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IL PROGRESSO NON E’ UN MITO

Giocare con le cifre non è una consuetudine solo italiana. Ma misurare un fatto sociale ed economico è un’operazione laboriosa e delicata, che richiede chiarezza concettuale e realismo. Essere trasparenti non significa solo essere oggettivi, ma capire che molte variabili della realtà considerate esogene esprimono invece la personale attitudine alle cose. Rendere istituzionale la verifica dei numeri citati può davvero risultare funzionale alla maturazione della sensibilità politica. A patto di riconoscere la natura composita delle grandezze da misurare.

Giocare con le cifre non è una consuetudine solo italiana. E’ piuttosto una pratica acquisita tra le forze che si candidano alla guida di un paese nelle moderne democrazie mediatiche, ed è trasversale agli schieramenti. (1)
Che fare allora quando i numeri che misurano un fenomeno economico sono radicalmente diversi, stando alle affermazioni politiche? Lavoce.info ha proposto di valutare in dettaglio le dichiarazioni dei politici per verificare se rispondono al vero. Perché non farlo sempre allora, soprattutto quando i riflettori sui dibattiti elettorali si spengono e i politici sono chiamati a mantenere le promesse fatte in campagna? Rendere la verifica sistematica delle cifre un fatto istituzionale avrebbe l’effetto di alimentare una cultura politica matura, basata sul giudizio insindacabile dei fatti. Tuttavia, ci sono aspetti che rendono naturalmente difficile verificare se i "numeri" sono corretti. In altre parole, il problema non è discutere l’oggettività del dato reale per come viene diffuso dalle istituzioni preposte, quanto piuttosto le varie interpretazioni che del dato vengono filtrate da stampa e analisti, per poi essere usate dai politici. Misurare un fatto sociale ed economico è un’operazione laboriosa e delicata, che richiede due ingredienti speciali: chiarezza concettuale e realismo.

UN’IDEA DA MISURARE

Un ottimo esempio del genere di complessità che si incontrano quando si misura una grandezza nella prospettiva di verificarne eventuali dichiarazioni è rappresentato dalla misurazione del progresso. Da anni l’Ocse è in prima fila nel catalizzare l’interesse globale per una misurazione omogenea e più comprensiva del progresso delle società. Questo spiega come mai il ruolo della ricerca statistica sia più importante che mai. Come ha scritto su lavoce.info Enrico Giovannini, ispiratore dell’iniziativa, il ricorso a indicatori certi per verificare e discutere l’esito delle politiche pubbliche giova alla trasparenza del sistema. Ma perché proprio il progresso? Come per altri fenomeno sociali ed economici, l’idea di progresso fa parte di una categoria di concetti che è difficile spiegare in modo sintetico ma esaustivo. Non se ne può certo parlare come di una grandezza reale e indipendente perché, come avviene per tutti gli "oggetti" cosiddetti sociali del nostro mondo, anche il progresso è una creazione della mente umana. Presuppone una prospettiva di giudizio che chiama in causa le ragioni e le esperienze di ciascuno di noi. Se il progresso della comunità globale equivale a un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita di ognuno, il rischio è che per alcuni sia progresso quello che per altri ne rappresenta l’esatto contrario.
Ovviamente, il progresso non è soltanto crescita in termini economici, ma dipende da un complesso di variabili sociali, culturali e ambientali che spesso sono considerate più determinanti nel favorire il benessere complessivo della persona. Per misurare e sostenere politiche rivolte a migliorare la qualità della vita bisogna saper cogliere ciò che le persone giudicano prioritario, e nelle società sviluppate questo non coincide più da tempo con beni di tipo materiale. Quando si parla genericamente di crescita, l’indicatore economico-statistico principe è il prodotto interno lordo, misura che è spesso sulla bocca dei politici in particolare durante le campagne elettorali. Ma proprio alla domanda "Che cosa rende più felici le persone?" ha dedicato gran parte della sua recente attività di ricerca Richard Layard della London School of Economics. è un fatto paradossale ma vero, secondo Layard, che le società in cui la ricchezza complessiva aumenta regolarmente siano anche quelle in cui le persone si sentono meno felici. In altri termini, il progresso non si riduce a una sola variabile di riferimento, ma si misura sulla sfera soggettiva così come sulle reali condizioni di vita delle persone.

UNA CULTURA BASATA SUI FATTI

Come fare dunque a invertire il trend, aumentando cioè l’efficacia concettuale dei dati in maniera da ridurne la variabilità "interpretativa" specie in sede politica? Per troppo tempo la teoria economica ha giustificato decisioni di politica pubblica destinate a migliorare la qualità della vita senza tuttavia disporre di una analisi del comportamento umano convincente e realistica. Secondo il direttore della Young Foundation di Londra, Geoff Mulgan, la sfida è quella di ancorare le grandezze del cambiamento sociale ed economico, il motore della crescita, alle caratteristiche psicologiche del soggetto.
La difficoltà maggiore, a questo punto, è capire come associare misure oggettive di valore a stati mentali che riflettono idee sulla qualità della vita. La mia idea di progresso, per quanto simile alla tua, può essere sostanzialmente diversa da quella di molte altre persone. In secondo luogo, una volta creato il consenso politico necessario intorno a una misurazione oggettiva, come fare in modo che i dati non vengano travisati? E’ per questa ragione che è necessario individuare i limiti delle definizioni di cui ci serviamo nella ricerca di tutti i giorni, se l’obiettivo è quello di disegnare politiche di incentivo al progresso su larga scala. Un limite alla formazione di un approccio pragmatico ispirato al confronto dei dati è rappresentato, secondo taluni, dal peso della componente ideologica. Soprattutto nel linguaggio politico italiano il termine è spesso usato in senso spregiativo come sinonimo di pregiudiziale, cioè che viene prima di un giudizio sensato e razionale. E’ vero che molte delle risposte che le persone danno a problemi di varia natura sono dettate dalla routine e dall’esperienza piuttosto che da una attenta valutazione dei fattori in gioco. In altre parole prendiamo decisioni senza pensarci, guidati inconsciamente dal complesso di valori e abitudini in cui crediamo più fermamente – il nostro portato ideologico. Questo non significa, tuttavia, che tali decisioni siano irrazionali o pregiudiziali. Per giudicare la bontà di una decisione si deve guardare ai suoi esiti piuttosto che ai meccanismi cognitivi, in parte inconsci ed emotivi, che la rendono possibile. Una novità molto interessante è che gli scienziati sociali cominciano ad affrontare problemi tradizionali della ricerca guardando con interesse alle discipline cognitive e, soprattutto, ai risultati sperimentali nelle neuroscienze. Non solo, qualche mese fa The Economist ha dedicato l’editoriale di apertura al ruolo che la biologia è destinata ad assumere nei prossimi decenni, a confronto con quello della fisica nel ventesimo secolo. (2)
Che cosa caratterizza, quindi, una dichiarazione politica basata sull’uso dei dati? Certamente l’onestà intellettuale di chi la pronuncia, prima di tutto, e cioè il fatto che i numeri menzionati rispondano al vero nella misura in cui sono stati diffusi dalle istituzioni di rilievo. Secondo, una buona dose di umiltà nell’approccio al "dato reale". Essere trasparenti non significa soltanto essere oggettivi, ma significa capire che molte variabili della realtà sociale ed economica considerate esogene esprimono invece la nostra personale attitudine alle cose. Rendere istituzionale la verifica dei numeri citati può davvero risultare funzionale alla maturazione della sensibilità politica, a patto di riconoscere la natura composita delle grandezze da misurare. In questo senso, la scelta di Nicolas Sarkozy di nominare una commissione guidata da Joseph Stiglitz con l’intento di studiare criticamente le determinanti della crescita, sulla scia del modello Ocse, sembra proprio rispondere a questa esigenza globale.

 

(1) Abbiamo osservato il fenomeno in Francia in occasione delle recenti elezioni politiche (Eric Chaney su Telos: http://www.telos-eu.com/fr/article/pendant_la_campagne_ne_jouons_pas_avec_les_chiff) e certamente il dibattito sulle cifre è già parte integrante della corsa alle elezioni presidenziali americane.
(2) "Biology’s Big Bang", The Economist, June 14, 2007.

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L’AZIONISTA E IL MANAGER DALLO STIPENDIO D’ORO *

  1. Daniele

    Quanto progresso è stato fatto dall’inizio dell’era industriale? E nel settore dei servizi, grazie alla tecnologia ed all’informatica? Quanti lavori meno faticosi possiamo fare oggi sostituiti dalle macchine? Un progresso che ha migliorato la vita di tutti noi, come consumatori e come lavoratori. Come lavoratori? A lungo andare sicuramente. Ma quante volte questo progresso è stato sinonimo di licenziamento e disoccupazione? Nella carriera di un lavoratore avete mai visto qualcuno che possa lavorare con maggior tranquillità? Godere del progresso ottenuto? Avere più tempo libero? Avete mai visto un operaio che lavora di meno e si gode il frutto dell’acquisto di un macchinario? Avete mai visto un impiegato che una volta doveva scrivere a mano o con le macchine da scrivere, oggi grazie all’informatica può fare lo stesso lavoro in molto meno tempo e riposarsi? O spesso questo è stato sinonimo di aggiunta pressante di altro lavoro? Non sono contro il progresso. Assolutamente no! E se cambiassimo le cose e facessimo in modo che ogni piccola conquista ottenuta dal progresso ne possa beneficiare anche il lavoratore?

  2. Luciano Babetto

    Molto stimolante e quanto mai attuale in un’epoca di grandi cambiamenti globali; penso che la frase "il progresso non è soltanto crescita in termini economici" quasi rafforzi una idea (pregiudizio) molto diffusa e, io penso, sostanzialmente opposta ai contenuti dell’articolo.

  3. Filippo Guidarelli

    Utilità: vorrei aggiungere che la teoria economica dispone di un concetto, quello di utilità, che è considerata il fine di ogni azione umana, o almeno di ogni azione umana economicamente rilevante; eppure non è possibile, io credo, ricondurre ogni azione all’aumento indefinito di una grandezza misurabile in proprio possesso, sia di denaro, di benessere, di sicurezza, ecc… Occorre che sia ripensato il modo in cui si descrivono le azioni e di conseguenza si considerano le persone. L’aumento della felicità non è detto sia un obiettivo socialmente perseguibile o rilevante. Ideologia: in Italia abbiamo sviluppato una concezione ideologica dell’ideologia stessa, come contrapposta alla verità. L’ideologia è invece un modo di guardare il mondo dal proprio punto di vista, che perciò è sempre vero e sempre falso. Sennò sarebbe troppo facile. Quando si criticava l’ideologia di classe della borghesia, si intendeva criticare l’idea che l’interesse del capitalista, cioè il profitto, contenesse anche il benessere dei lavoratori, e che perciò nel difendere l’uno si difendesse di fatto anche l’altro. Entrambe le affermazioni contengono un pò di verità: il problema semmai era definire quale e quanta!

  4. Francesco

    Davvero sorprendente il dato citato nell’articolo (secondo Richard Layard della London School of Economics, "è un fatto paradossale ma vero, che le società in cui la ricchezza complessiva aumenta regolarmente siano anche quelle in cui le persone si sentono meno felici"). Mi pare che questo dato rappresenti da sè un grosso problema di ordine gnoseologico, relativo sia alla ‘scienza triste’ sia sopratutto al nostro modello di sviluppo, che su di essa si fonda. D’altra parte si pensi al ruolo della Scuola (e dunque alle politiche per la scuola) nell’educazione di un popolo e nella sua maturità decisionale: mi pare un fatto palmare che non necessita dimostrazioni. Se è vero come afferma Migliorini che gli italiani disconoscono i concetti economici fondamentali è anche vero che pur conoscendoli non sarebbero forse in grado di valutarne quella che l’autore chiama la natura composita delle grandezze da misurare. Dovremmo inizare a studiare economia alle Scuole Medie e fornire gli strumenti – forse filosofici – per confutare pretese grandezze oggettive. Insomma, come si afferma nell’articolo, dovremmo avere una buona dose di umiltà nell’approccio al dato reale.

  5. Claudio Mordà

    il tema è rilevantissimo e riguarda a mio avviso la responsabilità di chi parla, verso tutti gli interlocutori, di favorire la massima consapevolezza possibile relativa alle proprie affermazioni. rigurda in altre parole la garanzia per chi ascolta di avere sempre tutti i termini utili e necessari a contro-argomentare ovvero a falsificare gli assunti ricevuti. l’outing più importante da parte di chi argomenta a favore o contro dovrebbe essere esattamente quello di esplicitare senza remore cosa intende – definizioni – quando parla di un certo tema e in che senso utilizza termini che non possono essere dati per scontati, senza – per l’appunto – inutili pudori ideologici. applicato alla politica, pare evidente l’importanza per la democrazia di un paese e per il livello di consapevolezza nelle scelte degli elettori. non basta l’autorevolezza della fonte. chi ascolta deve poter – se vuole – discriminare e valutare selettivamente. il dibattito sulla cosiddetta "democrazia deliberativa" e i lavori di j. fishkin e m. h. hansen e non solo a me paiono molto interessanti in tal senso.

  6. Francesco Sandroni

    Forse ho studiato troppo poco "i numeri" per poter capire bene quello che c’è scritto in questo articolo, ma l’idea che si possa misurare qualcosa in maniera "oggettiva" mettendo in accordo tutti quelli che discutono sull’oggetto è una pretesa così assurda che verrebbe da scompisciersi dalle risate se non fosse fatta da una persona seria come il dott.Gallotti. Ma davvero crede possibile ridurre la variabilità interpretativa dei dati aumentandone l’efficacia concettuale? Un dato, però, è tale perché è "posto" da chi lo riconosce come oggetto ed ha in sé una valenza interpretativa: quindi, aumentare l’efficacia concettuale del dato o significa ridurlo ad un’unica interpretazione, ma non serve al dibattito politico, o fa aumentare proporzionalmente le interpretazioni, ed anche questo è poco utile. Mi permetto di segnalare una breve lettura: Bruno Latour, Il culto moderno dei fatticci, Meltemi, 2005. A proposito di culto: ho proprio paura che il progresso sia un mito, nel senso religioso del termine, e lo si vede soprattutto dalle molte vittime sacrificali che dall’inizio della modernità segnano di sangue la nostra "percezione" della felicità.

  7. Massimo GIANNINI

    In Italia sarebbe interessante studiare il passaggio dalla personale attitudine alle cose a intenzione collettiva. In politica ad esempio si puo’ facilmente constatare che c’é una forte tendenza di una parte politica, diciamo pure la destra, a parlare senza verificare ogni volta i numeri o a parlare con forti pregiudiziali non documentate o documentabili. Molte volte, di fronte alla verifica dei numeri citati, il dialogo parte per la tangente e si riduce a mera soggettività. Il problema é che questa personale attitudine si trasforma facilmente in comportamento collettivo e quindi intenzione collettiva di voto. Essendo in democrazia, seppur limitata e eterodiretta, la parte meno informata che esprime compiutamente una personale attitudine alle cose ha la meglio. Quasi automaticamente, questa parte, si sente anche più felice per il fatto stesso di essersi affermata politicamente, e siccome é maggioranza sarà difficile rendere istituzionale la verifica dei numeri e dei fatti, perché se lo si facesse una certa parte non sarebbe legittimata. Il famoso sociologo Riesman diceva che la realtà diventa pura apparenza quando é il giudizio degli altri a dargli consistenza.

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