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Il gap manageriale del vecchio continente *

Perché l’Europa cresce meno degli Stati Uniti? Tra le varie cause, una non viene quasi mai citata: la differenza nelle pratiche manageriali. E la stessa letteratura economica non è di grande aiuto. Una ricerca recentemente condotta mostra come le pratiche manageriali abbiano un forte impatto sulla produttività d’impresa. E come mercati concorrenziali e lavori flessibili siano rilevanti per un management efficiente.

La modesta crescita della produttività registrata da molti paesi europei rispetto agli Stati Uniti è una delle questioni più dibattute nei circoli di politica economica. Un’opinione diffusa è che le differenze nel tipo di pratiche manageriali adottate nei vari paesi giochino un ruolo decisivo nello spiegare le diverse dinamiche di produttività. Questo tipo di spiegazione vede i suoi albori nei lavori degli storici economici Alfred Chandler e David Landes, i quali addebitavano l’arretratezza delle imprese europee alla scarsa qualità delle loro pratiche manageriali. A conferma di questa ipotesi, i tecnici e gli uomini di affari inviati in Europa nel 1947 nell’ambito del piano Marshall sostenevano che l’efficienza delle pratiche manageriali fosse il principale fattore alla base del vantaggio delle imprese statunitensi.
Tradizionalmente, gli economisti sono stati restii a partecipare al dibattito sul rapporto fra management e produttività. Questo atteggiamento è attribuibile principalmente alla mancanza di dati che documentassero in modo sistematico le diverse pratiche manageriali adottate dalle imprese. Nel corso degli ultimi anni, il Centre for Economic Performance della London School of Economics ha condotto una serie di ricerche finalizzate a colmare questo vuoto. Fra il 2004 ed il 2006 abbiamo misurato sistematicamente le pratiche manageriali di circa 4,000 imprese manifatturiere in 12 paesi, fra l‘Europa, gli Stati Uniti e l’Asia.
Combinando i risultati delle nostre survey sulla qualità del management con dati contabili a livello di impresa, siamo stati in grado di esplorare il rapporto fra il management, le caratteristiche dell’economia e la performance aziendale. La nostra ricerca mostra che migliori pratiche manageriali si accompagnano ad una superiore produttività d’impresa ed al positivo andamento di altri indicatori di performance aziendale, come il ritorno sul capitale impiegato, il fatturato per dipendente, la crescita del fatturato e l’incremento nelle quote di mercato. Il fatto che questi risultati si riscontrino in tutti i paesi nel nostro campione suggerisce che la nostra definizione di “buone” pratiche manageriali non misuri semplicemente approcci manageriali di stampo anglosassone.
I dati mostrano che le differenze nelle pratiche manageriali adottate spiegano una parte sostanziale – fra il 10% ed il 30% – delle differenze di produttività fra imprese e paesi. I fattori che determinano tale eterogeneità nella qualità del management fra imprese che competono su mercati simili è uno dei temi esplorati dalla nostra ricerca. In questo articolo presentiamo alcune possibili spiegazioni per tali differenze e proponiamo alcune misure di policy che a nostro parere possono incoraggiare l’adozione di pratiche manageriali efficienti.

Misurare le pratiche manageriali

La nostra ricerca si basa su una misura di management che può essere applicata a diversi tipi di imprese manifatturiere. La valutazione delle pratiche manageriali avviene mediante un’intervista telefonica con i direttori di stabilimento, nel corso della quale 18 aree chiave del management di impresa sono codificate e valutate su una scala che va da 1 a 5 (5 rappresenta le pratiche manageriali ottimali). Le 18 aree considerate possono essere divise in quattro tipologie:

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· Attività di produzione, per capire se le aziende adottano misure di lean manufacturing

· Monitoraggio della performance aziendale, per capire se le aziende monitorano sistematicamente la propria attività di produzione

· Determinazione degli obiettivi, per capire se le aziende si prefiggono obiettivi appropriati e se reagiscono adeguatamente al loro eventuale mancato raggiungimento

· Determinazione degli incentivi, per capire se le aziende assumono e sviluppano attivamente i soggetti migliori, e se li incentivano in modo conforme alla loro performance

I nostri intervistatori hanno parlato con uno o due direttori di stabilimento per impresa. I manager sapevano solo di partecipare ad un progetto di ricerca, e gli intervistatori non avevano alcuna informazione sull’impresa prima dell’intervista. Abbiamo scelto di parlare con i direttori di stabilimento poiché queste figure manageriali sono, allo stesso tempo, abbastanza lontani dall’attività produttiva per averne una visione di insieme, e abbastanza vicini da conoscerne i dettagli. Le interviste si basano su domande aperte ed abbiamo richiesto agli intervistatori di richiedere che ogni risposta venisse accuratamente dettagliata e giustificata da parte dei managers.

Il management nel mondo

I nostri dati mostrano marcate differenze nella qualità del management fra i paesi coperti dalla nostra ricerca. Gli Stati Uniti sono in cima alla classifica del management, mentre Grecia, India e Cina si trovano negli ultimi posti. Germania, Svezia e Giappone sono fra i migliori, mentre Francia, Italia e Regno Unito sono a metà classifica.

Gli Stati Uniti non eccellono sotto ogni aspetto. Le imprese nordamericane sono particolarmente forti nel people management (che include la promozione e l’adeguata remunerazione dei migliori dipendenti), ma Svezia, Francia, Italia, Giappone e Germania sono relativamente migliori degli Stati Uniti negli aspetti del management attinenti alla produzione (operations management).

Le differenze fra paesi sono in grado di spiegare solo il 9% della variabilità delle pratiche manageriali. L’eterogeneità del management all’interno dei diversi paesi è di gran lunga maggiore delle differenze fra paesi. Per esempio, il 35% delle imprese cinesi ed indiane registra una performance manageriale migliore dell’impresa media in Europa.


L’importanza della flessibilità

Alcuni strumenti di politica economica possono incoraggiare l’adozione di pratiche manageriali efficienti. Fra questi, gli interventi atti a stimolare la concorrenza dei mercati e la flessibilità del mercato del lavoro.
Abbiamo chiesto alle imprese del nostro campione di calcolare approssimativamente il numero di concorrenti nel loro mercato. La valutazione del management cresce al crescere del numero di concorrenti dichiarato nel corso dell’intervista. Questo può essere il risultato di due effetti. Primo, le pratiche manageriali migliori si diffondono più velocemente all’interno di mercati concorrenziali. Secondo, nei mercati più concorrenziali le pratiche manageriali inefficienti vengono eliminate da processi di selezione, che marginalizzano le imprese peggiori.
La ricerca mostra anche che la maggiore flessibilità del mercato del lavoro è associata con una migliore gestione delle risorse umane. Le imprese che operano in paesi dove il mercato del lavoro è flessibile (secondo l’indice di “Employment law rigidity” della Banca Mondiale) registrano valutazioni migliori nel people management. Gli Stati Uniti, caratterizzati da un mercato del lavoro estremamente flessibile, registrano in assoluto il migliore risultato nel people management.

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Il ruolo della proprietà e dell’istruzione

Le diverse tipologie di proprietà di impresa ed il livello di educazione del management e della forza lavoro sono fra i fattori determinanti della qualità del management.
La proprietà familiare – soprattutto se accompagnata dalla pratica di trasmettere la carica di amministratore delegato ai primogeniti – è associata a pratiche manageriali particolarmente scadenti. Questo risultato potrebbe essere di estrema importanza per l’Europa, dal momento che circa il 10% delle imprese manifatturiere nel Regno Unito, Francia, Italia, Portogallo e Grecia sono a conduzione familiare e scelgono l’amministratore delegato in base al criterio della primogenitura. In confronto, negli Stati Uniti solo il 2% delle imprese intervistate è di proprietà familiare e con CEO scelto sulla base della primogenitura.
Anche l’educazione della forza lavoro (managers e non) sembra avere un ruolo decisivo per il management. Per esempio, l’84% dei managers ed il 25% dei non managers delle imprese migliori (dal punto di vista della nostra valutazione delle loro pratiche manageriali) hanno un livello di educazione pari (o superiore) alla laurea. Fra le imprese peggiori, solo il 54% dei managers ed il 5% del resto dei dipendenti hanno la laurea.

Come colmare il divario?

La nostra ricerca mostra l’esistenza di un gap manageriale molto marcato fra molti paesi europei e gli Stati Uniti. A nostro parere, questa situazione può essere modificata dai Governi europei, incoraggiando l’adozione di pratiche manageriali efficienti.
Mercati concorrenziali e mercati del lavoro flessibili sono fortemente associate a migliori pratiche manageriali, così come il livello di educazione della forza lavoro. Interventi atti a migliorare questi aspetti saranno decisivi nel processo di trasformazione che i diversi paesi – emergenti e non – devono seguire se vogliono conservare o migliorare la loro competitività sui mercati globali.

(1) Questo progetto e’ stato condotto insieme da Nick Bloom (Stanford University), John Van Reenen (Centre for Economic Performance, LSE), Christos Genakos (Cambridge University) e John Dowdy e Stephen Dorgan (McKinsey & co). Per maggiori dettagli si consulti Bloom, Dowdy, Dorgan and Van Reenen (2007),’Management Practices and Productivity: Why They Matter’, http://cep.lse.ac.uk/management
(2) Per tutti I dettagli sulla metodologia della nostra survey – incluse l;e domande – si consulti Bloom and Van Reenen (2006), ‘Measuring and Explaining Management Practices across Firms and Nations’, Centre for Economic Performance Discussion Paper No. 716 e di prossima pubblicazione sul Quarterly Journal of Economics, http://cep.lse.ac.uk/pubs/download/dp0716.pdf

* Il testo in versione inglese e integrale è disponibile su www.voxeu.com.

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Una crisi estensiva, ma benigna

  1. Vinciguerra Simone

    E’ evidente che ci sia questo gap manageriale tra Europa e Usa. La letteratura Manageriale è solo USA. Ma come si spiega che il sistema delle piccole aziende lombarde viene analizzato dalle Università Manageriali in Cina, mentre in Italia non ci sia uno studio o analisi dei modelli imprenditoriali italiani. Signori dobbiamo apprezzare quanto abbiamo in casa perchè tutti non vedono l’ora di portarci via qualcosa. A presto Simone

  2. Carlo Catalano

    In italia il capitalismo familiare e la dimensione medio-piccola delle imprese e sono molto diffusi, a ciò si accompagna, nella gran parte dei casi, la pressocchè totale assenza di sistemi di controllo di gestione deputati a misurare le performance ed a porre in essere i correttivi in tempi rapidi. Budget, reporting, analisi degli scostamenti ed azioni correttive sono trascurati dalle PMI e spesso sono visti soltanto come fonte di costi piuttosto che motore della crescita, l’unica verifica si fa spesso in sede di bilancio consuntivo. Molte aziende multiprodotto non conoscono la redditività del singolo prodotto o della singola unità locale, per non parlare della redditività di ciascuna fase del processo produttivo, di conseguente analisi make or buy o di redditività per area geografica e canale di distribuzione.
    Come si può accrescere l’efficenza aziendale se nemmeno la si misura? Il Governo non dovrebbe incentivare gli investimenti in IT mirati a tal fine?
    Grazie

  3. Luigi S.

    A me sembra un articolo molto ideologico.
    L’assunto di partenza – non discusso – è la differente performance economica USA vs Europa e si conclude come al solito che ci vuole flessibilità del mercato del lavoro (senza specificare se nel segmento dei soli mega manager o dei dipendendenti). La differente performance economica USA vs Europa può essere spiegata meglio da altri fattori, in primis le bolle dot.com prima e immobiliare poi – ma non solo, vedi per es Irving ( http://www.taurillon.org/Europa-contro-Stati-Uniti-Qual-e-l-economia-vincente). Poi viene mostrato un grafico dove sarebbe da specificare se le differenze tra USA da un lato e Germania e Svezia dall’altro (che sono paesi europei) sono statisticamente significative. Tenderei ad escluderlo.

  4. Diego F.

    Vorrei porre una questione: dal grafico esposto non noto una differenza così sostanziale tra la valutazione del management Usa e quello di Germania, Italia, UK e Francia, mentre una differenza più corposa si nota tra Usa e il duo Cina India che, si sa, mostrano crescite importanti. E’ allora davvero significativo valutare il management per analizzare la lentezza europea in confronto agli Usa e ancor più a Cina e India (anche se queste ultime forse non sono proprio raffrontabili con i vecchi, ma resistenti, sistemi occidentali)? Inoltre, nonostante il gap sia sicuramente evidente, sembra sia solo il rilfesso di altri problemi (i.e. flessibilità, istruzione, concorrenza).

  5. Federico

    Questo articolo, a mio avviso, e’ solo una delle tante dimostrazioni che la concorrenza e’ cio’ che veramente spinge la crescita economica.
    Cosi’ come un manager sa che se non si ingengna in un mercato concorrenziale rischia di chiudere bottega, allo stesso modo i dipendenti delle imprese sanno che, in un mercato del lavoro flessibile e quindi competitivo, se non si inventano qualcosa di nuovo vengono messi alla porta e sostituiti.
    Purtroppo queste considerazioni a scuola non le fa nessuno.
    Io ho fatto il liceo classico e mi sono dovuto studiare ben due libri del vecchio carletto Marx, ma non mi era stato fatto leggere nemmeno un articolo su adam smith.
    Il nostro deficit culturale dipende anche dalla parzialita’ dei programmi e degli insegnanti.
    Un saluto a tutti…

  6. guido libertini

    l’analisi, per quanto sommaria, coincide con quanto viviamo ogni giorno nelle aziende italiane: il gap piu’ che genericamente manageriale e’ secondo me organizzativo, un retaggio della nostra cultura storica poco aziendale e poco orientata all’organizzazione (sull’organizzazione degli italiani ci sono anche simpatiche storielle….).
    Lascerei stare i lamenti ideologici e il liceo classico, e’ invece molto vero che sul controllo di gestione e il monitoraggio delle performance stiamo molto indietro.

  7. Filippo Zanella

    Il filone della “produttività” mi pare sia in grado di produrre ciclicamente un “botto” di articoli, ricerche, sondaggi etc. con il bollino di “scienza” stampigliato su. Questo avviene con una certa regolarità e questo articolo non fa eccezione. C’è un errore metodologico di fondo: assumere che un evidenza statistica sia anche un evidenza empirica. Non lo è. L’altro “errore” è nascondere dietro un velo di equazioni complicatissime questo fatto.
    In letteratura è spesso citato il famoso rapporto McKinsey che analizzava la produttività tra il 1995 e 2000. Un vero è proprio “salto” in produttività. Il “castello” della produttività però crolla di fronte alla considerazione di puro buon senso: se produttività vuol dire fare di più a meno, come si spiega il fatto che mentre negli anni ’70 uno stipendio era sufficiente per mantenere la famiglia ed uno standard di vita decente, ora due (alla faccia dell’emancipazione femminile), raramente sono sufficienti ad arrivare alla fine del mese? In questa equazione della produttività mi pare manchi un elemento decisivo; l’inflazione.

  8. Tito Nardi

    La flessibilità è senz’altro uno dei fattori che concorrono ad una migliore dirigenza. Non capisco però una cosa: sarebbe un dinamico mercato del lavoro "dei quadri" che ne aumenterebbe l’efficienza collocando "persone giuste al posto giusto", oppure sarebbe il mercato in senso più generale delle risorse umane che aiuterebbe i dirigenti a scegliere (e scartare) con maggiore libertà le risorse di volta in volta più adatte (o inadatte) al ruolo e alla contingenza? Certamente entrambi. Non credo che il management europeo sconti nella sua mediocre valutazione media solo il fatto di confrontarsi con un mercato del lavoro più tutelato di quello nordamericano (e quindi più rigido, forse per come sono concepite le nostre tutele): la correlazione tra cattive performances manageriali ed ereditarietà delle cariche direttive espresse dalla proprietà ci racconta come sia anche la più generale (e profonda) "questione meritocratica" a penalizzare l’efficienza; al di là delle condizioni al contorno sindacali. Queste sono certamente parte dell’equazione se si stanno valutando i risultati della "pratica manageriale" (concetto utile ma spersonalizzato), ma pesano meno quando ci si concentra su quelli del manager come risorsa umana tout court. D’altra parte il pragmatismo imporrebbe di valutare l’effettiva incisività che il legislatore può avere nel tentativo di regolare questi diversi fattori d’inefficienza. Purtroppo viene spontaneo credere che sia molto più facile erodere (o magari adattare) le tutele del lavoro in generale che non liberare improvvisamente i meccanismi di selezione della dirigenza da pratiche secolari come la raccomandazione (fonte inesauribile di "rigidità"). Questo in quanto la psicologia e la sociologia sono materiali molto più scivolosi da trattare per un decisore di quanto non lo sia il diritto del lavoro. Né l’economia purtroppo ci aiuta ad andare più a fondo in queste problematiche che hanno, in senso lato, forse risvolti più antropologici che statistici.

  9. MARCO TRONTI

    Per dare un giudizio su ogni scritto bisognerebbe attendere qualche tempo. Proporrei a qualche giovane di buona volotà una ricerca sugli scritti economici e giuridici usciti fino a metà 2008 che mettono a confronto il sistema USA con altri sistemi. L’ ipotesi di lavoro è questa: che gran parte di questi scritti arrivano a conclusioni sbagliate, partendo da dati fasulli, attenendosi ad un’ impostazione tanto superficiale da non poter neppur essere definita ideologica ma piuttosto "ovino-modaiola". Tutto da verificare.

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