Lavoce.info

L’EFFIMERO BOOM DELLE NASCITE

Proprio perché si iniziano a intravedere anche in Italia possibili segnali di una relazione positiva tra occupazione femminile e fecondità, bisognerebbe investire di più per alimentare e consolidare tale processo, e avvicinarci quindi ai livelli medi europei. La crescita dei due indicatori ha per lo sviluppo del nostro paese un’importanza cruciale. Perciò il continuo potenziamento delle misure di conciliazione dovrebbe diventare una priorità. Invece la Finanziaria 2008 sembra dimostrare, ancora una volta, che così non è.

I mass media hanno dato molto spazio al boom delle nascite registrato a settembre in alcuni ospedali settentrionali. Ne sono state proposte varie interpretazioni, alcune azzardate. È forse il caso di chiarire alcuni punti, anche a beneficio della discussione sulla Legge finanziaria e sulle misure introdotte a favore della maternità.

Il presunto boom delle nascite

Il primo punto è che la fecondità italiana, soprattutto al Nord, è in progressivo aumento oramai da più di dieci anni: da 1,19 nel 1995 a 1,35 figli per donna nel 2006. Si tratta però di una crescita ancora modesta, soprattutto se si toglie la componente straniera, tanto che rimaniamo uno dei paesi occidentali meno prolifici. Per fare un confronto con un paese con popolazione di entità comparabile, nel 2006 in Italia sono nati 560mila bambini contro i quasi 800mila francesi.
Il secondo punto è che le nascite hanno un loro andamento stagionale, con massimo raggiunto (ogni anno) proprio attorno a settembre. (Figura 1)
Il boom del quale si è tanto parlato sui quotidiani è quindi in larga parte spiegabile con il trend crescente degli ultimi dieci anni e con l’usuale stagionalità delle nascite. Non meraviglia dunque che, in continuità con la crescita tendenziale da tempo in atto e in corrispondenza del mese più prolifico, si sia registrato un numero di nascite eccedente rispetto ai valori dei mesi e degli anni precedenti.

Il vero dato incoraggiante

Il terzo punto è che più che la timida crescita della fecondità in sé, ancor più interessante e incoraggiante è il dato sul legame positivo, a livello territoriale, che si inizia a intravedere con la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Si tratta di una relazione cruciale per lo sviluppo, perché significa che famiglia e lavoro possono essere obiettivi conciliabili. Il legame positivo comincia a emergere nei paesi occidentali già a fine anni Ottanta: nei contesti nei quali maggiore è il tasso di attività femminile, maggiore risulta anche il numero medio di figli per donna.
L’Italia però, attualmente, è tra i paesi Ocse che presentano la più bassa combinazione dei due valori. Inoltre, all’interno dello stesso territorio italiano, fino a pochi anni fa la relazione tra partecipazione delle donne al mercato del lavoro e fecondità continuava a essere negativa. Un paradosso, visto che l’Italia, per rispondere all’accentuato invecchiamento, ha bisogno più degli altri paesi di aumentare entrambi gli indicatori.
La buona nuova è che qualche segnale nella direzione giusta si inizia recentemente a intravedere anche nel nostro paese. Se si prendono infatti in considerazione le regioni italiane, si nota come, dopo il minimo del 1995, la fecondità sia aumentata proprio laddove maggiori sono i tassi di attività femminile, (e gli strumenti per l’infanzia più diffusi), e ciò rimane vero anche se si scorporano le nascite degli stranieri. (Figura 2) La fecondità è del resto aumentata in modo più consistente in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Toscana, mentre è diminuita soprattutto in Sicilia e Basilicata.
Risulta inoltre più ridotto, nel Nord Italia, il divario nei tassi di occupazione delle donne in funzione della loro condizione familiare. Ciò significa che lavorare deprime meno la fecondità nel Nord che nel Sud. In particolare, secondo i dati forniti dall’Istat, nel Nord Italia tra le donne single di 35-45 anni le occupate sono l’87 per cento, e si scende al 67 per cento tra le donne in coppia con figli. Nel meridione i valori sono rispettivamente il 68 per cento e il 35 per cento.
Come possiamo spiegare queste differenze? Ci sono chiaramente due effetti: tempo e reddito. Le madri che lavorano hanno meno tempo ma più risorse economiche per avere figli. Se quindi alle maggiori opportunità di impiego si affiancano anche adeguate politiche e strumenti di conciliazione, occupazione e fecondità possono crescere assieme.
In alcune delle regioni del Nord il ricorso agli asili nido per i bambini di età 0-2 è superiore al 15 per cento, nel Sud è inferiore al 5 per cento. Anche se questi dati non indicano necessariamente una relazione causale – più asili nido più figli e lavoro – ci fanno comunque capire in quali contesti avere figli e lavorare appare più conciliabile.

La Finanziaria 2008

La Finanziaria 2007 aveva avviato una politica che aveva fatto molto sperare da questo punto di vista, interrompendo un lungo periodo di stasi. Il piano straordinario asili nidi 2007-2009 è stato infatti il primo intervento complessivo per sviluppare il sistema dei servizi che ha costituito un’innovazione rispetto alla legge 1044 del 1971. Il piano includeva, come importanti obiettivi, l’incremento della copertura media degli asili nido, livelli minimi di copertura regionale, standard di qualità diffusi e sviluppo di attività di monitoraggio.
Nella Finanziaria 2008 le risorse si concentrano soprattutto su sgravi fiscali relativi alla casa di proprietà e di affitto mentre molto timide risultano altre misure di incentivo alla conciliazione tra occupazione femminile e natalità. Tanto che lo stesso ministro Bindi si è dichiarata insoddisfatta, a fronte anche delle aspettative sollevate con la Conferenza nazionale della famiglia.
A risultare sacrificate sono in particolare ulteriori spese per gli asili, oltre che misure come il credito di imposta per la cura dei figli, rivelatesi efficaci (come testimonia il caso del Regno Unito) nell’incentivare la partecipazione femminile senza riflessi negativi sulla fecondità .
Proprio perché si iniziano a intravedere anche nel nostro paese possibili segnali di una relazione positiva tra occupazione femminile e fecondità, bisognerebbe ancor più investire per alimentare e consolidare tale processo, e avvicinarci quindi ai livelli medi europei. Data l’importanza cruciale che la crescita dei due indicatori ha per lo sviluppo dell’Italia, il continuo potenziamento delle misure di conciliazione dovrebbe diventare una priorità. Invece, la Finanziaria 2008 sembra dimostrare, ancora una volta, che così non è.

Figura 1 – Nascite a Milano per mese. Media 2004-2006

Figura 2 – Relazione tra tassi di attività (asse verticale) e variazioni di fecondità tra il 1995 ed il 2005 (asse orizzontale). Regioni italiane

Fonte: Elaborazioni da dati Istat.

* L’articolo e’ disponibile anche su www.neodemos.it

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Quanta pazienza con i soldi: l’esempio dei genitori per i figli
Leggi anche:  C'è chi i nidi proprio non li vuole

Precedente

PER SPENDERE MEGLIO RIPARTIAMO DAL BILANCIO

Successivo

LA GERMANIA DELLE RIFORME INCOMPIUTE

  1. Gian Luca Clementi

    Cosa succede se nella regressione implicita in Fig 2 controllate per l’eta’? I dati che mostrate sono coerenti con la transizione tra una situazione in cui le donne non studiano, non lavorano e fanno figli presto ad una in cui studiano, lavorano e fanno figli tardi. La transizione tra questi due stati genera un calo temporaneo della fertilita’, seguito da un aumento temporaneo. Nelle regioni ricche la transizione sta per finire. Nelle regioni povere e’ appena iniziata. Controllando per l’eta’, si potrebbe stabilire se questa razionalizzazione e’ incompatibile coi dati.

    • La redazione

      Non e’ chiarissima la domanda. In ogni caso sono in corso studi piu’ approfonditi dove si tiene conto della generazione di nascita (oltre che dell’età). I primi risultati provvisori confermano che nelle regioni del Nord Italia si stanno intravedendo alcuni segnali di recupero, mentre non ve n’e’ alcuna evidenza nel Sud.

  2. Diego Alloni

    Gli autori ipotizzano un nesso causale tra generatività (il termine fecondità è errato, perchè esso dovrebbe conteggiare anche le 120.000 interruzioni volontarie di gravidanza all’anno) e partecipazione femminile al lavoro. Se così fosse, la caduta di nascite italiane da un tasso di 2,5 a meno della metà, avvenuta all’incirca tra il 1975 ed il 1980, sarebbe stata accompagnata da una massiccia espulsione dal lavoro delle donne, fenomeno che non è avvenuto.
    Identificare il problema “natalità” con il problema “donna” è un’operazione ideologica e, forse, strumentale. E’ infatti l’aver spostato le risorse dalla tutela della “maternità” alla tutela della “donna” una delle cause del declino della natalità italiana. Se, per pari opportunità correttamente intese, cominciassimo a spostare le risorse sulla “paternità”, probabilmente la natalità risalirebbe assai più dei decimali osservati e di origine extra-comunitaria. Invece di espellere continuamente il padre dalla vita di un bambino, a cominciare dalle percentuali bulgare di affidamento e collocamento dei minori esclusivamente presso la figura materna nelle separazioni di coniugi o conviventi, per continuare con totalizzante femminilizzazione della scuola (a cominciare dall’aberrante dizione di “scuola materna”), favoriamo in tutti i modi la presenza paterna per i figli, sollevandola in parte dalla primaria responsabilità di reperire le risorse finanziarie. Otterremo di conseguenza anche che il lavoro extra-domestico delle donne non sia magari solo confinato alla realizzazione personale, ma sia completato dalla grande conquista di apporto economico imprescindibile per tutti.

    • La redazione

      Non ipotizziamo alcuna relazione causale. Lo specifichiamo chiaramente nel testo: "questi dati non indicano necessariamente una relazione causale – piu’ asili nido piu’ figli e lavoro – ci fanno comunque capire in quali contesti avere figli e lavorare appare piu’ conciliabile". Nella disciplina scientifica della demografia (prego guardare su qualsiasi manuale universitario) si usa il termine di "fecondita’" in riferimento ai figli nati vivi per donna. Sull’importanza poi di maggior coinvolgimento paterno (che tra l’altro vari studi dimostrano essere legato ad una maggiore propensione soprattutto ad avere un secondo figlio) possiamo senz’altro concordare.

  3. martino

    Ho l’impressione, da sondaggi assolutamente inattendibile svolti da me stesso con coetanee, che quest’aumento sia frutto anche di una presa di coscienza circa il valore della maternità, del fare figli, dei suoi piaceri ed dei suoi dolori a discapito di una concezione più egoistica della vita. la vita vale se è spesa per qualcosa, e ad una certa età uomini e donne sani di mente se ne accorgono – prima che sia tardi. ecco che però il lento riemergere di vecchie sopite abitudini – quali appunto fare figli – si scontra con 30 anni di assenza di qualsivoglia politica (per non parlare dello zeitgeist nichilista) a favore della famiglia, specie di natura fiscale.
    L’uomo nuovo W come la pensa in proposito (la Rosy lo sappiamo perché è al governo da tre anni e nulla ha fatto)?

    • La redazione

      A parte le varie considerazioni, rimane vero che in Italia le politiche per la famiglia sono state sempre trascurate. Ma va anche riconosciuto che il Ministro Bindi ha fatto fare passi importanti in questa direzione.

  4. Claudio Quintano

    Nell’articolo viene fatto un paragone tra i dati delle nascite in Italia e quelli della Francia che sono superiori a quelli italiani. Manca il denominatore della popolazione dei due Paesi affinchè il confronto possa essere fatto correttamente in termini di nuzialità. Tuttavia, è noto che in Francia i soggetti fiscali, quindi non solamente i cittadini francesi, godono del beneficio del “cumulo dei redditi familiari”. Per inciso, l’imposta corrispondente alla nostra IRPEF viene pagata tre volte l’anno o ogni mese. Se la famiglia è di due persone l’IRPEF originato dai due redditi viene sommato e poi diviso per due; complessivamente si risparmia di più quanto ovviamente più è grande la differenza dei due redditi. Nasce un figlio? L’IRPEF dei redditi dei due genitori viene diviso per 2,5. I figli sono due? l’IRPEF viene diviso per 3. In Francia si vedono molte giovani coppie, con tre figli in quanto pagano un coniugi pagano il 25% dell”IRPEF. Un asilo nido pubblico (crèche) che ospita i bambini a partire da 2-3 mesi di età, organizzato all’avanguardia, viene pagato in base al reddito dei coniugi, ma è disponibile e funzionale Mi fermo qui, cioè ai vantaggi principali delle coppie che hanno fatto uscire la Francia dal regresso demografico di qualche decennio fa. Claudio Quintano.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén