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IL DECENNIO PERDUTO DEL GIAPPONE

Torna la paura della deflazione, intesa nel senso di diminuzione generalizzata dei prezzi. Utile allora guardare cosa è accaduto in Giappone, che ha sperimentato la stagnazione per dieci anni. Almeno ufficialmente, perché in realtà la crisi serpeggia ancor oggi: il Nikkei non è lontano dal minimo di gennaio 2003 e da aprile 2008 il paese è di nuovo tecnicamente in recessione. Il reddito è sceso solo nel biennio 1998-99 mentre i prezzi sono calati nel 1995, dal 1999 al 2003 e nel 2005. E la spesa in consumi delle famiglie dei lavoratori replica la discesa dei prezzi al consumo.

 

Fino alla metà del secolo scorso, i periodi nei quali il livello dei prezzi cresceva (inflazione) si sono alternati a periodi con prezzi generalmente calanti (deflazione). Dopo la seconda guerra mondiale, invece, i prezzi sono quasi sempre cresciuti e si è diffusa la convinzione che questo andamento fosse irreversibile. Perfino il significato delle parole cambiò: deflazione diventò prevalentemente la caduta del reddito o prodotto di un paese, non più la diminuzione generalizzata dei prezzi.

LA BOLLA E LA CRISI

Con la lunga stagnazione dell’economia giapponese, a partire dal 1990, la paura di una deflazione (nel vecchio significato) è ritornato attuale; “paura” per i motivi chiariti in un contributo di Francesco Daveri .  
Il “decennio perduto” dalla società giapponese trova le sue origini nell’accordo del Plaza Hotel, 22 settembre 1985, tra Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania e Francia che prevedeva la rivalutazione dello yen e del marco nei confronti del dollaro.
Nel giro di un anno il tasso di cambio yen/dollaro passa da 250 a 150; in Giappone inizia a gonfiarsi la bolla speculativa: nel periodo 1985–1989 l’indice Nikkei, il più noto e rappresentativo della borsa di Tokyo, sale da circa 12.600 (settembre 1985) a 38.957 (29 dicembre 1989) mentre i prezzi delle case e dei terreni triplicano.Èil periodo in cui un metro quadrato a Ginza, la via Montenapoleone di Tokyo, poteva costare un milione e mezzo di dollari; si diceva che il valore dei soli giardini del Palazzo imperiale fosse superiore a quello di tutta la California.
Le imprese ottengono credito dalle banche dando come garanzia azioni, edifici, terreni: i valori di questi ultimi crescono e prestiti crescenti sono concessi con le stesse garanzie.   
All’inizio del 1990 labolla speculativa scoppia: in nove mesi, da gennaio a settembre, il Nikkei crolla a 19.782 toccando il minimo di 8.237 a fine gennaio 2003. Con un ritardo di quasi un anno anche i prezzi dei terreni e degli edifici scendono.
Le garanzie non sono più adeguate, ma poche imprese falliscono: innanzi tutto non fa e non faceva parte del comportamento societario in Giappone chiedere il fallimento del debitore; inoltre ogni keiretsu o gruppo industriale aveva una sua banca di riferimento.
All’inizio, la gravità della crisi non appare nella sua dimensione vera: dopotutto nel 1990 e 1991 il Pil cresce del 5,3 e 3,4 per cento. Inoltre le rigidità e le collusioni della società giapponese impediscono di prendere misure adeguate. Si apre così la lunga stagnazione del Giappone: non è una recessione in senso stretto perché il reddito cresce quasi costantemente.
Convenzionalmente, finisce a metà 2002, ma in realtà serpeggia ancor oggi: il Nikkei, che aveva superato quota 18.000 nel 2007, è ora a metà dicembre 2008 intorno a 8.700, non lontano dal minimo del gennaio 2003. Per di più il paese è di nuovo “tecnicamente” in recessione dall’aprile 2008: infatti la crescita del reddito è stata negativa nel secondo e nel terzo trimestre.

DEFLAZIONE NEL SOL LEVANTE

Tra le maggiori preoccupazioni degli esperti e dei politici è il ritorno della “vecchia” deflazione: in Giappone i prezzi declinano per alcuni anni. Si è temuto qualcosa di simile negli Usa e in Europa; la crisi in cui ci dibattiamo sembra così profonda da generare non solo una caduta del reddito, ma anche una discesa dei prezzi.
È utile forse approfondire alcuni aspetti della deflazione giapponese. 
Se confrontiamo (dati Fmi) i tassi annui di variazione del reddito e dei prezzi al consumo dal 1985 al 2007 possiamo notare che il reddito scende solo nel biennio 1998-99 mentre i prezzi calano nel 1995, dal 1999 al 2003 e nel 2005. La diminuzione più grande di questi ultimi è inferiore allo 0,9 per cento, nel 2002, e solo nel 1999 calano sia il Pil sia i prezzi, dello 0,14 e 0,29 per cento rispettivamente.
Se poi prendiamo in considerazione i prezzi alla produzione (dati Statistics Bureau, ministero degli Interni e delle Comunicazioni) notiamo che la deflazione è un fenomeno molto frequente: dal 1985 al 2007 (23 anni)  calano in quindici anni, praticamente quasi tutto il quinquennio della bolla speculativa e il decennio a partire dal 1994. Anche i prezzi delle importazioni hanno un andamento simile: calano in quattordici anni. La spiegazione sembra basarsi soprattutto sulla rivalutazione dello yen e sulle importazioni dalla Cina.
E la spesa in consumi delle famiglie dei lavoratori? I tassi di variazione sono negativi nel 1994, 1995, dal 1998 al 2003 e nel 2006, quasi replicando la discesa dei prezzi al consumo, con valori (assoluti) compresi tra 0,2 e 2,9 per cento.
Se però passiamo alle spese per grandi categorie e ci soffermiamo su quelle più rappresentative dei beni durevoli (casa, mobili e attrezzature per la casa, vestiti e calzature, trasporti e comunicazioni) il quadro si complica: le variazioni negative si disperdono su molti anni senza una chiara concentrazione; la spesa per abbigliamento è decrescente in quasi tutti gli anni dal 1985 al 2007.  
Quali sono le cause del “decennio perduto”? Vedremo quelle più importanti in un altro contributo.
Ma quanto è lungo un decennio? Solo una ventina d’anni, speriamo.

 

Foto: Fujiama – da internet

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14 commenti

  1. Francesco

    È molto frequente, in questi giorni, leggere riferimenti al “decennio perduto” del Giappone, ma senza entrare mai troppo nel dettaglio. Era quindi ora che lavoce sopperisse alla lacunosità delle fonti di informazioni alternative con dati e analisi più approfondite, come in questo caso. L’unico aspetto al quale non mi pare sia stata data la necessaria importanza è la dinamica demografica del Paese. Infatti oggi in Giappone la popolazione (e, significativamente, anche quella in età lavorativa) sta diminuendo e questo significa che anche una stagnazione del reddito si traduce in una crescita del reddito pro-capite. Questo aspetto è stato sottolineato in un interessante articolo de “The Economist” qualche mese fa, ma pare non essere stato ancora metabolizzato da molti commentatori economici: http://www.economist.com/finance/displaystory.cfm?story_id=10852462

    • La redazione

      L’invecchiamento della popolazione è certamente un problema per il Giappone, forse però più oggi e nel prossimo futuro che in passato (nel “decennio perduto”). La politica ufficiale, condivisa dalla maggioranza, è contraria all’immigrazione; per questo la ricerca punta verso macchine in grado di badare e curare gli anziani: i robot umanoidi sono la punta mediatica, pubblicitaria di un iceberg tecnologico.

  2. stefano cingolani

    Siamo sicuri che sia stato un decennio (o più) davvero perduto? Il Giappone stagnante e in deflazione non ha ridotto il suo tenore di vita, né la sua potenza industriale ed economica. Vedi Toyota e non solo. L’apparato produttivo s’è ristrutturato ed è competitivo ne sanno qualcosa gli americani. Come si spiega? Esiste un equilibrio da stagnazione-deflazione così come un equilibrio da sottoccupazione? E alla fine non è poi così male, almeno nel Sol Levante? E’ un caso da discutere, stefano cingolani

    • La redazione

      E’ vero che il tenore di vita è molto alto e che i consumi aggregati non sono variati in modo significativo. Però è cresciuta la disuguaglianza nei redditi (e nei consumi). I gruppi che hanno aumentato i loro consumi sono stati i pensionati e le donne giovani, occupate e non sposate. I lavoratori maschi hanno visto crescere l’incertezza sulla conservazione del posto di lavoro ed hanno aumentato i risparmi temendo appunto la disoccupazione. I maschi giovani hanno avuto elevate difficoltà nel trovare un posto di lavoro regolare, cioè “a vita”.

  3. Davide Bukoro

    E’ fuori luogo sostenere che il Giappone si trovi in stagnazione. Il Giappone sta sperimentando non una discesa generalizzata dei prezzi ma una trasformazione nella composizone dei consumi che corrisponde a diverse dinamiche dei prezzi nei diversi mercati interni e che vede il consumatore giapponese accrescere il suo potere decisionale. Ecco perché il reddito disponibile degli individui non si è contratto in modo rilevante. Il Giappone non è in recessione, si è modificato lentamente, dallo scoppio della bolla economico-finanziaria di fine anni ottanta – non certo deteminata dalla rivalutazione dello yen ma dal taglio dei tassi da parte della BoJ – verso una economia matura orientata al consumatore. Le difficoltà attuali sono piu’ determinate da aspettative negative dal lato del consumo, inficiate dalla recessione internazionale, piuttosto che dal reddito disponibile.La deflazione preoccupa le aziende non certo i consumatori per i quali rappresenta invece una opportunità di spesa e investimento. Abbondante offerta di moneta e solidita’ bancaria effetto di avere ristrutturato i crediti inesigibili già un decennio addietro non credo siano elementi deflattivi.

    • La redazione

      Chiaramente molti giudizi sono relativi. Si potrebbe definire (più positivamente) il “decennio perduto” un periodo di crescita bassa, variabile ed a volte negativa. Se però confrontiamo questo periodo con i 15 anni dal 1960 (tassi annui di crescita del PIL superiori al 9%) o anche al periodo post prima crisi petrolifera  (tassi del 4 – 5% ) o ai risultati dei nuovi giganti, Cina ed India, viene naturale parlare di stagnazione. Dall’aprile 2008 il Giappone è tecnicamente in recessione, secondo la definizione comunemente accettata, poiché il PIL è diminuito per due trimestri consecutivi. La causa prossima dello scoppio della bolla speculativa fu la stretta della Banca del Giappone preoccupata (un po’ troppo tardi) per la rapida crescita della borsa e dei prezzi delle case e dei terreni (soprattutto nelle grandi città).

  4. andrea

    Colgo l’occasione di questo ottimo articolo per porre una domanda: cosa c’è di male nella deflazione giapponese? Se i redditi non sono mai scesi (solo nel 1998-9) e i prezzi sono calati molto piu’ sovente, è evidente che il tenore di vita e` migliorato, e resta in Giappone uno dei piu’ elevati del pianeta. Lasciamo dunque che anche in occidente la deflazione faccia il suo corso, correggendo l’assurda e pluridecennale corsa dei prezzi. D’altronde, dato l’indebitamento astronomico dei governi europei e statunitense, non si vede come evitarlo.

  5. Giovanni

    La deflazione è una sciagura quando, come ora, si accompagna ad una rarefazione monetaria, poiché implica numerosi fallimenti e disoccupazione alle stelle. In questo senso la situazione del Giappone degli anni 90 non è paragonabile con la situazione attuale, poiché ora tutto il mondo è in recessione e con i prezzi delle materie prime oggetto di speculazione.

    • La redazione

      La politica monetaria della Banca del Giappone è stata quasi sempre molto espansiva, ma le banche hanno spesso frenato i prestiti causando una stretta creditizia. Questo si sta verificando anche oggi, sia pure per ragioni differenti: allora le banche giapponesi volevano a tutti i costi ridurre le sofferenze ed erano molto selettive nel concedere prestiti; oggi è crollata la fiducia reciproca delle banche in quasi tutti i paesi. Ricordiamo che la Banca del Giappone diventa indipendente dal Ministero delle Finanze (il ministero economico) solo dall’aprile del 1998.

  6. renzo pagliari

    Pur condividendo l’opinione di Francesco sul peso del fattore demografico nella crisi giapponese, penso che la causa più importante sia rappresentata dalla mancata espansione su grande scala degli investimenti all’estero. Negli anni intorno al 1990, invece di finanziare l’aumento di prezzo di titoli azionari ed immobili in patria, sarebbe stato possibile per il Giappone effettuare massicci investimenti nell’ Estremo Oriente Sovietico, da finanziare a lungo termine drenando liquidità interna ed ottenendo pagamenti in materie prime indispensabili a prezzi costanti, parimenti risolvendo i problemi interni dell’ URSS con ingenti esportazioni di beni di consumo pagate con la vendita di beni immobili/partecipazioni minoritarie in industrie sovietiche e simili. Così si sarebbe consolidata la disponibilità di materie prime poi divenute care nel periodo di espansione mondiale e che torneranno ad esserlo in futuro dopo la recessione; si sarebbe evitata la bolla interna, facilitata dai bassi tassi di interesse. La storia malgrado il precedente si è ripetuta in America, come da taluno previsto, per l’invito alla speculazione anzichè all’economia reale, dato dai bassi tassi di interesse.

    • La redazione

      I flussi di IDE dal Giappone (in dollari, fonte Jetro) sono esplosi dal 1986 al 1990, poi si sono contratti; riprendono rapidamente dal 1995. Cambiano destinazione (1990-2007): dagli Stati Uniti all’Europa ed alla Cina. Il Giappone ha progetti in Siberia per lo sfruttamento delle materie prime: il loro prezzo è però determinato a livello globale, non certo da specifici accordi bilaterali (come ci insegnano recenti esperienze).

  7. Gianni

    Quello che sta accadendo è che i vari programmi governativi di espansione monetaria (tassi allo 0.25%) e spesa pubblica (che hanno portato il debito pubblico a oltre il 150% del PIL …alla faccia del fiscal stimulus) continuano a sussidiare attività improduttive, generate nella fase di boom e che quindi non hanno mercato. Senza pensare ai prestiti e elargizioni ai vari clienti del partito al governo.

  8. Ilario

    Molti commentatori paventano l’arrivo della deflazione come conseguenza della crisi economica in atto. Alcune significative diminuzioni di prezzi sembrerebbero avvalorare questa tesi. Che probabilmente potrebbe rivelarsi corretta nel breve periodo. Ma io credo che il disperato tentativo dei governi e delle banche centrali di salvare il sistema finanziario iniettando mostruose quantità di liquidità non potrà che provocare una forte inflazione tra 2 o 3 anni. Innanzitutto, nessuno ci sta spiegando da dove arrivano queste ingenti quantità di denari. Visto che le tasse non aumentano significativamente, e che molti bilanci statali non possono permettersi un deficit ulteriore, io penso che i governi si metteranno d’accodo per stampare sottobanco soldi. Tanti. Politicamente è molto meglio avere un’inflazione al 20% che una disoccupazione al 20%. Ma insomma, da dove vengono tutte queste centinaia di miliardi di euro e di dollari che i governi stanno utilizzando per salvare industrie e banche? Nessuno se lo chiede? Ma se fino ad un anno fa tutti i governi effettuavano manovre restrittive, tagliavano spese, ma dove stanno trovando tutti questi soldi? Prepariamoci a un’inflazione a due cifre.

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