero prescritto. Eppure, solo il pungolo della consultazione referendaria può convincere i partiti a rimetter mano a una legge dai più giudicata pessima, ma che non si riesce a modificare per il veto delle piccole formazioni. E se una riforma non fosse comunque possibile, dal successo dei quesiti referendari si otterrebbe almeno l’innalzamento della soglia di sbarramento e la cancellazione delle candidature in più collegi.

La raccolta di firme per il referendum sulla legge elettorale si sta avviando alla conclusione, con rischi seri che non venga raggiunto il numero necessario. Complici del mediocre risultato, il silenzio dei media e in particolare della televisione, l’opposizione feroce dei partiti piccoli (tranne, onore al merito, l’Italia dei Valori), e l’astensione di quelli grandi (eccetto Alleanza nazionale), ricattati dai propri partner di coalizione. Esemplificativo in questo senso il comportamento del candidato a leader del Partito democratico, Walter Veltroni, che si è esibito in uno stupefacente “vorrei tanto, ma non posso”, che come indicazione di coraggio politico e scelte chiare non è proprio il massimo. Ma vale la pena firmare per il referendum oppure si tratta solo di una perdita di tempo, non dissimile dalle numerose altre che il cittadino italiano ha dovuto subire in occasioni simili? In questo caso, ci sono pochi dubbi che la risposta giusta sia la prima. Per due ragioni.

La ragione strumentale

Il motivo principale è che senza il pungolo del referendum, e dunque della necessità di modificare l’attuale legge elettorale per evitarlo, ci sono scarse speranze che la classe politica trovi la forza e il consenso necessario per rimettere mano alla materia. Votare di nuovo con la legge elettorale in vigore sarebbe un disastro, come la via crucis del governo Prodi dimostra ampiamente.
Strana storia quella dell’attuale legge elettorale. Approvata con i soli voti della maggioranza di centrodestra sul finire della legislatura precedente, è ovviamente una legge che induce la frammentazione e prepara la strada per il superamento del bipolarismo; perché dunque i grandi partiti del centrodestra l’abbiano votata è difficile da capire. Se volevano far perdere le elezioni al centrosinistra, hanno sbagliato e anzi potrebbero aver ottenuto l’effetto opposto. Se invece volevano impedire al centrosinistra di governare, ci sono riusciti appieno. Il problema è che l’ingovernabilità riguarderà anche loro, dovessero vincere le prossime elezioni. A riprova, si osservi che il sistema elettorale attuale non ha più padri: con vari distinguo, non c’è nessuno tra quelli che pure l’hanno votato che non ne richieda una riforma urgente e radicale. Per quanto riguarda il centrosinistra, poi, la necessità di cambiare la legge elettorale è uno dei primi punti del programma dell’Unione.
Eppure, modificarla sembra impossibile. La ragione, banalmente, è che è cambiato lo status quo. L’attuale sistema offre enormi poteri di veto ai partiti marginali, che non vedono perché debbano rinunciare a così comode rendite di posizione. In più, trasversalmente, avvantaggia tutte le segreterie di partiti che possono decidere a tavolino, con le liste bloccate e le candidature multiple, chi prenderà posto in Parlamento, eliminando i concorrenti pericolosi e premiando i sodali. Riformare la legge richiede necessariamente una qualche riorganizzazione del sistema partitico; riuscirci, accontentando tutti e ventitré i partiti esistenti, e in particolare gli undici dell’attuale coalizione di governo, è praticamente impossibile, come mostrano gli sforzi fin qui inutili del ministro Vannino Chiti. È possibile che la legge elettorale sia comunque non riformabile, o che non lo sia fintantoché questo governo è in carica; ma è certo che non verrà riformata se la minaccia implicita del referendum nei confronti dei partiti più piccoli non li indurrà a più miti consigli.

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La ragione sostanziale

Supponiamo tuttavia che la legge elettorale non venga riformata, che il referendum raggiunga le firme necessarie, venga considerato ammissibile dalla Corte costituzionale, che i cittadini si rechino a votare superando il quorum e che i “sì” prevalgano sui “no” (come si vede, una lunga lista di condizioni). Il sistema elettorale che ne deriverebbe, sarebbe vitale o sarebbe un altro pasticcio all’italiana, capace di rimetterci nei guai il giorno dopo la proclamazione dei risultati? Certo, sarebbe un sistema che nessuno scienziato politico scriverebbe mai a tavolino. Del resto, il referendum può essere solo abrogativo di leggi o di articoli di leggi esistenti. Comunque, qualche vantaggio rispetto al sistema attuale l’avrebbe. Intanto, si riporterebbe la soglia dei voti per la rappresentanza in Parlamento a un più ragionevole 4 per cento per la Camera e addirittura all’8 per cento al Senato (contro le sei soglie attuali, che si traducono nei fatti in limiti nettamente più bassi). Poi, si eliminerebbe lo sconcio delle candidature multiple, che rappresentano davvero una presa in giro degli elettori. Infine, concentrando il premio di maggioranza sulla lista più votata, e non sulla coalizione, darebbe un forte impulso alla aggregazione dei partiti.
Certo, c’è il rischio che se i partiti non si aggregano, il premio di maggioranza finisca con il dare un vantaggio spropositato ai più grandi: con il 25 per cento dei voti si potrebbe ottenere il 55 per cento dei seggi. E viceversa, se si aggregano, che l’aggregazione sia solo fittizia, conducendo successivamente a una nuova frantumazione. In realtà, questo dipende anche da altri due aspetti: i regolamenti parlamentari, che potrebbero essere in futuro meno condiscendenti verso la formazione dei gruppi, e il sistema di finanziamento dei partiti (pardon, il “rimborso delle spese elettorali”). Il generosissimo rimborso, fino a otto volte superiore alla spesa effettiva, introdotto dalla legge 157/1999 in sostituzione del finanziamento pubblico, prevede infatti che vi possano accedere i partiti che hanno corso alle elezioni.. Non è chiaro se altrettanto potrebbero fare partiti che si formassero successivamente alle elezioni. La mancanza dei soldi potrebbe dimostrarsi un collante molto convincente.

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Sommario 13 luglio 2007

  1. Enrico Marchesi

    Una eventuale vittoria del si al referendum riuscirebbe a peggiorare l’attuale legge elettorale, già inguardabile.
    Il referendum non incide minimamente sui due difetti macroscopici dell’attuale legge elettorale.
    In particolare:
    -l’assenza dell’espressione della preferenza nella scelta del candidato;
    – l’assegnazione del premio di maggioranza al senato su base regionale.

    L’impossibilità di esprimere la propria preferenza (possibilità forse garantita anche nelle “Democrazie Popolari”) riduce i candidati del parlamento al rango di funzionari di partito, scelti dalle segreterie a loro immagine e somiglianza.
    L’assegnazione del premio di maggioranza al senato su base regionale è invece del tutto irragionavole, in quanto non garantisce la presenza di una maggioranza a livello nazionale.
    Il referendum non si occupa minimamente di questi macroscopici errori.
    La caratteristica principale del sistema elettorale che risulterebbe dalla vittoria dei si al referendum è l’assegnazione del premio di maggioranza al partito con la maggioranza relativa.
    Sostanzialmente un partito di centro con il 35% dei voti potrebbe ottenere la maggioranza assoluta il parlamento.
    Alla faccia della rappresentanza. Era dai tempi della legge acerbo di Mussolini che nessuno tentava qualcosa del genere.
    In Italia ci sono delle persone che ritengono che la democrazia consiste nell’impedire la rappresentanza parlamentare di chi ha opinioni politiche diverse dal riformismo (sic) imperante.

    Andiamo bene.

  2. Daniele Ferretti

    Grazie per il graditissimo sostegno. ComitatopromotorediParma

  3. diego landi

    La fatica con cui si vanno raccogliendo le fiirme è la prova di una irrimediabile sfiducia degli italiani nella possibilità del cambiamento. Vivo a Palermo e voglio segnalare come il banco per la raccolta di firme al teatro Politeama è serrato da alcuni mesi. Questo mentre il Pd qui si sta formando come una mera sommatoria fra Ds e Margherita e un’occasione di riciclaggio di strani “old boys”

  4. Angelo Scotto

    L’analisi di Bordignon non mi convince molto per una serie di motivi:
    1) l’effetto pungolo del referendum non è forte come si crede, perché la difficoltà nel fare una nuova legge elettorale non risiede nella convenienza per i partiti di quella attuale (che è sì conveniente, ma esistono molte possibilità ancora migliori) ma nelle divergenze sul modello alternativo, divergenza che non può essere superata con questo pungolo, a meno di non volere un compromesso al ribasso ancora peggiore
    2) Bordignon dice giustamente che non basta la legge elettorale a superare la frammentazione, ma ci vorrebbe una modifica dei regolamenti parlamentari. Non vedo come sia possibile una simile modifica, se il futuro parlamento rispecchierà di nuovo, nonostante la nuova legge, una forte frammentazione.
    3) il rischio di una forte disproporzionalità tra voto e parlamento è liquidato in maniera troppo veloce: in un sistema democratico si tratta di una distorsione decisamente eccessiva, nemmeno nella Polonia del 1993 si è arrivati a livelli simili. Gli effetti sul sistema democratico sarebbero nefasti.

  5. M.Sassoli

    A Bruxelles le firme sono state raccolte solo fino al 6
    luglio…

  6. ERIO.ILPADANO@GMAIL.COM

    PURTROPPO ACCOLGO CON DISPIACERE LA NOTIZIA DEL SUPERAMENTO DELLE 500000 FIRME. UN REFERENDUM CHE VUOLE ELIMINARE DAL PARLAMENTO CON SOGLIE DEL 4%-8%, PREMETTO CHE NON HO APPROFONDITO, I PARTITI CHE A LIVELLO NAZIONALE HANNO LE PERCENTUALI PIU’ BASSE.
    POTREI MAGARI NON ESSERE PROPRIO CONTRARIO NELL’ ELIMINARE PARTITI CHE RACCOLGONO CONSENSI MINIMI IN TUTTA ITALIA, MA PER CERTI PARTITI EMINENTEMENTE REGIONALI TIPO QUELLO TIROLESE, VUOL DIRE PER CERTE AREE DEL PAESE TOGLIERE LA RAPPRESENTANZA POLITICA. E NON VENITEMI A DIRE CHE GLI ELETTORI POTREBBERO VOTARE PER ALTRI PARTITI. L’ELETTORE SEGUE IL PARTITO CHE GLI SI AVVICINA DI PIU’ E CONTITUNA A SEGUIRLO ANCHE NELLA CATTIVA SORTE.
    IL RISCHIO E’ CHE TOGLIENDO LA RAPPRESENTANZA POLITICA INTERE AREE DEL PAESE SI RIBELLINO “ALLA BASCA”.
    COMUNQUE IO SONO DELL’ AVVISO CHE OCCORREREBBE TROVARE UNA FORMULA MAGARI NUOVA PER NON ELIMINARE ANCHE IL PARTITO PIU PICCOLO. =OGNI SINGOLA PERSONA MERITA RISPETTO”.

  7. Franco Ragusa

    Incredibile ma vero, ad essere oggetto delle ire referendarie non sono le decisioni calate dall’alto, dalla scelta delle candidature da imporre agli elettori (con i collegi uninominali o con le liste bloccate non fa differenza) alle 200 o 1000 pagine di programma prendere o lasciare, bensì l’unico strumento che gli elettori hanno oggi a disposizione per poter in qualche modo modellare gli equilibri interni allo schieramento che intendono votare.
    Con il Mattarellum abbiamo avuto modo di assistere allo spettacolo vergognoso della spartizione dei collegi tra le forze politiche, il cosiddetto mercato delle vacche attraverso il quale veniva definita la geografia parlamentare interna agli schieramenti e rispetto alla quale gli elettori potevano solo decidere se partecipare a decisioni già  prese e non più discutibili o rimanere a casa.
    Diversamente, con la legge attuale, piaccia o no che a vararla sia stato il centrodestra, la geografia parlamentare delle due coalizioni è stata decisa dagli elettori e non dagli accordi di spartizione calati dall’alto.
    Tornare indietro su questo punto costituirebbe una lesione gravissima per il diritto degli elettori a poter scegliere per indirizzare e partecipare alla formazione dell’azione di governo, ed è bene quindi chiarire che l’obiettivo dei promotori del referendum non è tanto quello di garantire un quadro politico-istituzionale di tipo bipolare, quanto quello di azzerare la dialettica politica.

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