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IL DILEMMA DEL BANCHIERE NELLA STRETTA CREDITIZIA

In Italia le imprese ricorrono ai prestiti di più banche. Ma se si diffonde l’idea che un’azienda è in difficoltà, tutti gli istituti bancari chiedono contemporaneamente il rientro dei fidi. Condannandola al fallimento. La soluzione si può trovare in forme di coordinamento fra le banche creditrici. Diventerebbe più facile anche la ristrutturazione del debito. Come è accaduto, ad esempio, per la Fiat. Il rischio è la collusione fra le banche, con un rialzo congiunto dei tassi di interesse praticati. Un aspetto sul quale giocano un ruolo importante le autorità di controllo.

 

Il credito alle imprese si sta contraendo, come attestato dal governatore Draghi nel suo intervento all’assemblea dell’Abi dell’8 luglio. Gli ha fatto eco il presidente della Consob Cardia, sottolineando che le maggiori difficoltà riguardano le piccole e medie imprese.
Tagli al credito da parte di un settore bancario in difficoltà aggravano una situazione già pesante. Molte imprese sono state colte dalla crisi a metà di un processo di ristrutturazione che ha richiesto consistenti investimenti. Il calo di domanda e le restrizioni creditizie possono trasformare crisi temporanee di liquidità in fallimenti di imprese con buoni progetti industriali che, passata la crisi, potrebbero tornare a fare utili e creare occupazione: non sempre si tratta di distruzione creativa. Capire le ragioni alla base del credit crunch è il primo passo per porvi rimedio. Dipingere i banchieri come irresponsabili a cui non importa niente del destino dei loro clienti, come fa spesso il ministro Tremonti, può essere politicamente conveniente, ma non aiuta ad affrontare concretamente il problema. Meglio ragionare sulle specificità del sistema produttivo italiano e su come queste possano amplificare gli effetti delle restrizioni al credito alle imprese. Una di queste è il multiaffidamento.

MULTIAFFIDAMENTO E FIRM RUN

Le imprese italiane si indebitano contemporaneamente con più banche: quelle con meno di 500 addetti prendono prestiti mediamente da cinque banche, contro le due negli Stati Uniti. (1)
Il multiaffidamento può costituire un fattore di amplificazione della stretta creditizia. Se una banca è la principale prestatrice di un’impresa, considererà attentamente le conseguenze delle politiche di credito verso quell’impresa. Chiedere il rientro dei fidi può equivalere a farla fallire per una crisi di liquidità: in quel caso, anche i debiti verso la banca diventerebbero difficili da riscuotere. Se invece la banca detiene solo una quota minoritaria del debito, allora l’incentivo a chiudere le linee di credito è più forte. Poiché la quota è piccola, chiedere la restituzione dei debiti non porta necessariamente al fallimento. Ancora più importante, se la banca si aspetta che anche gli altri istituti chiederanno il rientro dei fidi, allora l’incentivo a farlo per prima, quando l’impresa ha ancora la possibilità di ridurre la propria esposizione bancaria totale, diventa irresistibile. Ma se tutte fanno questo ragionamento, tutte chiederanno il rientro con conseguenze negative generali: l’impresa fallirà e le banche vedranno andare in sofferenza i propri crediti. La situazione è l’immagine speculare di un bank run: in quel caso, i depositanti temono che la banca non sia in grado di restituire i depositi e si precipitano a ritirarli, facendo fallire la banca anche se è solvente. Analogamente, se si diffonde l’idea che l’impresa multiaffidata possa avere problemi a far fronte ai propri debiti, le banche hanno incentivo a chiedere il rientro dei fidi, anche se l’impresa è solvente, generando un “firm run”. Come nel caso dei depositanti, la banca agisce in modo razionale: siamo di fronte a un classico caso di fallimento di mercato, dovuto alla mancanza di coordinamento fra le banche, che, come è giusto che sia in un regime concorrenziale, agiscono senza consultarsi fra di loro. Non servono banchieri rapaci per spiegare la restrizione creditizia. Basta il “dilemma del prigioniero”.

COORDINAMENTO FRA BANCHE

È anche possibile che un’impresa multiaffidata incontri minori difficoltà a sopperire alla chiusura di una linea di credito ottenendo credito addizionale da una delle banche di cui è già cliente. La rilevanza del “firm run” è quindi tutta da verificare nei dati, ad esempio con la Centrale dei Rischi, che permette di controllare se, a parità di altre condizioni, le imprese multiaffidate soffrono maggiormente di una riduzione del credito. Qualche evidenza indiretta suggerisce che il fenomeno potrebbe essere importante. Sempre nel suo discorso all’Abi, Mario Draghi ha sostenuto che “È particolarmente intensa la decelerazione dei prestiti erogati dai gruppi bancari maggiori”. È possibile che le grandi banche siano più interessate dal multiaffidamento, mente le piccole a vocazione locale tendono di più a essere il prestatore principale di imprese locali. Se è così, è necessario pensare a politiche che contrastino la tendenza. Nel caso dei depositi, il rischio di un bank run, diventato concreto nell’autunno scorso, è scongiurato dall’assicurazione pubblica sui depositi. Assicurare l’attivo di una banca non è possibile, perché creerebbe problemi di azzardo morale enormi: senza più rischi, le banche non avrebbero nessun incentivo a monitorare la qualità della loro clientela. Come ci insegna la teoria economica, il dilemma del prigioniero si può risolvere attraverso forme di coordinamento. Una differenza fondamentale con il caso dei depositi è che le banche affidatarie sono un numero limitato, cinque in media. Forme di coordinamento fra le banche creditrici sono quindi possibili e potrebbero evitare il firm run. Potrebbero anche rendere più facile ristrutturare il debito dell’impresa, evitando comportamenti opportunistici da parte di singole banche. Episodi di questo tipo sono numerosi e hanno portato a buoni risultati. Il caso più noto è quello della ristrutturazione del debito Fiat da parte di un pool di banche, che ha permesso all’impresa di rilanciarsi. Estendere su larga scala questo metodo è complicato, perché richiede il coordinamento delle scelte creditizie rispetto a migliaia di imprese. Ci sono inoltre rischi di collusione fra le banche, che potrebbero utilizzare il coordinamento per alzare congiuntamente i tassi di interesse praticati all’impresa. In questo momento, tuttavia, la preoccupazione principale è sulla disponibilità di credito più che sul suo prezzo. Le autorità competenti possono rivestire un ruolo importante per facilitare il coordinamento e per monitorare eventuali accordi collusivi a danno delle imprese.
L’alternativa – una gestione individuale e non coordinata dei flussi di credito – potrebbe avere conseguenze molto pesanti sul sistema produttivo italiano.

(1) Enrica Detragiache, Paolo Garella and Luigi Guiso, “Multiple versus Single Banking Relationships: Theory and Evidence”, The Journal of Finance, Vol. 55, No. 3 (Jun., 2000), pp. 1133-1161.

Foto: Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia. Copyright © European Central Bank.

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  1. Franco A.Grassini

    il coordinamento giustamente suggerito da Schivardi incontra almeno due ostacoli. Il primo formale deriva da eventuali azioni antitrust. Quello sostanziale è che le banche tenterebbero di scaricare il rischio nei casi più difficili sulle altre banche partecipi al coordinamento. Forse una via d’uscita potrebbe essere rappresentata da un incentivo fiscale alle banche che assumano il ruolo di " main bank" assumendo su di sé, preferibilmente con nuove erogazioni. il 60/70 per cento dei crediti di un’azienda. Una soluzione del genere avrebbe anche il pregio di rafforzare le banche locali che non godono di economie di scala e rafforzerebbe la concorrenza.

  2. Andrea Giovannini

    Lo scenario delineato è verosimile e come tale preoccupante. Una forma di coordinamento – per le imprese più piccole e quindi più esposte – può essere rappresentata dall’attività specifica dei "consorzi fidi" locali, spesso utilizzati impropriamente dalle stesse banche creditrici per opportunistiche e solitarie manovre di riduzione di esposizioni ed ampliamento di garanzie.

  3. sandro bonetti

    Se il Ministro Tremonti dipinge i banchieri come irresponsabili cui non importa nulla del destino dei loro clienti, ha tutte le ragioni per farlo. Ricordiamoci che nel 1929 le banche si arricchirono enormemente con i pignoramenti, accumulando immobili, terreni e indusatrie in un momento di forte crisi dei relativi mercati, a prezzi di realizzo, a fronte di una moneta che perdeva potere di acquisto e non era più di tanto conveniente riscattare. Se il rimborso del debito porta del capitale che è privo di potere di acquisto, il creditore ha tutto l’interesse provocare dei fallimenti e farsi ripagare con beni reali, piuttosto che con della carta che perde continuamente valore. La banca può partecipare alle vendite all’incanto con delle società immobiliari o società veicolo dedicate, nulla vieta al creditore di essere anche acquirente dei beni. ed è quanto accade.

  4. Antonio Aghilar

    Problema scottante e di certo non nuovo, quello del rapporto difficile Banche-PMI credo vada analizzato sotto un duplice aspetto: da una lato quello di una "scarsa propensione al rischio" delle nostre Banche, virtù(?) che se certo ha salvato (non del tutto) le nostre Banche dalla bufera finanziaria, forse è stata fin troppo elogiata, essendo la mancanza di "venture capital" proprio il problema più atavico (e grave…) del nostro tessuto imprenditoriale, sottocapitalizzato…da sempre. E così abbiamo un topo che si morde la coda: da un lato un sistema bancario refrattario al rischio e dall’altro un sistema produttivo sottocapitalizzato che giustifica (e se non altro perpetua…) l’atteggiamento di forte "non condivisione" del rischio da parte delle banche: da qui la tradizione dei "multiaffidamenti" e le loro esorbitanti commisioni che sono "giustificati" (fino a che punto?) dalla sottocapitalizzazione delle imprese ma che, al contempo, la alimentano…Come se ne esce? E se si desse più attenzione ai confidi?

  5. Alberto Pozzolo

    Concordo con l’analisi del Prof. Schivardi sulla possibilità di un firm run da parte delle banche. Assai più compicate da realizzare mi paiono le soluzioni proposte. Nel caso di imprese di piccole e medie dimensioni dubito che le banche siano disposte a partecipare ad accordi nei quali l’informazione privata detenuta da ciascun istituto è assai elevata e gli incentivi a socializzarla sono molto bassi. Nel caso della FIAT il ruolo delle soft information era assai meno rilevante. Poiché le esigenze di liquidità delle imprese sono spesso al margine rispetto ai prestiti complessivi, una banca con un sufficiente grado di capitalizzazione e le capacità di valutare correttamente la solidità dei propri clienti dovrebbe comunque avere un incentivo a concedere un prestito, eventualmente compensando i tagli operato dali istituti con minore capitalizzazione e minori interessi nell’impresa: è il mestiere dei bravi banchieri, ai quali ha fatto riferimento anche il Presidente dell’ABI Faissola nella sua relazione.

  6. fc

    Per le grandi banche, iniziare un processo di coordinamento con altre banche per un piccolo cliente (che non è la Fiat!) è troppo costoso. Per la piccola banca, per il quale il piccolo cliente potrebbe però essere un cliente molto importante (proprio perchè la banca è piccola), il discorso può essere diverso. 2) le grandi banche, più delle piccole banche, valutano ormai i piccoli crediti con metodologie quasi esclusivamente quantitative (cf. Basilea II). Le procedure interne delle grandi banche spesso non prevedono che per piccoli crediti vi sia un "ricorso" ad un livello organizzativo superiore, se l’output del modello quantitativo è negativo. Nel corso degli ultimi anni le grandi banche hanno pesantemente deprofessionalizzato la propria rete, specialmente per quanto riguarda le imprese. I modelli adottati dalle grandi banche, tutti simili tra loro, sono stati influenzati dal pensiero delle grandi case internazionali di consulenza che vedevano nell’aumento del ROE, del prezzo di borsa (e, incidentalmente, del bonus dei manager), l’obiettivo principale da raggiungere. In questa ottica, la rete doveva diventare una forza vendita, altamente automatizzata ed a basso costo ma con scarsissima autonomia ed ancor più scarso peso nel processo di valutazione del rischio credito. Le piccole banche, non hanno compiuto tutto questo processo. Tutto questo non serve a concludere che un modello di piccole banche regionali è meglio di poche grandi banche nazionali o internazionali, ma può servire a capire la differenza dei comportamenti ed anche a stimolare una riflessione su come le grandi banche dovrebbero cambiare nei prossimi anni.

  7. Giuseppe G

    L’articolo propone un ragionamento interessante e un possibile correttivo a un fallimento di mercato. Ma siamo sicuri che un fenomeno di questo tipo possa spiegare il credit crunch? Ad esempio, qual è la situazione italiana rispetto ad altri paesi meno intressati dal multiaffidamento? Mi chiedo inoltre se non esistano altre soluzioni a problemi di questo tipo, oltre al coordinamento. Mi sembra comunque una strada più utile da seguire per affrontare il problema rispetto agli accorati appelli/inviti/minacce ai banchieri a continuare ad erogare credito che costituisce il pilastro della politica del governo.

  8. gabriele ponte

    I problemi delineati nell’articolo del Prof. Schivardi nascono anche da una progressiva spersonalizzazione del rapporto con il cliente posto in essere dalle banche (sopratutto le più grandi) negli ultimi tempi. Sembra quasi che i vertici bancari abbiano deciso di spezzare progressivamente i rapporti di reciproca conoscenza e stima che un tempo legavano l’imprenditore con il dirigente della filale della banca. Un rapporto asettico, basato solo ed esclusivamente sui numeri (Basilea 2), stà progressivamente togliento ai funzionari bancari quella capacità di conoscere e capire il cliente. E’ il percorso che hanno fatto le Assicurazioni, salvo ora tornare a pubblicizzare la tal compagnia che ti affida al consulente personalizzato. Il problema per gli istituti bancari sarà che una volta depauperata la professionalità e la capacità dei propri funzionari a interagire con i clienti, dovranno poi investire montagne di soldi per recuperare.

  9. Andrea Minazzi

    Il problema che caratterizza le imprese italiane è spesso insito nella struttura sbilanciata del debito e della sua composizione. Credo che la banca dovrebbe far meglio attenzione a quanto della propria esposizione creditizia vada al finanziamento del circolante e quanto agli investimenti. In un periodo di allungamento dei tempi di incasso ed inasprimento dei ‘cattivi pagatori’, si assiste non solo ad un problema di liquidità ma anche a nuove richieste di affidamenti per il finanziamento delle attività correnti in un quadro complessivo di incertezza. Il fallimento di mercato in parte risiede e si concretizza nello sbilanciamento delle dilazioni di pagamento di tipo commerciale a favore dei soggetti con maggiore potere contrattuale.

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