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QUEL COSTO DI DISTRIBUZIONE CHE PESA SUL FONDO

Alla crisi dei fondi comuni di investimento concorrono anche le deludenti analisi dei loro risultati. Inutili però i confronti senza tener conto dei costi di distribuzione, perché questi esistono, vengono pagati dal sottoscrittore e non sono affatto trascurabili. Condivisibile invece l’orientamento delle autorità di vigilanza: cercano di renderli più trasparenti, cosicché il mercato possa premiare i distributori migliori. Ma anche di promuovere canali alternativi per la sottoscrizione, capaci di fare concorrenza ai promotori e agli sportelli.

Il patrimonio affidato dagli italiani ai fondi comuni d’investimento ha subito una contrazione drammatica nel 2008, con riscatti nell’ordine dei 140 miliardi. Le cause del fenomeno sono diverse. (1) Ma a deprimere la domanda concorrono certo i risultati, piuttosto deludenti, delle analisi sulla performance dei fondi. Spesso, però, questi studi confrontano i fondi con indici di mercato, come il Mib per le azioni italiane, che rappresentano panieri di titoli puramente teorici, non acquistabili, e che in quanto tali non hanno costi di distribuzione: è evidente l’iniquità di un simile raffronto.

CONFRONTI CORRETTI

Per rendere più corretta la comparazione, qualcuno propone di considerare la performance dei fondi al lordo degli oneri di distribuzione, cioè dei costi delle filiali bancarie e dei promotori che collocano i prodotti: così maggiorati, i rendimenti  risultano in linea con quelli degli indici di mercato, suggerendo che i gestori se non fanno meglio della media, non sono nemmeno peggiori.
In realtà, ragionare come se i costi di distribuzione non esistessero è fare violenza alla realtà. I costi ci sono, vengono pagati dal sottoscrittore e non sono affatto trascurabili. Per rendere equo il confronto, anziché modificare il dato sui fondi, conviene correggere il termine di paragone, cioè i rendimenti degli indici di mercato. Più precisamente, anziché usare indici puramente teorici, come il Mib, è meglio utilizzare gestioni passive a basso costo, i cosiddetti Etf, o Exchange Traded Funds, che replicano l’indice ma rappresentano prodotti finanziari realmente acquistabili. Ovviamente, dal rendimento di tali gestioni vanno decurtati, per omogeneità con i fondi, i costi di distribuzione, cioè le commissioni di negoziazione incassate dagli intermediari e lo spread denaro/lettera richiesto dal mercato. In questo modo si mettono “in gara” i fondi e gli Etf al netto di tutte le commissioni pagate dai rispettivi clienti: nessuno dei due concorrenti ha un vantaggio a priori ed è possibile capire se i gestori creano valore rispetto a un prodotto reale, ma perfettamente passivo.
Insieme a Maria Elena Fabiano, ho effettuato questo esperimento utilizzando un campione di 55 fondi azionari italiani nel triennio da aprile 2005 a aprile 2008, calcolando diverse misure di performance. Una prima, semplice misura è l’alpha di Jensen, che stima il differenziale di rendimento tra fondi e Etf correggendo per l’esposizione (ipotizzata costante) al rischio di mercato; il differenziale è risultato negativo per 50 fondi, positivo solo per 5. Altri indicatori più sofisticati (indice di Treynor e Mazuy, indice di Henriksson e Merton) confermano la diagnosi, anche se in modo più articolato: una metà scarsa dei fondi riesce a migliorare la propria performance “dosando” l’esposizione al mercato azionario a seconda delle fasi,cioè parcheggiando denaro in liquidità quando il mercato è negativo, ma per gli altri il “market timing” è controproducente. Inoltre, l’80 per cento dei fondi distrugge valore attraverso una scelta infelice dei singoli titoli in cui investire (avrebbe cioè fatto meglio ad attenersi passivamente alla composizione dell’indice) mentre solo il 20 per cento opera una selezione favorevole.
Naturalmente, i risultati sarebbero diversi se i costi di distribuzione dei fondi comuni fossero più bassi, visto che assorbono una quota preponderante delle commissioni pagate dai clienti. Appare dunque condivisibile l’orientamento delle autorità di vigilanza, che cercano di renderli più trasparenti, perché il mercato possa premiare i distributori migliori, e di promuovere canali alternativi per la sottoscrizione, in grado di fare concorrenza ai promotori e agli sportelli.
Anche chi fa ricerca può dare un contributo, se aiuta a inquadrare i problemi in maniera corretta. Se un pur bravo fornaio si ostina a consegnare il proprio pane in Maserati, non è ignorando i suoi costi di distribuzione che lo si rende più efficiente ma, se mai, confrontandolo con un agile garzone che recapita le michette in bicicletta.

(1) Conclusioni ampiamente condivisibili sono state raggiunte in uno studio recente: Gruppo di lavoro sui fondi comuni italiani, Fondi comuni italiani: situazione attuale e possibili linee di intervento, Banca d’Italia, 2008.

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22 commenti

  1. Massimo GIANNINI

    Qualsiasi confronto si faccia mi pare che non sia un problema di zero virgola percento di under performance dovuto ai costi di distribuzione. Se io guadagno prendendo certi rischi me ne infischio anche del costo di distribuzione fissato ex ante. Il problema é quando i fondi rendono anche meno di un titolo di stato pur avendo corso rischi più alti. E’ inutile e fuorviante girare intorno alla matematica tirando fuori i costi di distribuzione. Quando una banca italiana permetterà di acquistare facilmente online un fondo estero non ci saranno più problemi di costi di distribuzione.

    • La redazione

      Provo a fare due conti con Lei e con altri lettori che suggeriscono che "il problema è ben altro". Le commissioni di un fondo azionario sono nell’ordine del 2%, di cui i tre quarti (ma qualche virtuoso arriva a retrocedere alla rete il 90%!) vengono mediamente assorbiti dai costi di distribuzione. Fa 1,5%, che moltiplicato per un periodo di detenzione adeguato all’investimento azionario (diciamo sette anni) ci porta a un 10,5% circa. Dunque se un padre di famiglia investe 50.000 euro, ne lascia più di 5.000 in costi di distribuzione, magari a fronte di poche frasi generiche dell’impiegato che lo aveva assistito nella sottoscrizione di un fascio di moduli scritti fitti. Beato chi può infischiarsene. A tanti piccoli risparmiatori italiani quei cinquemila euro farebbero comodo.

  2. Piero

    Oltre ai costi di distribuzione, alle politiche di gestione passiva od attiva, francamente credo che i conflitti di interesse tra gestori e sistema bancario e sistema imprenditoriale valgano a mio parere molto di più. Forse il pubblico retail non ha ben presente l’intreccio, ma alla fine vede i risultati e decide. Personalmente, spero che siano le spinte della domanda a moralizzare l’offerta.

  3. Luigi Spaventa

    Forse sarebbe opportuna un’ulteriore correzione nel confronto, per tener conto che gli ETF sono “lordisti”, mentre i fondi di diritto italiano sono “nettisti”.

    • La redazione

      Grazie. Si è in effetti cercato di tenere conto delle principali differenze nel regime fiscale dei due strumenti, applicando ai risultati dell’ETF una ritenuta sul maturato "virtuale" del 12,5%, simile a quella di un fondo italiano. E’ una metodologia un po’ imprecisa e trascura alcuni effetti "del secondo ordine"; tuttavia l’alfa di Jensen negativo dei fondi pare sufficientemente ampio da "assorbire" l’effetto di perequazioni fiscali più raffinate.

  4. Battini Marcello

    Ho verificato di persona la validità dei vostri calcoli che condivido pienamente. C’è, però, a mio avviso, un conflitto d’interessi, tra banca ed investitore che, in questa ricerca, per come è svolta, non poteva essere evidenziato, ma che non è meno importante. Adesso è un pò più facile avere informazioni adeguate su ETF ed è più facile acquistare questi fondi passivi, ma fino a non molto tempo fa, la cosa era ostacolata dagli sportelli bancari. A maggior ragione si trovano ancora grosse difficoltà ad acquisire informazioni ed operare direttamente in titoli obbligazionari, a parte i titoli di stato italiani. Questo tipo d’investimento, tra l’altro, per un cassettista, è il migliore possibile. Allora, che fare?

    • La redazione

      La mia attuale banca mi dà molte informazioni su ETF e titoli e commissioni di negoziazione relativamente basse. Ci ho messo un po’ a trovarla, ma ci sono riuscito. La mano invisibile siamo noi, se abbiamo tempo e voglia di cambiare.

  5. smb

    I costi di distribuzione sono proprio un aspetto del conflitto di interesse: è lo strumento con cui il sistema bancario proprietario dei fondi estrae tutto il loro extra-rendimento (quando c’è). La crisi dei fondi, esacerbata dalla congiuntura, dura da tempo a causa dello spostamento delle banche verso strumenti più redditizi in termini di commissioni e/o raccolta.

    • La redazione

      Vero, grazie. Per un cliente che confronta le performance e si sposta dai fondi agli ETF (che talvolta hanno performance nette migliori) ce ne sono tre che ascoltano il personale di sportello e si spostano verso prodotti meno redditizi, meno trasparenti, quando non più rischiosi. Il mio articolo parlava del primo cliente, ma consiglio a tutti la lettura del documento coordinato da Giovanni Carosio che cito in una nota (e disponibile su http://www.bancaditalia.it/vigilanza/pubblicazioni/altri_doc) : lì si racconta, molto efficacemente, degli altri tre.

  6. Maurizio Murgia

    Andrea Resti assume che il costo di distribuzione sia una variabile controllabile dai gestori di portafoglio, nel momento in cui viene inglobato nel modello di asset pricing. L’industria dell’asset management funziona in modo diverso, e sebbene concordo che il costo di distribuzione è importante, per il consumatore finale non è corretto includerlo in un modello pensato per valutare le capacità previsionali del gestore. In alcuni studi empirici, realizzati decenni fa con Riccardo Ferretti e Pietro Gottardo, avevamo provato che anche dopo una puntigliosa ricostruzione dei rendimenti di portafoglio al lordo di tutti i costi “controllabili” dai gestori italiani, e adottando metodologie econometriche più sofisticate, le performance corrette per il rischio erano in media negative. Il vero problema dell’industria dei fondi comuni italiani è strutturale e legato ad un modello di business sbagliato. La crisi finanziaria attuale imporrà una draconiana ristrutturazione del settore, con prodotti a basso costo da una parte e prodotti absolute returns dall’altra, e in questi ultimi i gestori dovranno avere dei contratti di remunerazione simmetrici (cioè pagano di tasca loro le perdite).

    • La redazione

      Caro Maurizio, grazie per il commento e per aver segnalato ai lettori alcuni tuoi lavori che sono ancora molto utili e attuali. Sono d’accordo con te che i gestori non controllano il livello dei costi di distribuzione e spesso lo subiscono. Resta il fatto che – se la loro performance non è almeno tale da consentire al risparmiatore di recuperare i maggiori costi di distribuzione – il cliente comprerà ETF e non fondi: negli ultimi anni l’industria dell’asset management ha funzionato anche così. Io ho provato a fare un piccolo test empirico che ragionasse come il risparmiatore.

  7. mario

    La mia impressione (e non solo) è che il livello di professionalità nella gestione dei fondi sia fortemente influenzata dalle scelte di gestione dell’istituto bancario di riferimento. L’obbligo implicito di un fondo di allinearsi alla logica della banca di riferimento ha prodotto soprattutto nel periodo recente un proliferare di investimenti in regime di conflitto di interesse. Mi spiego: vi sono fondi che nel pieno della crisi dello scorso autunno negoziano solo fondi della propria banca, nei fatti ricostituendo in proprio il format dei fondi strutturati e tossici dai quali il mondo oggi sta cercando di liberarsi. Risultato per il risparmiatore: dopo aver pagato le nefandezze dei grandi truffatori a livello globale rischia di dover pagare anche a livello locale scelte di investimento che ripoducono la stessa logica che ci ha condotti a questa situazione. In merito al costo di distribuzione si può dire che, in questo quadro, tale costo è assolutamente un fatto di costrizione che (se era necessario) accelera le fuga dai fondi.

  8. Giancarlo

    Trovo sempre pericolosa l’enfasi, anche da parte delle autorità, data ai soli costi di distribuzione rispetto ad indicatori sulla qualità della gestione, la frequenza e l’efficacia dei contatti con il cliente. Purtoppo il mercato retail non è efficiente e l’accesso dei privati agli investimenti è guidato dagli intermediari; se la trasparenza portasse alla mera guerra al ribasso dei costi di distribuzione, gli intermediari stessi saranno sempre più portati al “mordi e fuggi”. E’ responsabilità di tutti trovare sistemi di remunerazione che premino il servizio di vera consulenza oltre che collocamento, dando più valore al canale diretto rispetto a quelli alternativi.

    • La redazione

      In realtà io credo che, in attesa della perfezione, un po’ di "guerra al ribasso" tra intermediari sui costi di distribuzione non sarebbe poi così male…

  9. luis

    La crisi dei fondi comuni è dovuta in minima parte al costo di gestione. Le cause sono diverse ma le principali sono da imputare alle stesse banche. Prima dello scoppio della bolla internet hanno indirizzato in massa i clienti verso fondi azionari. Dopo lo scoppio li hanno dirottati sui fondi di liquidità a rendimento negativo, in quanto i tassi erano scesi ai minimi. Poi, durante la ripresa delle borse 2003-2007, sono esplosi i bond strutturati. Le banche stesse hanno convinto gli ignari risparmiatori a riscattare i fondi (proprio nel momento della ripresa!) per sottoscrivere queste obbligazioni a rendimento negativo e molto redditizie per le banche. Risultato: salasso totale per i risparmiatori. E’ vero che le banche italiane “non parlano inglese “, e che hanno pochi titoli tossici, ma hanno fatto utili notevoli a danno dei risparmiatori.

    • La redazione

      E’ vero: le cause sono tante e, come scrivevo in una nota, c’è un bel documento di qualche mese fa che le riassume efficacemente. Un breve articolo deve necessariamente privilegiare un aspetto della questione, perché non può esaurirli tutti. Col vantaggio di lasciare più spazio anche ai commenti dei lettori, che ringrazio.

  10. Carlo Banti

    Questa, a mio modestissimo parere, è la vera domanda che ci dobbiamo porre: quanto vale la distribuzione? Questi costi sono meritati? Il differenziale di rendimento è l’unico paramentro da considerare per rispondere a questa domanda? Ho avuto la fortuna di ascoltare più volte interventi qualificati che, citando lavori della Prof.ssa Lusardi, dimostrano come coloro che seguono programmi di educazione finanziaria riescano ad incrementare la propria ricchezza netta anche del 20%, rispetto a coloro che questi programmi non seguono. Mi domando allora, che valore ha il costante e professionale aggiornamento che, ad esempio, i Promotori Finanziari svolgono durante tutto l’anno e che poi cercano di trasmettere ai loro clienti?

  11. francesco

    Oltre alla giustissima questione dei costi di distribuzione per l’intero sistema del risparmio gestito occorre fare un vero esame di coscienza perché è la totale mancanza di fiducia del risparmiatore verso il gestore. Non c’è nulla in contropartita al costo che è la distribuzione, ma anche la gestione, la fiscalità per il diritto italiano, costi fittizi in termini di trasparenza leggi i fondi monetari che poi monetari non sono, gestioni patrimoniali con turnover di portafoglio esagerati solo per produrre commissioni, ecc.

  12. Michele

    I fondi comuni di investimento così come le obbligazioni strutturate dovrebbero essere messi al bando dalle autorità di vigilanza anche perché le tecnologie di investimento tipo media-varianza più o meno sofisticate hanno dimostrato di soccombere ad esempio di fronte ad un investimento effettuato tramite ETF. Sarebbe meglio sapere se i soldi sono investiti in titoli che fanno capo ad aziende sane e con piani di sviluppo ed investimenti adeguati piuttosto che avere informazioni circa volatilità, asimmetria e kurtosi dei rendimenti. Le banche si sono trasformate in supermercati di prodotti che dietro la poca trasparenza nascondono costi occulti che vanno a ripagare i lauti bonus dei gestori e dei “commerciali”, pressati dai budget, che li piazzano. Le banche hanno disegnato i propri piani di sviluppo basandosi sulla potenza di fuoco della propria rete commerciale cioè nell’abilita di saper creare economie dalla vendita dei prodotti strutturati e fondi comuni sui quali guadagnano commissioni spaventose a discapito dell’investitore. Si spera che in futuro le banche tornino a fare attività creditizia e che le autorità di vigilanza pongano un freno alla vendita di tali prodotti.

  13. GIACOMO PETTERLE

    Il mercato del risparmio gestito è un mercato del tutto anomalo che non risponde alle normali leggi della domanda e dell’offerta; in realtà non è un mercato in quanto la domanda effettiva sostanzialmente non esiste o è assolutamente marginale. Infatti una percentuale ridotta degli attuali investitori ha scelto deliberatamente e autonomamente di sottoscrivere tali strumenti, è unicamente il risultato di pressioni commerciali che le banche e per lora natura in modo più accentuato le reti hanno imposto per anni alla platea dei risparmiatori sfruttando asimetrie informative di varia natura (per non definirle diversamente). Ne consegue che è un mercato dove gli intermediari hanno determinato domanda e ovviamente offerta. Quindi domandarsi oggi se i costi di distribuzione pesano sui fondi e questi pesano sulle performance e quindi sui riscatti (pur rispettando la rigorosità scientifica degli studi per l’analisi) è una domanda retorica, direi assolutamente inutile: i deflussi non sono determinati da una indiscussa e comprovata inefficienza da innumerevoli studi accademici, semplicemente dal cambio di strategie commerciali.

  14. Enzo

    Sono pienamente d’accordo. Allora occorre, tra le altre cose, rendere sempre più diffuso l’acquisto diretto dalla SgR, tramite Internet e/o altri sistemi. Come dire "dal produttore al consumatore". Oggi alcuni gestori già lo stanno facendo, ma troppo timidamente, temono le ire dei "venditori in Maserati". Bisogna anche incrementare le fonti di informazioni per i consumatori per una scelta oculata ed incoraggiarli all’acquisto diretto. La paura che nasce dalla ignoranza in materia viene abbondantemente sfruttata!

  15. Michele Succi

    A mio modesto parere credo che il problema maggiore non sia nè il rendimento del fondo ne le commissioni di sottoscrizione o gestione. Il vero parere degli strumenti finanziari è l’utilizzo che se ne fà. Mi spiego meglio. Prendiamo ad esempio i fondi azionari Anima. Per anni sono stati i fondi con i migliori rendimenti (15% annuo) ma aimè il risultato per i clienti è tutt’altra cosa. Da un’esame fatto sempre da Anima è emerso che nonostante l’ottima performance dei loro fondi l’80% dei sottoscrittori ha avuto un rendimento negativo. Penso sia lampante la motivazione di tali risultati. Gli invesitori non sono in grado di gestire gli strumenti che sottoscrivono vuoi per ingnoranza vuoi per l’emotività. Penso allora che piuttosto di cercare le cause dei risultati deludenti nelle commissioni sia il caso di dare una cultura finanziaria al nostro paese. Inoltre ritengo che un invesitore abbia il diritto di essere assitito da un professionista competente. Nel nostro paese la cultura di utilizzare un Consulente od un Promotore ancora non è presente ma ritengo sia necessario appoggiarsi a tali figure in futuro.

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