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IL PREZZO DEL PREGIUDIZIO

In Italia solo il 46 per cento delle donne in età lavorativa ha un’occupazione, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse. Non solo per la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. I differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni sono dovuti anche a pratiche discriminatorie. E se la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurle, una rigorosa legislazione è strumento irrinunciabile. Ma deve prevedere autorità competenti a compiere indagini anche senza querela individuale e sanzioni per l’impresa riconosciuta colpevole.

In Italia solo il 46 per cento delle donne in età lavorativa ha un lavoro, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse, superiore solo a quello di Messico e Turchia.
Un tasso di occupazione così basso è innanzitutto il risultato della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, dovuta a fattori ben noti, compresa la scarsa disponibilità di asili nido e altre strutture di supporto alle famiglie e l’insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito. La scarsa partecipazione femminile non è tuttavia l’unico fattore. Le opportunità di lavoro offerte alle donne tendono a essere meno attraenti di quelle offerte agli uomini. Per esempio, ancora nel 2005 il 15 per cento delle donne tra i 25 e i 49 anni aveva un contratto di durata determinata, contro il 9 per cento degli uomini nella stessa fascia di età (figura 1). Inoltre, come in altri paesi Ocse, le donne, pur a parità di qualificazione, tendono a essere pagate molto meno degli uomini. In altre parole, seppure negli ultimi anni si è visto un numero crescente di donne accedere a posti di comando nelle imprese e nella vita pubblica, anche in Italia, esistono ancora barriere più o meno visibili che limitano il completo inserimento delle donne nel mondo del lavoro.

SOFFITTI E PORTE DI VETRO

Diversi fattori entrano in campo per spiegare questi differenziali nell’accesso al lavoro e nelle retribuzioni tra donne e uomini pur con qualificazioni simili. Il primo è sicuramente il campo di specializzazione professionale: le donne tendono a concentrarsi in settori a più bassa produttività e più soggetti a fluttuazioni della domanda dove i contratti a durata determinata sono prevalenti. Ma anche negli studi empirici che tengono conto di questi, e altri, fattori “oggettivi”, una parte rilevante (circa un quarto) dei differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni non può essere attribuito a caratteristiche individuali. Sia negli avanzamenti professionali che nelle assunzioni, esistono “soffitti di vetro” e “porte di vetro” che penalizzano le donne, e sono, entro certi limiti, dovuti a pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro, vale a dire a una diversità di trattamento tra individui ugualmente produttivi unicamente a causa della loro appartenenza a gruppi diversi, quali il sesso.

Figura 1. Proporzione degli occupati con contratti a durata determinata, 2005

Identificare pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro non è semplice.  (1) Un approccio utilizzato in letteratura, e suggerito originariamente dal premio nobel Gary Becker nel 1957, consiste nell’analizzare l’effetto che un aumento nel grado di concorrenza nei mercati di beni e servizi ha sulle disparità di salario o occupazione tra sessi (o razze). Becker, infatti, suggerì che se la discriminazione è basata su pregiudizi da parte dei datori di lavoro, ed è quindi inefficiente, una maggiore concorrenza, riducendo i margini di profitto, ridurrebbe altresì la possibilità per le imprese di usare pratiche discriminatorie, pena la perdita di quote di mercato e il rischio di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa stessa.
Una ricerca pubblicata nelle Prospettive occupazionali dell’Ocse mette in relazione la liberalizzazione dei mercati di beni e servizi di 21 paesi Ocse tra il 1975 e il 2003 con le disparità d’occupazione e salario tra uomini e donne. (2)
Se Becker ha ragione, ci si dovrebbe aspettare che la maggiore concorrenza generata da liberalizzazioni e privatizzazioni abbia portato a una riduzione nei differenziali d’occupazione e di retribuzione con effetti più marcati là dove l’effetto delle riforme è stato maggiore. Lo studio tiene conto di un insieme di altri fattori che possono incidere sui differenziali, tra cui l’evoluzione della domanda di lavoro aggregata, il differenziale di partecipazione tra i sessi, l’evoluzione del potere di negoziazione dei lavoratori, e il secolare aumento della parte dei servizi nell’economia. I risultati sono sorprendenti: circa l’8 per cento delle disparità d’occupazione (e fino al 30 per cento delle disparità di salario orario) possono essere associate a pratiche discriminatorie.

DIRITTI NEGATI E SANZIONI

Se la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurre le discriminazioni sul lavoro, una rigorosa legislazione è uno strumento irrinunciabile. Ma la legislazione può agire da deterrente solo se è efficacemente applicata. Il problema è che in molti paesi, tra cui l’Italia, l’approccio legale è essenzialmente volontaristico: la repressione della discriminazione dipende principalmente dalla volontà delle vittime di sporgere querela. Un requisito prioritario è dunque che i cittadini siano informati dei loro diritti, in modo da poterli far valere. Tuttavia, gli italiani appaiono particolarmente mal informati sull’illegalità di certe pratiche: per esempio del fatto che la legge proibisce di discriminare al momento dell’assunzione (figura 2). Questo mette in luce la forte necessità di promuovere campagne d’informazione tra l’opinione pubblica.

Figura 2. Meno del 30% degli italiani sa che discriminare al momento dell’assunzione è illegale

Inoltre, per la vittima deve essere possibile poter portare avanti una causa di discriminazione sino alla sentenza finale del tribunale. Ma dimostrare la sussistenza di pratiche discriminatorie non è banale, perché l’informazione è in generale esclusivamente nelle mani dei datori di lavoro.
In alcuni paesi, per esempio Australia, Canada e Stati Uniti, autorità indipendenti svolgono vere e proprie indagini, il che permette di sormontare il problema. I paesi europei, inclusa l’Italia per la discriminazione sessuale, hanno optato per il principio dello spostamento dell’onere della prova: il querelante deve provare solo l’esistenza di una diversità di trattamento, potenzialmente dovuta a discriminazione, mentre il datore di lavoro ha l’onere di provare che tale trattamento non è il risultato di pratiche discriminatorie. Tuttavia, anche provare un trattamento diverso può essere proibitivo per il querelante. In particolare in Italia, perché, al contrario di molti altri paesi, nessuna protezione speciale è accordata a testimoni, per esempio colleghi, contro possibili ritorsioni del datore di lavoro.
Due altri fattori appaiono cruciali per dare al divieto di discriminare un efficace potere deterrente, ed entrambi sono sostanzialmente assenti o inutilizzati in Italia. Primo, la repressione della discriminazione è più efficace se non è basata solo su un meccanismo volontaristico, ma  sull’attività di autorità competenti a compiere indagini anche in assenza di querele individuali, come avviene in Canada, Gran Bretagna, Norvegia o Stati Uniti. Secondo, l’impresa riconosciuta colpevole di discriminazione deve poter essere sanzionata al di là della compensazione finanziaria dovuta alla vittima. Negli Stati Uniti, per esempio, certi studi mostrano che l’introduzione della pena di esclusione dai contratti pubblici ha avuto un enorme impatto. Una norma simile esiste da parecchi anni nell’ordinamento italiano, ma non è mai stata applicata.

(1) Per esempio, gli studi sperimentali, come i cosiddetti test situazionali, che sono molto popolari nel caso della discriminazione razziale, possono difficilmente fornire un’idea dell’effetto aggregato della discriminazione, soprattutto nel caso uomo-donna. È ben noto che in un certo numero di professioni le imprese preferiscono le donne e non gli uomini – si pensi per esempio a un posto da segretaria. Quindi, nel caso della discriminazione basata sul sesso, i test situazionali sono, inevitabilmente, affetti dal tipo di professione inclusa nel campione.
(2) Oecd Employment Outlook 2008, Capitolo 3. www.oecd.org/els/employment/outlook.

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IL COSTO DEL CUMULO

  1. Maurilio Menegaldo

    Fa davvero pensare l’osservazione di Gary Becker che gli autori riportano e con la quale concordo. Viene da dire innanzitutto che, se davvero ci fosse l’ideale libero mercato, con la concorrenza perfetta, effettivamente la libertà e i diritti di cittadinanza delle persone sarebbero rafforzati, proprio perché vi sarebbero pari opportunità e nessuna barriera all’entrata per chicchessia. In secondo luogo, poiché come sempre tutto si tiene, dato che l’Italia è ben lontana non dico dal realizzare, ma anche solo dall’avvicinarsi a quell’ideale economico e sociale, ecco che le conseguenze si ripercuotono anche sul mondo del lavoro, ovviamente sulle fasce deboli: oltre alle donne mettiamoci pure i giovani (come va dicendo da tempo, fra gli altri, anche il prof. Boeri), i migranti e i lavoratori anziani. Conclusioni: è il sistema del nostro Paese che non va, e il problema è che le forze politiche a cui gli italiani hanno ridato fiducia hanno ripreso a marciare trionfalmente in direzione opposta a quella che andrebbe invece presa.

  2. Matilde Braidotti

    Non so se le liberalizzazioni migliorino la situazione femminile, constato che in Italia sembrano molto più aperte alle donne professioni tipiche del settore pubblico, magistrati, medici ospedalieri, vigili, poliziotti, etc..Il fatto è che nei concorsi le discriminazioni non sono ammesse, e quindi prima o poi le donne riescono a entrare davvero. Ciò che mi sembra inequivocabile nel testo dell’articolo è che una tutela affidata alla querela dell’interessata è una non tutela, perchè è ovvio che l’impresa controparte è in possesso di informazioni che l’interessata non ha, e per giunta l’interessata che ha trovato un lavoro, se pur avesse coscienza di una discriminazione, non ha nessun interesse a mettersi in posizione polemica col datore di lavoro, col rischio di perdere tutto.

  3. Luca Boccianti

    Non riesco a capire come sia possibile discriminare economicamente qualcuno in base al sesso. I salari ormai sono così bassi che abbassarli ulteriormente mi pare impossibile. Dal novero delle donne penalizzate dovremmo escludere tutte quelle impiegate nella p.a., o come dipendenti con ccnl e simili. I prezzi di mercato di altri settori (servizi, consulenza ecc.) sono ben noti e non esistono prezzi differenziati per genere. Mi pare quindi che per esclusione ne avanzino ben poche e probabilmente solo in settori di alta professionalità in cui la retribuzione non è commisurata a parametri decisionali del datore di lavoro ma a risultati di una certa oggettività. In conclusione, sicuramente molte donne sono pagate poco, ma per lo stesso lavoro gli uomini non sono certo pagati di più. Se fosse vero che una donna è pagata meno di un uomo per lo stesso lavoro, sappiamo benissimo che il datore prenderebbe da parte l’uomo e gli direbbe "o accetti un salario più basso o ti sostituisco con una donna", come ad esempio si è fatto nella ristorazione e nell’edilizia con gli immigrati.

  4. Claudio Resentini

    Articolo interessante. Solo un appunto agli autori e soprattutto a Maurilio: Il mercato di concorrenza perfetta, come la teora economica insegna, necessiterebbe per esistere (se esistesse davvero) dell’assoluta eguaglianza dei soggetti che in essi vi operano, non il contrario. D’altra parte, Il mercato reale non solo non porta affatto l’eguaglianza, ma per esistere presuppone la diseguaglianza. Il mercato del lavoro, poi, un mercato sui generis, assurdo in teoria, ma esistente in pratica, necessitàprecisamente di una perfetta diseguaglianza tra i soggetti. Non si capisce perchè altrimenti uno dovrebbe vendere il proprio lavoro e perchè qualcun altro dovrebbe essere in grado di comprarlo. Se non esistessero le diseguaglianze non esisterebbe un mercato del lavoro. Con buona pace della teoria economica…

  5. Maurilio Menegaldo

    Non per aprire un dibattito, ma solo per chiarire quanto affermavo nel mio commento precedente. D’accordo col signor Resentini che nel mercato vi possono essere diseguaglianze, soprattutto tra chi compra e vende: d’altra parte, i monopoli e i cartelli sono lì a mostrarlo. Quello che intendevo è che, almeno dal lato dell’offerta di lavoro (ammesso che il lavoro sia una merce o quantomeno una merce come le altre) non vi dovrebbero essere le disparità e le barriere che danneggiano una parte consistente di coloro che vi partecipano. Questi impedimenti purtroppo sono tipici (ribadisco) di un Paese con troppi pregiudizi culturali e sociali come il nostro.

  6. franco

    Mi indigno molto quando i gestori dei media parlano di "quote rosa". Cosa vuol dire? La prima discriminazione è utilizzare un linguaggio simile.In una società e nel mercato del lavoro operano delle persone punto. E’ aberrante sentire certi giornali che in periodo di elezioni dicevano " il 20% dei posti sono stati risevati alle donne". Medioevo! Questi siamo noi, Medioevo!Riguardo al rispetto delle donne critichiamo l’Islam e facciamo chiudere le moschee dimenticandoci che in certi paesini del Veneto (mi racconta mia moglie) il prete faceva entrare le donne in Chiesa in porte separate ed erano divise dagli uomini.Il nostro è un Paese medioevale, di scarsa cultura che ha resistito fino ad ora perchè chiuso nei propri confini, la globalizzazione ha messo in luce i ns. arcaici limiti e stiamo naufragando senza speranza. Le regole e le leggi di un popolo sono efficenti proporzionalmente al livello di cultura del popolo stesso, da noi non servono a nulla.Ho pochi dipendenti nella mia piccola azienda, molto validi ,solo leggendo questo punto mi sono ricordato che l’80% sono donne!

  7. Marella Monaro

    In un Paese in cui i titoli, le qualifiche ed il curriculum sono guardati con sospetto, la competizione di mercato non può ridurre la discriminazione nel mondo del lavoro. Ha, invece, fatto sparire i concorsi e l’orario di lavoro contrattuale. Spariti i concorsi sono fiorite le belle stangone ed i cognomi celebri. Forme diverse di “signalling”. Ed il “signalling” è anche la capacità di adattarsi ad un modello che, nell’epoca del “virtuale”, pretende ancora il presidio costante del posto di lavoro. Sono tempi incompatibili con qualsiasi altra attività della vita civile, figuriamoci con quella familiare. Forse questo spiega il paradosso di Luca Boccianti? Gli uomini sono scelti (per lo più) da uomini per posizioni per le quali si richiede una disponibilità che solo (alcuni) uomini (e poche donne) possono garantire. Nei posti di responsabilità lo stipendio è un dettaglio. Così prevale ancora oggi il modello tradizionale, in cui le donne si confrontano con le incompatibilità della doppia presenza, completamente sconosciuta a molti uomini. Quelli in carriera, appunto. Non vedo come un intervento legislativo possa modificare quello che mi sembra principalmente un problema cultura.

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