Negli anni recenti, il tema dell’ambiente ci ha consegnato una serie di interrogativi spesso di non semplice risposta. A grandi linee, confluiscono in due nuclei principali: il primo è rappresentato da una riflessione generale su cosa sia, e da cosa dipenda, il nostro benessere. Il secondo concerne ciò che possiamo fare per vivere in un ambiente più sano. Possono essere visti come il polo positivo e il polo normativo della questione ambientale: l’essere e il dover essere.
Il primo tema, del quale qui ci occuperemo, suscita un riflessione critica sul concetto di prodotto interno lordo e, per tale ragione, potrebbe avere in futuro effetti notevoli sulle nostre vite.

Più Pil, più benessere?

Concepito quale strumento di misurazione della capacità produttiva del periodo bellico, il Pil è diventato negli anni una sorta di metro del benessere di una nazione: la sua crescita suscita plauso, la sua stagnazione genera preoccupazione. Ciò accade per diverse ragioni, anche condivisibili, tra le quali i riflessi sull’occupazione. Eppure, lo stesso Simon Kuznets, il suo principale ideatore, ha sottolineato più volte l’errore insito nella formula "più Pil = più benessere".

Poiché il Pil aumenta ogni volta che si verifica una transazione nell’economia, inevitabilmente la sua crescita tende a essere connessa a spese che, in alcuni casi, rappresentano un indizio di malessere più che di benessere, come quelle associate ad esempio, a disastri ecologici, alla lotta alla criminalità, ai divorzi. Spese sostenute per la bonifica di un oil spill, oppure per la cura di un tumore da inquinamento, pur facendo crescere il Pil, sono sintomi di un danno per l’ambiente e per l’uomo. Su questo fronte, anche per il più bravo degli avvocati difensori, è difficile soccorrere il Pil. Una crescita della spesa per il Prozac, pur stimolando il Pil, non implica una maggiore felicità.

L’impronta ecologica

Ora, a questa pars destruens si affianca una pars costruens, spesso trascurata dai detrattori del Pil. Esterna alla tradizione economica, abbiamo una classe di indicatori sintetici, di tipo fisico che, prescindendo dal Pil, cercano di misurare la qualità dell’ambiente o lo sforzo che a esso chiediamo.
Un esempio è rappresentato dal concetto di impronta ecologica ("ecological footprint") che misura l’incidenza esercitata da una certa popolazione sul territorio, in termini di ettari utilizzati per lo svolgimento delle sue attività.
L’impronta ecologica di un abitante medio degli Stati Uniti è di 10,3 ettari, mentre il territorio procapite disponibile è di 6,7 ettari, il che significa che la pressione sul territorio è eccessiva (+3.6). Analoghe situazioni riscontriamo in altri paesi: tra gli altri, Singapore (+7.1), Giappone (+3,4), Svizzera (+3,2), Germania (+3,4), Italia (+2,9).
Altro strumento interessante è il barometro della sostenibilità, che combina indicatori elementari in due dati sintetici: uno riferito agli esseri umani, un altro all’ecosistema.

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Indici, ambiente e società

Una maggiore continuità caratterizza una classe di indicatori che, interna alla tradizione economica, cerca di superare il Pil a partire dal Pil. In termini generali, questi indicatori cercano di fornire informazioni, oltre che sulla sfera economica, anche su quella sociale e ambientale.
Nell’ambito dell’Unep (United Nations Development Program), ad esempio, troviamo un insieme di indicatori di grande interesse, il più noto dei quali è probabilmente l’indice di sviluppo umano (Human Development Index) che aggrega con peso identico, dopo opportuna elaborazione, tre variabili principali: il reddito pro-capite, la speranza di vita alla nascita, il tasso combinato di alfabetismo e scolarizzazione.
Ispirato dal Nobel Amartya Sen, l’Hdi ridimensiona il peso del Pil dando spazio ad altri elementi che influiscono sul benessere dell’uomo e che tentano di catturare, seppure sinteticamente, il ruolo svolto dalle libertà, così care a Sen. Nella sua visione, "lo sviluppo è libertà" di fare e di essere, e questo spiega l’inclusione della longevità e dell’istruzione nell’Hdi.

Un altro esempio è rappresentato dal Pil verde, che sottrae al prodotto interno lordo i danni ambientali.
Ma probabilmente, la formulazione più avanzata dello sforzo di superamento del Pil è il Genuine Progress Indicator (Gpi). Proposto da Redefining Progress, è un indice ottenuto attraverso alcune correzioni del Pil.

In particolare, il Gpi sottrae i costi sociali legati alla criminalità, ai divorzi, all’inquinamento e al deterioramento delle risorse naturali, e aggiunge al prodotto interno lordo il valore del lavoro svolto all’interno della famiglia e del volontariato. Inoltre, il Gpi prende in considerazione altri fattori, quali la distribuzione del reddito (maggiore l’equità, più alto è il Gpi), i servizi e i costi dei beni durevoli e delle infrastrutture, il capitale preso in prestito dall’estero, la disponibilità di tempo libero (maggiore il tempo libero, più alto è il Gpi).
Con tale procedimento, il Gpi si svincola dall’assunzione che a ogni transazione monetaria corrisponda un aumento del benessere. Un confronto tra Pil (Gdp) e Gpi procapite per gli Usa evidenzia una notevole distanza (vedi grafico).

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È certamente auspicabile un superamento del Pil attraverso l’uso di un indicatore non esclusivamente incentrato sulle transazioni economiche, più democratico, che tenga conto di altri aspetti rilevanti nelle nostre vite.
Al di là dei notevoli problemi da superare, a cominciare dalla monetizzazione dei danni ambientali, rappresenterebbe una sorta di rivoluzione. La crescita del Pil sarebbe solo uno degli obiettivi a cui tendere e, nel farlo, occorrerebbe prestare attenzione anche all’ambito sociale e ambientale, e agli effetti che la crescita del Pil avrebbe sui di essi.
Le proposte sono numerose. Ora si tratta di compiere la seconda parte del cammino, dall’idea all’applicazione.
Ma questa, come noto, è la più ardua.

Per saperne di più

Sul Gpi, si veda il sito: http://www.rprogress.org/
Sen A., "Development as freedom", Anchor Books Editions, 2000.
Undp 2003, "Human Development Report 2003", scaricabile dal sito http://www.undp.org/hdr2003/
Wackernagel M. et al. 1997, "Ecological footprints of nations. How much nature do they use? How much nature do
they have?", in http://www.ecouncil.ac.cr/rio/focus/report/english/footprint/

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