I commenti alla notizia d’una nuova revisione del T.U. del 2008 in materia di sicurezza sul lavoro evidenziano che, al di là dell’enfasi sulla questione delle pene, alle istituzioni pubbliche si chiedono azioni di carattere sostanziale e non una super-produzione normativa, che spesso comporta adempimenti solo cartacei. L’accento cade sulla formazione, sulla cultura della sicurezza, sulla capacità organizzativa della pubblica amministrazione nell’attività di vigilanza. Si tratta di un segnale preciso della distanza che separa l’intervento legislativo che si preannuncia rispetto alle reali attese dei lavoratori, datori di lavoro e operatori del settore della sicurezza.
È uno strano destino quello della sicurezza del lavoro: terreno di tante convergenze ideali e di altrettante divergenze nella realtà concreta. Tutti concordano sul fatto che le norme sono molte, forse troppe per assicurare un’effettiva applicazione, eppure si continua a produrre normazione. Senza considerare che le ripetute modifiche legislative, se da un lato possono migliorare l’apparato giuridico formale, dall’altro comportano costi elevati in termini di certezza del diritto, di prassi degli organi di vigilanza e di contenzioso giudiziario.
Tutti sono persuasi che le pene abbiano un valore soprattutto simbolico e di coazione psicologica all’osservanza degli obblighi di prevenzione, eppure si continua ad intervenire sull’apparato sanzionatorio penale, alzando o abbassando limiti minimi e massimi. Tutti sono convinti che bisogna privilegiare gli investimenti in formazione, informazione, cultura della sicurezza: a questi principi s’è ispirata la legislazione a partire dalla metà degli anni ’90, ma a distanza di 15 anni dal d. lgs. n. 626/94 si deve constatare che non c’è abbastanza formazione e una vera cultura è ancora in gran parte da costruire. Da questo punto di vista, certo non aiuta la sovrabbondanza e la complessità della normativa; la formulazione di regole che, anziché rivolgersi chiaramente ai diretti destinatari (spec. datori di lavoro e lavoratori), spesso sono comprensibili solo da pochi specialisti. 
Tutti reclamano più attività di vigilanza e maggiori controlli, eppure si progettano procedure di certificazione e di attestazione che consentano di evitare o ridurre l’incidenza o la frequenza dei controlli. Non c’è dubbio che le procedure di certificazione possano servire a sviluppare buone prassi e modelli organizzativi virtuosi in materia di sicurezza, così come i sistemi di certificazione della qualità dei prodotti e dei processi produttivi sono idonei a selezionare le “buone” imprese, che però – non va dimenticato – rimangono pur sempre sottoposte alla verifica ed eventualmente alla sanzione del mercato. La certificazione ai fini della sicurezza intende creare un vantaggio competitivo rispetto alle imprese che ne sono sprovviste e un affidamento pubblico che dovrebbe giustificare una minore esigenza di controllo, ma allora non si comprende perché, secondo la modifica dell’art. 27 T.U. del 2008, il possesso di tale certificazione non rappresenti più un requisito indispensabile, solo “privilegiato”, per la partecipazione a gare d’appalto pubblico e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi pubblici. Sembra di capire, cioè, che i sistemi di certificazione relativi alla sicurezza non prevedano sanzioni in termini di mercato né tanto meno verifiche pubbliche, anche perché dapprima s’era pensato di affidare all’INAIL i concreti poteri accertativi, ma il riferimento pare scomparso dallo schema di decreto approvato del Governo.

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