Sono soldi dei lavoratori, accantonati obbligatoriamente anno dopo anno, somme messe da parte come assicurazione contro il rischio di disoccupazione o per premunirsi da eventi avversi soprattutto sul finire della carriera lavorativa. Il Tfr, Trattamento di Fine Rapporto, ha svolto nella sua ormai lunga esistenza questa duplice funzione: è stato, da una parte, un ammortizzatore sociale per i lavoratori con lunghe anzianità aziendali, dall’altra, un capitale, la cosiddetta “liquidazione”, di cui poter fruire in caso di perdita del posto di lavoro oppure, verso la fine della propria vita lavorativa, per questioni di salute o l’acquisto di una casa. Oggi è soprattutto questa seconda funzione che è destinata a diventare più importante.

La liquidazione accumula per ciascun anno di lavoro una quota pari all’importo della retribuzione annua divisa per 13,5 (la retribuzione utile per il calcolo del Tfr comprende tutte le voci retributive corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, salvo diversa previsione dei contratti collettivi). Tenendo conto che di questa quota una parte, lo 0,5% per la precisione, va all’Inps come contributo per le prestazioni pensionistiche, la quota accantonata annualmente in termini percentuali è pari al 6,91% della retribuzione utile. Questi accantonamenti sono stati sin qui quasi sempre trattenuti dalle imprese e remunerati con un rendimento molto basso, addirittura inferiore all’aumento del costo della vita quando l’inflazione era superiore al 6 per cento. Tempi non troppo lontani. Per questo per lunghi anni il Tfr ha rappresentato una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Li iscrivevano a bilancio come passività, ma erano risorse a disposizione delle imprese, che potevano disporne liberamente. Salvo poi restituirli ai dipendenti, come un salario differito, nel momento in cui cessava il rapporto di lavoro. Memori di questa funzione, le imprese hanno fortemente protestato quando è stato deciso di permettere ai lavoratori di dirottare il Tfr alla previdenza integrativa. Hanno parlato di scippo del Tfr. Ma non sono soldi loro. Il Trattamento di Fine Rapporto appartiene ai lavoratori. Non sempre questi lo sanno. Dal 2005 il valore del Tfr maturato non è più presente come voce nel modello Cud. Anche se il lavoratore può, comunque, richiederlo in ogni momento al proprio datore oppure consultare l’ultima busta paga dell’anno e in sede di conguaglio fiscale, molti non lo fanno.

Bene diversificare le fonti di reddito durante la vecchiaia

Il Tfr è oggi chiamato a divenire un accantonamento per la vecchiaia che possa integrare pensioni pubbliche inevitabilmente sempre più magre, fornendo al lavoratore rendimenti da capitale gestito, anziché fissati per legge. Servirà a rafforzare la previdenza integrativa, largamente sottosviluppata nel nostro paese. Avere un secondo e un terzo pilastro previdenziale da affiancare a quello pubblico è un modo per diversificare i rischi. Anche i versamenti all’’Inps, infatti, comportano dei rischi. Fra questi c’è il rischio politico di cambiamenti nelle regole di calcolo delle pensioni o nei requisiti minimi per accedervi. Ne sanno qualcosa le generazioni coinvolte dallo scalone Maroni-Tremonti (che in una notte innalza di 3 anni i requisiti per andare in pensione). I sistemi pubblici, a ripartizione, sono anche esposti al rischio di declino della fertilità, rischio cui non sono soggetti gli schemi a capitalizzazione. Quindi diversificando il proprio portafoglio previdenziale, assicurandosi diverse fonti di reddito una volta ritiratisi dalla vita attiva, si riesce meglio a tutelare il proprio reddito futuro.

Il pilastro mancante

Oggi in Italia l’’unico reddito su cui si possa contare durante la propria vecchiaia sono le pensioni pubbliche in Italia. Quasi inesistenti il secondo e il terzo pilastro previdenziale, vale a dire i fondi pensione collettivi e quelli individuali. Il grafico qui sotto illustra il patrimonio dei fondi pensione in percentuale del prodotto interno lordo in diversi paesi. Vi sono paesi in cui questo rapporto è superiore al 100 %. Da noi i fondi pensione contano meno del 3% del pil. Tra i paesi Ocse siamo davanti solo a Corea e Turchia.

Fonte: T. Boeri, L. Bovenberg, B. Coeuré, A. Roberts (2006).

La mancanza di fondi pensione privati in Italia si spiega anche col fatto che il sistema pensionistico pubblico assorbe tantissime risorse. Il grafico qui sotto illustra il cosiddetto “effetto spiazzamento” esercitato da alti contributi obbligatori al sistema pubblico sul decollo della previdenza integrativa. Più alti i contributi al sistema obbligatorio (gli istogrammi scuri nel grafico), minori i contributi versati alla previdenza integrativa (istogrammi in chiaro). E’ la solita storia della coperta troppo corta. Se si destina quasi il 50% del proprio salario alle pensioni pubbliche rimane ben poco da destinare alla previdenza integrativa.

Fonte: T. Boeri, L. Bovenberg, B. Coeuré, A. Roberts (2006).

Ma cosa sono questo oggetto misterioso, i fondi pensione?

Ci sono diversi tipi di fondi pensione. La distinzione più importante è quella fra fondi collettivi (chiusi o aperti) e fondi individuali.

I fondi collettivi possono essere chiusi o aperti. Sono chiusi quando vi possono accedere solo i lavoratori appartenenti ad una data azienda o categoria. Sono aperti, quando in principio, tutti possono accedervi e la gestione del fondo risponde comunque a scelte di investimento che riguardano una pluralità di lavoratori.

I fondi pensione individuali o personali (da noi si chiamano Pip, piani pensionistici individuali) assicurano a chi li sottoscrive piani di investimento personalizzati a secondo delle proprie necessità. Si sceglie un profilo di rischio rispondente alle esigenze personali che cambiano notevolmente durante la vita lavorativa.

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Gli schemi occupazionali ed individuali non sono necessariamente mutuamente esclusivi. Possono anche essere usati contemporaneamente: generalmente le grandi aziende in molti paesi offrono schemi di tipo occupazionale, mentre in altre imprese si ritiene meglio che i singoli provvedano alla stipula di pensioni individuali. I lavoratori possono anche versare contributi a pensioni personali, oltre che partecipare a schemi collettivi.
Entrambi i sistemi (collettivo e personale) hanno pro e contro, se osservati dal punto di vista dell’’investitore individuale. In particolare, gli accordi su base personale tendono ad essere più flessibili dal punto di vista dell’’individuo, ma al contempo tendono a costare di più perché i costi di gestione del portafoglio non possono essere spartiti su di una pluralità di individui.
Gli accordi collettivi stipulati tramite il datore di lavoro hanno per molti lavoratori vantaggi superiore a quelli forniti dai sistemi individuali. Sono più efficienti dal lato dei costi, poiché non comportano costi di vendita, di consulenza e di amministrazione di un singolo portafoglio. Inoltre permettono ad individui, che abbiano limitate conoscenze sul funzionamento dei mercati finanziari, di delegare decisioni difficili e condividere il rischio con altri. Solo gli accordi collettivi permettono questa condivisione del rischio, tanto fra lavoratori e datori di lavoro che tra diverse generazioni di lavoratori. Ad esempio, i lavoratori più giovani possono prendere più rischi e investire sui mercati azionari mentre quelli più anziani possono investire di più sul reddito fisso, assicurando nel complesso un portafoglio bilanciato al fondo.
I fondi pensione oggi esistenti in Italia sono a contribuzioni definite. Questo significa che la pensione che si riceve dipende direttamente dai contributi versati e dai rendimenti ottenuti tramite il fondo. Altrove esistono anche schemi a prestazioni definite in cui il datore di lavoro (o il promotore del fondo) è tenuto a garantire al contribuente una data percentuale del salario medio o dell’’ultimo salario. Ma sono sempre meno i fondi pensione di questo tipo.

Chi può cambiare la destinazione del Tfr e come?

Torniamo dunque all’’opzione offerta dallo smobilizzo del Tfr e chiediamoci innanzitutto chi potrà esercitarla.
Potranno decidere cosa fare del proprio tutti i lavoratori dipendenti del settore privato e i lavoratori autonomi, ovvero tutti i lavoratori con un contratto di lavoro dipendente in forza del quale matura il Tfr. Si tratta di circa 11 milioni di lavoratori. Tra questi non figurano i collaboratori coordinati e continuativi, con o senza modalità a progetto. Sono, al momento, esclusi dal campo di applicazione della riforma le collaboratrici domestiche e i loro datori di lavoro, oltre ai pubblici dipendenti ai quali continua ad applicarsi la disciplina vigente.
Questi lavoratori avranno piena libertà di scelta circa il fondo nel quale far confluire il proprio Tfr, ma la scelta sarà di natura diversa e avverrà in tempi diversi a seconda della data di assunzione. Due date sono importanti : il 29 aprile 1993 e il 31 dicembre 2006.
Chi è stato assunto prima del 29 aprile 1993, avrà la possibilità di frazionare il Tfr, lasciandone una parte all’’impresa e un’altra parte in un fondo pensione. Nell’’ipotesi in cui abbia già aderito a un fondo pensione, potrà infatti continuare a contribuire con la stessa quota versata in precedenza, mantenendo presso il datore di lavoro il resto del Tfr maturando; oppure potrà versare ai fondi l’intera liquidazione futura. Se, al contrario, non è ancora iscritto a fondi pensione potrà scegliere di trasferire il Tfr futuro anche solo nella misura fissata dagli accordi collettivi o, in assenza di questi, in misura non inferiore al 50 per cento.
Chi, invece, è stato assunto dopo il 29 aprile 1993 non potrà “frazionare” la destinazione del Tfr futuro: potrà solo spostare l’intero accantonamento a un fondo pensione oppure tenerlo in azienda.
La scelta del lavoratore potrà essere espressa fino al 1 luglio 2007 per chi è stato assunto entro il 31 dicembre 2006.
Chi, invece, è stato assunto a partire dal 1 gennaio 2007 potrà spostare il Tfr integralmente verso un fondo pensione avendo 6 mesi di tempo a disposizione dalla data di assunzione. Quindi il suo tempo di scelta potrà estendersi dopo il 1 luglio 2007.
Nel caso in cui il lavoratore decida di mantenere il Tfr in azienda, questa scelta sarà sempre revocabile. Al contrario, la scelta di trasferire il Tfr ad un fondo pensione non e’ revocabile. Si potrà solo cambiare il fondo pensione scelto dopo due anni, ma le quote future del Tfr dovranno sempre confluire in un fondo pensione e non potranno più ritornare in azienda.

Un’opportunità per i giovani

Il Tfr servirà soprattutto ai lavoratori più giovani per avere una pensione adeguata fra 30-40 anni, sfruttando i più alti rendimenti offerti dalla previdenza integrativa rispetto al sistema pubblico. Per i giovani i tassi di rimpiazzo (ovvero il rapporto tra prima prestazione pensionistica e ultimo salario) delle generazioni che vanno in pensione ora sono irraggiungibili, pur conteggiando trenta o quaranta anni di versamenti al Tfr. Questo perché la pensione pubblica offrirà un rimpiazzo del reddito da lavoro del 35-40 per cento nei casi migliori, contro l’’attuale 65-70 per cento. L’’unica via per coprire questo “buco” pensionistico è garantire, specialmente ai giovani, rendimenti più elevati all’’accantonamento ora versato al trattamento di fine rapporto (si vedano le stime nel contributo di Agar Brugiavini a questo volume).
Al tempo stesso i giovani sono chiamati a destinare fino a quasi il 50% della propria retribuzione a chi oggi a 57 anni (dopo 35 anni di lavoro) va in pensione. L’’aliquota di equilibrio dei lavoratori dipendenti (il contributo che dovrebbe essere pagato per azzerare il deficit dell’’Inps) è infatti vicina al 45 per cento. Questo significa che i giovani hanno a disposizione poche risorse da investire in previdenza integrativa. Il Tfr rappresenta per tutte queste ragioni un’opportunità irripetibile. E’ una opzione che va assolutamente esercitata.

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L’importanza di decidere

I lavoratori che decidono espressamente e nel più breve tempo possibile cosa fare del Tfr si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto a coloro che, invece, lasceranno decorrere i termini senza avere espresso una scelta e ricadranno perciò nel regime del silenzio-assenso. Ai primi verrà concesso di trasferire i fondi alla destinazione da loro preferita fin dal mese successivo a quello in cui l’opzione viene esercitata. Nel caso optassero per i fondi di pensione di categoria e versassero una piccola quota aggiuntiva al fondo prescelto, potranno in molti casi ricevere anche un contributo aziendale (attorno all’’1,2% del salario annuale, più di 200 euro per un lavoratore medio). Per i secondi, il trasferimento avverrà solo dal primo luglio 2007 e sarà a condizioni meno vantaggiose: senza contributo aziendale e con rendimenti più bassi. Il fatto è che i fondi che ricevono il Tfr in silenzio assenso sono tenuti a un profilo di investimento molto prudenziale, che rende più o meno come il Tfr, inadatto soprattutto per i lavoratori più giovani. Chi non sceglie avrà così un triplo svantaggio: smobilizzo più tardi, meno soldi versati e che rendono di meno. Quindi la mancata espressione della propria volontà può costare tantissimo ai lavoratori, facendo loro perdere gran parte dei vantaggi offerti dallo smobilizzo del Tfr nel costruirsi una previdenza complementare. Pur ipotizzando rendimenti netti per i fondi pensione attorno al 4%, nel giro di 30 anni la mancata scelta potrebbe costare per un lavoratore medio fino a 6.000 euro, quasi il 10 per cento del capitale messo da parte con lo smobilizzo del Tfr.
Insomma il lavoratore che non sceglie, o tarda a scegliere, ci perde e non poco.

I veri amici dei lavoratori

I dati riportati nell’intervento di Jappelli e Lapadula in questo volume e numerosi sondaggi condotti in questi mesi documentano che i lavoratori sovrastimano i rendimenti del Tfr e delle pensioni pubbliche mentre sottostimano quelli della previdenza integrativa. Più del 50 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia ignora, ad esempio, quale percentuale del proprio salario vada ogni mese alle casse dell’’Inps come contributo previdenziale. Un altro 15 per cento sottostima abbondantemente (di almeno un quarto) l’entità di questo prelievo. Un lavoratore su due poi crede che i contributi versati all’’Inps alimentino un suo fondo personale cui potrà attingere all’’atto del pensionamento. I giovani coinvolti dalle riforme Dini, Amato e Prodi, sovrastimano le loro pensioni future e non di poco: pensano di avere diritto tra il 10 e il 20 per cento in più del loro ultimo salario.
Purtroppo la campagna di informazione sullo smobilizzo del Tfr è in ritardo. I moduli di adesione sono stati predisposti solo a fine gennaio; questo ha finito per svantaggiare proprio le imprese virtuose che, assieme alla busta paga di dicembre, avevano fornito ai dipendenti un prospetto informativo “fatto in casa” e avevano già cominciato a raccogliere le adesioni alle diverse opzioni prospettate.
Questa estesa disinformazione si spiega col fatto che i Governi che si sono succeduti in questi anni non hanno fatto nulla per assicurare una migliore informazione ai propri cittadini. Probabilmente perché temevano che gli elettori li avrebbero puniti una volta compreso di quanto le loro pensioni erano state ridotte dalle riforme degli anni ‘90.
Ma anche i sindacati hanno non poche responsabilità. Sono a loro che i lavoratori guardano principalmente per farsi un’opinione su ciò che convenga fare. E molti quadri sindacali sono oggi assolutamente impreparati. Infarciti di ideologia, non sanno spesso di cosa si stia parlando e non possono perciò assistere i lavoratori. Mentre il modo con cui il sindacato ha reagito all’operazione Tfr all’Inps durante l’iter di approvazione della Finanziaria 2007 dimostra che il sindacato si è fortemente disinteressato del problema. Ha lasciato che fossero i datori di lavoro a parlare di scippo quando le vittime dello scippo erano semmai i propri iscritti.
I veri amici dei lavoratori si vedranno nei prossimi mesi. Chi è dalla loro parte deve cercare di informarli sulle opzioni a disposizione, dando loro l’opportunità di compiere una scelta meditata e tempestiva. Questo volume intende proprio dare un modesto contributo in questa direzione.

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