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PER LE BANCHE POPOLARI UNA RIFORMA COMPLESSA

La riforma della disciplina delle banche popolari è complicata perché investe problemi di governance e di performance. Si tratta infatti di trovare un equilibrio tra l’irrobustimento dei meccanismi di controllo sull’operato del management, aumentando anche le capacità di ampliamento patrimoniale, e la salvaguardia della forma cooperativa. Se la correzione della clausola di gradimento non sembra sollevare grandi perplessità, nella scelta di innalzare il limite alla partecipazione azionaria diviene dirimente la questione della misura.

La riforma della disciplina delle banche popolari vive un nuovo momento di stallo in un processo di stop-and-go che dura ormai da molto tempo. Vi è stata un’effervescenza prima dell’estate, quando nel tentativo di organizzare le varie istanze, la commissione Finanze del Senato ha presentato un testo unificato, che attualmente rappresenta il punto più avanzato raggiunto in anni di discussioni.

Una riforma complessa

La riforma è complessa per una serie di ragioni, riconducibili a questioni di governance e di performance: i rischi di autoreferenzialità degli amministratori associati all’organizzazione delle popolari inducono a formulare cambiamenti nei meccanismi di governo, soprattutto alla luce delle dimensioni raggiunte da alcune di esse. Allo stesso tempo, risultati non inferiori a quelli delle banche spa e performance positive nei servizi a famiglie e Pmi, anch’esse legate alla loro forma organizzativa,costituiscono aspetti positivi da preservare. Conciliare le due finalità diverse rende complicato trovare un efficiente equilibrio tra norme da riformare e norme da conservare. La riforma cerca di raggiungere un difficile bilanciamento tra l’irrobustimento dei meccanismi di controllo sull’operato del management, aumentando anche le capacità di ampliamento patrimoniale delle popolari, e la salvaguardia della loro forma cooperativa.

 Performance e localismo

Le banche popolari sembrano attraversare con successo gli anni di accresciuta concorrenza nel settore bancario: alcune sono ormai tra i più grandi gruppi bancari italiani; le quote di mercato sono in crescita; gli indicatori di redditività, rischiosità e patrimonializzazione sono pari o migliori di quelli medi del sistema; i profitti sono più stabili di quelli delle banche spa; nel migliorare l’efficienza delle banche acquisite, le popolari esibiscono un’efficacia pari a quella delle spa. (1) Queste caratteristiche non sono prerogativa delle popolari italiane, ma accomunano le banche cooperative di molti paesi. (2) Nel caso italiano, però, le popolari, anche le più grandi, conservano una forte "vocazione localistica": quasi tre quarti del credito è fornito a famiglie e Pmi, e oltre il 70 per cento della raccolta è reimpiegato nella stessa area territoriale. (3) Ciò avrebbe contribuito anche a lenire i problemi di razionamento del credito derivanti, nelle regioni meridionali, dalle acquisizioni di banche locali da parte di istituti (popolari e non) con sede al Nord, e a contrastare il rischio di "drenaggio" di risorse da Sud a Nord. (4)
Sono elementi che finiscono per avere un peso di rilievo perché il sistema industriale italiano è prevalentemente composto da Pmi, per le quali il credito bancario è la forma pressoché esclusiva di finanziamento esterno, e la loro importanza è ancor più amplificata per le Pmi meridionali. Una riforma efficiente che modifichi la governance delle popolari dovrebbe preservare simili aspetti positivi.

 Le questioni di governance

 Le caratteristiche di governance della forma cooperativa (voto capitario, clausola di gradimento, limite al possesso azionario) fanno sì che le popolari non siano scalabili, e dunque disarmano il take over come strumento di sostituzione del management. L’opportunità di una riforma si fonda nel fatto che la dispersione delle quote rende gli amministratori autoreferenziali e permette loro di innalzare barriere alla propria sostituzione. Inoltre, la funzione del management (comporre gli interessi conflittuali delle diverse tipologie di soci: finanziatori, amministratori, utenti e dipendenti) è esposta a ulteriori distorsioni quando, come oggi spesso avviene, la polverizzazione dell’azionariato porta ad assemblee scarsamente frequentate, dove alcune categorie di soci, di solito i dipendenti, finiscono per esercitare un peso superiore alla loro rappresentanza nella compagine societaria.
Le caratteristiche di performance delle popolari, tuttavia, complicano il compito del legislatore, chiamato a riformarne la governance tutelandone però la forma cooperativa, mentre la varietà delle loro dimensioni, e dunque delle loro esigenze, rende cruciale la costruzione di un modello che, ancorché unico, risulti adattabile a realtà molto diverse. È dunque comprensibile che si lasci una certa autonomia ai singoli statuti nel recepire la riforma. Meno immediato è invece valutare l’impatto delle soluzioni in discussione, poiché esso dipenderà non solo dal tipo di novità introdotte, ma anche dall’ampiezza del divario tra la vecchia e la nuova normativa.
Ad esempio, sela correzione della clausola di gradimento, che sarebbe snellita da un meccanismo di silenzio-assenso, non sembra sollevare grandi perplessità, nella scelta di innalzare il limite alla partecipazione azionaria diviene dirimente la questione della misura.
L’ampliamento degli angusti limiti attuali (pari allo 0,5 per cento del capitale sociale) non incontrerebbe resistenze se fosse contenuto (non oltre l’1 per cento) o bilanciato da un aumento del limite minimo di soci, oggi fissato a 200. Sembra invece che quella soglia sarà portata al 3 per cento (al 5 per cento per gli investitori istituzionali), eventualmente concedendo agli statuti di prevedere limiti leggermente più ristretti. Aumentare l’attuale limite di sei o dieci volte non è di poco conto: nel caso delle popolari maggiori, cioè il segmento più interessato dalla riforma, una partecipazione dell’1 per cento comporta oggi un investimento superiore a 160 milioni di euro. E nelle cooperative, l’omogeneità della compagine sociale è un elemento indispensabile per una governance efficiente. (5) Un eccessivo ampliamento dei limiti può divaricare troppo i diritti patrimoniali e di controllo per gli azionisti maggiori. Chi investe molto di più chiede naturalmente di pesare molto di più. Verrebbe quindi meno l’omogeneità dell’azionariato e si preparerebbe la strada a sollecitazioni per la rimozione dell’organizzazione cooperativa. Ne risulterebbe tradito lo spirito della riforma, ovvero la salvaguardia del modello cooperativo.
La questione della misura potrebbe emergere anche nell’eventualità, prevista in una delle proposte di legge presentate in Parlamento, che si preveda un aumento del limite massimo di deleghe conferibili a ciascun socio in assemblea, oggi pari a 10. Questa soluzione favorirebbe certamente l’organizzazione del voto, ma potrebbe avere un’efficacia molto diversa a seconda di come viene introdotta: se ad esempio venisse legata alla quota azionaria detenuta, potrebbe moltiplicare l’effetto dell’aumento dei limiti alla partecipazione fino a rivelarsi un cavallo di Troia nei confronti della difesa della forma cooperativa. Se invece fosse rapportata alla dimensione del capitale della banca, rispetterebbe lo spirito del voto capitario, ma ripresenterebbe le stesse ragioni di cautela già viste a proposito del limite al possesso azionario.
D’altra parte, per prevenire i rischi di inamovibilità degli amministratori qualora i risultati delle popolari dovessero peggiorare, e facilitare la partecipazione in assemblea, è possibile esplorare soluzioni di diverso tipo, meno minacciose per le basi della società cooperativa. Soprattutto in presenza di una compagine societaria ampia e molto dispersa sul territorio, ad esempio, potrebbe essere utile prevedere la possibilità di tenere assemblee a distanza (con modalità stabilite dalla legge o dagli statuti) o di votare per corrispondenza, ma queste eventualità non sono ancora state contemplate dalle proposte di legge. Una sorte condivisa anche dalla proposta, già avanzata su questo sito (di adottare codici etici che vincolino l’azione degli amministratori e sul rispetto dei quali vigili una magistratura interna indipendente dalla banca.

 

(1) Cfr. P. Bongini e G. Ferri (2007), "Governance, diversification and performance: Italy’s Banche Popolari", mimeo.
(2)Cfr. H. Hesse e M. Cihák (2007), "Cooperative Banks and financial stability", IMF Working Paper n. 07/2.
(3) "Il rapporto col territorio è fondamentale. Non siamo nati per finanziare Fiat o Telecom", ha recentemente ricordato il presidente dell’Istituto centrale delle banche popolari.
(4) Vedi. N. Coniglio e G. Ferri (2007), Banche e Mezzogiorno, Rapporto dell’Università di Bari, maggio.
(5) È il noto risultato di O. Hart e J. Moore (1998), "Cooperatives vs. outside ownership", NBER Working Paper, n. 6421.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Marco Terrenghi

    Concordo con Costa nel vedere quale piu’ semplice ed efficace contributo alla modernizzazione del governo delle popolari un vincolo ad un maggiore coinvolgimento degli azionisti, piccoli per definizione in queste realta’. Nella mia modesta esperienza ricordo gia’ una decina di anni fa che, in qualita’ di piccolissimo azionista di una societa’ quotata al NASDAQ, ricevetti prima dell’assemblea un grosso plico a domicilio contenente tutto il materiale utile alla delibera e i codici identificativi per esprimere il voto semplicemente da una pagina web. Arriveremo mai a simili livelli?

  2. LM

    Credo che ipotizzare una riforma della disciplina sulle Banche Popolari sia, in linea di principio, un’idea condivisibile stante la profonda evoluzione del sistema bancario nazionale di questi ultimi anni.

    L’importante credo sia ipotizzarne una riforma che non ne modifichi la mission e le caratteristiche che hanno costituito le ragioni del successo di un modello come quello delle banche popolari: in particolare mi riferisco alla forma cooperativa.

    Non credo dunque sia certo auspicabile l’ipotesi di un innalzamento della partecipazione azionaria individuale così come, sinceramente, dubito delle eventuali autonomie riservate ai singoli statuti delle Banche popolari: una tale, a mio avviso “nebbiosa”, prospettiva di questo tipo favorirebbe certo la concentrazione delle azioni in mano ad una ristretta e selezionata oligarchia finanziaria di cui credo non si senta oggi particolare bisogno.

    Piuttosto penso sia più opportuno salvaguardare le specificità delle Popolari rispetto alle banche di credito ordinario garantendo anzitutto i diritti di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori e confermando dunque il ruolo centrale dell’Assemblea dei Soci nella governance economica e societaria delle banche.

    In definitiva, la proposta autoregolamentare dei Codici Etici nonchè l’istituzione di una sorta di magistratura interna al CdA delle Popolari credo sia ancora oggi, tra le tante proposte, quella più ragionevole…peccato solo che a distanza di anni non si sia ancora giunti ad una soluzione chiara e definitiva su tale delicata normativa!

  3. Giorgio Trenti

    1) E’ stata presentata alla Camera la proposta di legge N. 360, con oggetto la riforma delle Banche Popolari.
    2) Essa prevede:
    – la libera trasferibilità delle azioni delle BP quotate,
    – l’abolizione del voto capitario,
    – l’abolizione della clausola di gradimento per i nuovi soci,
    – l’aumento del limite alle deleghe di voto,
    – l’elevazione delle limitazioni alla partecipazione individuale.
    3) Nel caso d’approvazione, ci saranno vantaggi per le BP quotate e per i loro azionisti.
    4) Riguardo al voto capitario, che è la caratteristica fondamentale delle BP quotate, esso è certamente d’ostacolo alla libera circolazione dei capitali.
    5) La sua abolizione renderebbe il governo delle coop quotate simile a quello delle spa; l’Italia dovrebbe modificare la legge bancaria ed il codice civile e ciò sarebbe favorevole alle BP quotate ed ai loro azionisti.
    6) Il governatore della Banca d’Italia dr. Mario Draghi, in occasione della Giornata mondiale del risparmio, che si è svolta il 31/10/2006 a Roma, ha auspicato una riflessione sulla riforma delle BP dicendo: “Rigidità del principio del voto capitario, limiti alla raccolta delle deleghe di voto, vincoli alla partecipazione individuale possono determinare autoreferenzialità del management, insufficiente tutela degli azionisti, ostacoli al rafforzamento del patrimonio.”.
    7) Il governatore, in occasione del convegno degli operatori finanziari, che si è svolto il 3/2/2007 a Torino, ha auspicato il contributo delle banche popolari nella revisione della governance, fermo restando il nucleo essenziale dei principi cooperativi.
    8) Il governatore, in occasione dell’assemblea dell’ABI, che si è svolta il giorno 11/7/2007 a Roma, ha richiamato l’attenzione sui “benefici di una riforma che rimuova, soprattutto per le aziende più grandi e quotate in borsa, le maggiori anomalie di un ordinamento adatto a realtà locali di ridotta dimensione.”.
    9) Una BP quando intende trasformarsi in spa, è soggetta ad una valutazione della Banca d’Italia. E’ opportuno lasciare questa scelta alla singola banca. Si propone il seguente nuovo testo dell’art. 31 del TUB: “Le banche popolari possono trasformarsi in società per azioni.”.

  4. Miche Giardino

    Argomenti appropriati ed esposti tanto pacatamente quanto efficacemente. Penso si possa aggiungere: – la scalata ostile come strumento per la sostituzione del management rivendica alquanto semplicisticamente l’applicazione pura e semplice alla realtà delle Popolari, peculiare ma non per questo meno efficiente per generale ammissione, di una logica del confronto competivo interno ed esterno che è proprio delle grandi aggregazioni d’impresa nell’ambito della quale è nato e risulta ampiamente praticato; inoltre nelle Popolari, anche qui concordo con l’A., è la perfomance "complessiva", che va al di là dell’incremento del valore capitale e del dividendo annualmente corrisposto, a segnare il destino dei vertici aziendali. Magari non nell’immediato e senza grande clamore, ma la porta girevole delle cariche funziona ugualmente, se ve ne sono i presupposti; – se si getta lo sguardo oltre la richiesta insistente di regole più elastiche in materia di scalate, non si fa fatica a intravvedere un possibile obiettivo di eliminazione non già di operatori inefficienti – sappiamo che in genere non lo sono – quanto di un’intera realtà la cui cocciuta resistenza appare ad alcuni tanto più spiacevole quanto più i dati di lavoro confermano che sarebbe facile e immediatamente vantaggioso integrarla in altre realtà di elevato "standing", magari internazionali; – e infine, credo sia bene non dimenticare mai che dopo tutto il rapporto di società è retto da un contratto e che quindi, come in tutti i contratti, spetta ai contraenti stabilire regole la cui accettazione dovrebbe essere implicita nella richiesta di qualunque newcomer di aderirvi. Ha davvero poco senso investire in una Popolare se non si crede nella fomula particolare che la contraddistingue, da noi come altrove nel mondo.

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