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PERCHé IL PREMIO DI PRODUTTIVITÀ È SBAGLIATO

Il dibattito sulle proposte di partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese può anche essere confuso, c’è però un elemento comune a tutte, che sembra indispensabile per farle decollare: l’incentivo fiscale o contributivo. Prima ancora di sapere perché e cosa si vuole incentivare. Si conferma la tendenza a ritenere che il sistema fiscale (o contributivo) possa essere manipolato con interventi estemporanei per le finalità più diverse, senza che la struttura intera del prelievo, nelle sue caratteristiche di coerenza, e quindi di equità ed efficienza, ne risenta.

Il dibattito che si è sviluppato attorno alla partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese appare alquanto confuso. Non sono sempre ben distinte le varie proposte, contemplate invece nel disegno di legge bipartisan coordinato da Pietro Ichino (che si occupa anche di diverse ipotesi di partecipazione al capitale delle imprese), né sono opportunamente valutate le diverse implicazioni per lavoratori e datori di lavoro di ciascuna di esse.
Vi è però un elemento comune che sembra essere considerato da tutti un ingrediente indispensabile per fare decollare ciascuna di queste forme di partecipazione: l’incentivo fiscale e/o contributivo.
È certamente un modo singolare di procedere: considerare indispensabile un incentivo prima ancora di sapere perché e cosa si vuole incentivare. Si conferma inoltre la tendenza, che abbiamo più volte stigmatizzato anche su questo sito, a ritenere che il sistema fiscale (e anche quello contributivo) possa essere manipolato con interventi estemporanei per le finalità più diverse, senza che la struttura intera del prelievo, nelle sue caratteristiche di coerenza, e quindi di equità ed efficienza, ne risenta.

LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI SOTTO FORMA DI PREMI DI RISULTATO

Un esempio utile per spiegare questa affermazione è dato da quella particolare forma di  partecipazione dei lavoratori ai profitti di impresa per la quale già oggi esistono incentivi: la partecipazione che assume la forma, come vedremo tutt’altro che ben definita, di “premio di  risultato”.
Gli incentivi a favore dei premi di risultato, già previsti dal protocollo sul welfare del 2007, siglato  dall’allora governo Prodi e dai sindacati, riguardano sgravi sia contributivi, sia fiscali.
Lo sgravio contributivo consiste nell’includere la retribuzione connessa ai “premi di risultato” nell’imponibile valido a fini previdenziali (fino a un massimo del 5 per cento della retribuzione complessiva) prevedendo al contempo una fiscalizzazione (e cioè un finanziamento attraverso la fiscalità generale) dei contributi, totale per i lavoratori e di 25 punti per i datori: ossia su quella parte di retribuzione non si pagano per intero i contributi, ma al contempo la contribuzione virtualmente dovuta su di essa concorrerà a determinare la futura pensione. La norma è ancora in vigore, ma vi è un tetto quantitativo di spesa e lo sgravio va a chi è più veloce a inoltrare per via telematica la domanda. In sede di prima applicazione (2008) più di un terzo dei richiedenti con contratto aziendale sono rimasti esclusi. Si è trattato insomma di una delle tante “lotterie” come il bonus ricerca o come rischiano di essere i rimborsi Irap.
È però evidente che l’introduzione di un gap fra l’aliquota di computo delle pensioni e l’aliquota effettivamente versata, il cui finanziamento è posto a carico della fiscalità generale, viola il principio base del sistema contributivo a cui è improntato il nostro sistema previdenziale: la correlazione fra la prestazione e la contribuzione.
Per quanto riguarda l’incentivo fiscale, si è passati da una detrazione dall’Irpef del 23 per cento delle somme percepite (con un tetto di 150 milioni), con il governo Prodi nel 2007, a un’imposta, sostitutiva dell’Irpef, del 10 per cento, con il governo Berlusconi, nel 2008. Quest’ultimo incentivo è tuttora in vigore, per il 2009, limitatamente ai premi erogati nel settore privato (nel secondo semestre del 2008 riguardava anche gli straordinari), fino a un massimo di 6 mila euro, e sempre che la retribuzione annua 2008 non abbia superato 35mila euro. L’ipotesi di rendere permanente questa agevolazione accomuna molti dei contributi emersi nel dibattito.
Anche l’accordo tra Confindustria e sindacati (non sottoscritto dalla Cgil) del gennaio 2009 prevede incentivi fiscali e contributivi permanenti.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare come tali incentivi possano rendere arbitrario e quindi iniquo il prelievo sul reddito. Un ulteriore rischio, molto grosso, è che, pensati e quindi anche giustificati inizialmente come stimolo alla crescita della produttività, tali incentivi vadano invece a beneficio di incrementi retributivi che possono facilmente sostituirsi ai normali incrementi contrattuali, rendendo possibili abusi che li porterebbero a configurarsi, soprattutto una volta che fossero resi permanenti, come incentivi all’elusione più che a una contrattazione di secondo livello che premi la produttività dei dipendenti.
Il rischio si tradurrebbe in certezza se venisse confermata la normativa attualmente in vigore, che è molto lasca per quanto riguarda l’identificazione delle somme a cui si applica l’agevolazione. Leggendo le circolari n. 49 e n. 59 dell’Agenzia delle entrate (2008) si scopre infatti che “non devono essere necessariamente previste in contratti collettivi, ma possono anche essere previste in modo unilaterale dal datore di lavoro”. Non è neppure necessario che gli incrementi di produttività, innovazione, efficienza a cui si riferiscono siano “nuovi e innovativi rispetto al passato, (…) né superiori a quelli ottenuti in precedenti gestioni”. Di fatto “dal novero delle somme agevolate sono unicamente esclusi quegli importi stabilmente riconosciuti in misura fissa che sono entrati nel patrimonio del lavoratore (come ad esempio, il superminimo individuale)”.
Il disegno di legge Ichino, opportunamente, sembra voler prevedere regole più pregnanti per questa forma di partecipazione dei lavoratori, e non contempla alcun incentivo fiscale. Per quanto riguarda gli aspetti contributivi, sempre lo stesso Ddl prevede poi di tornare alla situazione precedente il protocollo sul welfare del 2007: le somme non concorrerebbero a determinare l’imponibile, a fini della contribuzione previdenziale; non si pagherebbero dunque contributi su tali somme, ma esse non sarebbero neppure rilevanti ai fini della determinazione dei trattamenti pensionistici futuri.

UNA SCORCIATOIA

Prima di farsi belli con la carota degli incentivi sarebbe quanto meno necessario che i proponenti chiarissero:

a)      Perché servono.
b)      Come devono essere articolati, in modo tale da non rendere totalmente irrazionale il regime di prelievo.
c)      Come si intende valutarne il costo per la collettività e l’efficacia nel tempo rispetto agli obiettivi a cui sono preposti.

Ma è meglio farsi poche illusioni: già da tempo sappiamo che il ricorso agli “incentivi fiscali” è la scorciatoia più facile e di maggiore impatto in termini di annuncio per dare l’illusione di sapere offrire soluzioni ai problemi che di volta in volta si pongono.

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  1. MD

    "Si conferma inoltre la tendenza, che abbiamo più volte stigmatizzato anche su questo sito, a ritenere che il sistema fiscale (e anche quello contributivo) possa essere manipolato con interventi estemporanei per le finalità più diverse, senza che la struttura intera del prelievo, nelle sue caratteristiche di coerenza, e quindi di equità ed efficienza, ne risenta." Grazie per la denuncia! Si tratta in fondo di questo: l’idea che le competenze, la capacità di dominare una materia, di conoscerne le pieghe, i risvolti più sottili, non conti niente e che chiunque possa mettere le mani su qualunque cosa. Che gli studi e l’esperienza, nulla valgano e a niente servano. Unica eccezione: ancora in pochi si farebbero operare al cuore da un infermiere o da un fiscalista! Sebbene purtroppo anche in questo campo qualcuno abbia abbandonato cure sperimentate contro il cancro in favore di nuove e meno sperimentate terapie. Un problema di asimmetrie informative, cui contribuiscono lo svilimento e la perdita di credibilità dei titoli di studio e delle professioni, a loro volta determinato dall’esasperazione del meccanismo corporativo e della cooptazione per l’allocazione delle risorse.

  2. Lucio Zaltron

    Premesso che non sono un esperto di economia ma un semplice lavoratore dipendente e che conseguentemente il mio linguaggio dozzinale non si addice a dare una risposta a chi ,almeno per me, comunica il suo pensiero in modo incomprensibile … le ragioni che ritengo sufficienti per gli incentivi ,sono : – generare nei dipendenti una sana competizione con un ritorno virtuoso positivo nelle aziende ; – aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori attualmente compromesso in modo esagerato ; – responsabilizzare i lavoratori coinvolgendoli preventivamente sulla scelta dei criteri oggettivi che ne determinano l’assegnazione. Credo che la forma applicativa debba coinvolgere sia il datore di lavoro (contributivo) che lo stato (fiscale) al fine di una più equa ripartizione di oneri e controlli etici reciproci conseguenti.

  3. GERRY

    Ma di quali utili parliamo nelle piccole e medie imprese? Ancora si parla di incentivi? E’ necessario ridurre il prelievo contributivo e fiscale in modo strutturale e duraturo. Distrubuendo il prelievo sulla colletività tutta.
    Il minor costo del lavoro incentiva il datore di lavoro all’assunzione con contratti regolari di lavoro. Di questo non si sente mai parlare.

  4. roberto romano

    Incentivi fiscali per lo sviluppo, per finanziare gli investimenti o la ricerca e sviluppo, per "distribuire reddito"? L’Italia è proprio un paese strano e poco attento. Sull’efficacia industriale ed economica degli incentivi sono in pochi a discuterne. Proviamo a fare un esempio. Gli incentivi fiscali per l’energia solare hanno stimolato la domanda aggragata, fino a superare la media euroepa, ma la produzione dei pannelli solari è realizzata per il 99% all’estero e solo un misero 1% in Italia. L’unico vantaggio è per gli installatori dei pannelli solari, ma con un ritorno economico pari a un terzo di chi realizza questo bene. Come dire, la politica industriale non si realizza con gli incentivi, ma con interventi diretti dello stato nella generazione di competenze che il mercato non può realizzare. Almeno per il tessuto produttivo nazionale. Penso che la convergenza di destra e sinistra sugli incentivi sia figlia di un pensiero economico che ha rinunciato a Keynes, cioè il pubblico da agente economico è diventato l’ultimo baluardo dei "fallimenti del mercato". Pareto ha insegnato molto su questo, ma le lezioni di Sraffa e Robinson dicono altro.

  5. marcello battini

    Sembra che sia largamente maturato il concetto che, per una società giusta, occorrono regole univerali, non riguardanti settori specifici, anche perchè, in quest’ultimo caso, la loro gestione è assai più onerosa. Poi, in concreto, si continua con normative ad personam e settoriali. Bisognerebbe finire con queste storie perchè se la barca affonda anche noi tutti afonderemo insieme alla barca. O no?

  6. GiovanniVolpe.it

    Nei Paesi più avanzati, la partecipazione agli utili dei lavoratori è un fatto acquisito da molti anni. Il salto di qualità, di cui necessita la nostra Italia è principalmente culturale. Per un sistema economico efficiente, è di primaria importanza oltre alla fiducia, l’equilibrio, purtroppo attualmente è eccessivamente sbilanciato a favore di una parte.

  7. Giorgio A.

    Sarebbe bastato mantenere la legislazione fascista sulla socializzazione delle imprese e anche noi in Italia avremmo una tradizione di compartecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione. Invece i partiti antifascisti, già il 25 aprile 1945, non hanno trovato niente di meglio da fare che abrogare tali norme, salvo poi coprirsi con la foglia di fico della vacua formula “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” inserita in Costituzione. I partiti c.d. democratici sono quasi settantanni che prendono in giro i lavoratori, ancora di più ora che fingono di criticare le politiche ultraliberiste di Monti, ma poi le votano in parlamento.

  8. Stefano

    Dott.ssa Guerra perché le erogazioni effettuate sulla base della contrattazione collettiva sono elusive? Vede spesso nella sua vita professionale accordi tra imprenditore e lavoratori per far pagare meno il lavoratore? Io no. Le circolari che cita del 2008 sono superate come saprà dall’art.53 della DL 78/2010 che prevede obbligatoriamente che le somme per essere detassate siano erogate su base contrattuale (che prevede ovviamente il raggiungimento di parametri oggettivi per la loro erogazione non lasciati al libero arbitrio altrimenti i sindacati non li firmano). Lei parla di costo della collettività ma ragioniamo se aziende e lavoratori si accordano per prevedere che somme detassate siano investite anche per il welfare aziendale (asili nido, assistenza agli anziani, trasporti) c’è un danno per la collettività ? lo Stato non risparmia sui costi del SSN e i Comuni non hanno un sollievo per le casse vuote? Se premio i lavoratori che mi rendono di più con agevolazioni fiscali, dandogli un netto più elevato da spendere (quindi futura maggiore IVA 22% incassata dallo Stato) c’è un danno?

  9. Rino

    Non sono sicuro che l’incentivo defiscalizzzato sia erogabile solo se contrattato, ma ricordo che quando venne istituito ebbi l’impressione che l’obiettivo fosse peoprio quello di scavalcare i contratti nazionali e lasciare ampia facoltà alla contrattazione aziendale. Come è noto, data la dimensione media delle imprese italiane che sono senza rappresentanza sindacale, le erogazioni possono facilemnte essere in capo solo all’azienda. Troverei anche interessante spostare la partecipazione dei lavoratori dalla semplice produttività (costo del lavoro per unità di prodotto) verso la partecipazione agli utili che avrebbe due efetti positivi. Il primo è che obbligherebbe il lavoratore tramite la su arappresentanza a indagare il totale delle attività di impresa che ne consolidano il bilancio. La seconda è che anche i risultati delle attività finanziarie oggi molto pesenti in ogni impresa possano essere ripartiti tra i lavoratori. Si può immaginare una soluzione binomia in cui la parte di produttività viene erogata se raggiunta mentre quella totale solo se positiva. La defiscalizzazione va ridotta al minimo e selezionata in base a elementi congiunturali.

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