Che le società di public service degli enti locali siano state utilizzate per scopi non sempre coerenti con gli intenti normativi non è un mistero. I principali difetti sono almeno due: l’elusione dei vincoli alla gestione del personale ed alle connesse spese, nonchè un’incidenza impropria nel mercato.
Le recenti riforme, tuttavia, è evidente non colgano nel segno. Come troppo spesso accade, il legislatore interviene in termini generali, caricando di divieti o vincoli l’azione di tutti, invece di attivare strumenti per colpire e sanzionare comportamenti non corretti. Sarebbe stato certamente più meritocratico individuare selettivamente quali enti locali e quali società hanno eluso norme e distorto il mercato, invece di lasciare in piedi gli apparati, ma prevedendo regole e appesantimenti. Col pericolo, per altro, che chi ha eluso prima, lo farà anche dopo.
Il tanto vituperato concorso viene considerato uno strumento meritocratico. E’ un bene che sia così. Ma, attenzione: la norma estende alle società la forma e le formalità. La sostanza del concorso, già difficile da garantire negli enti, potrebbe perdersi tra le molte altre fughe in avanti che appunto caratterizzano le società.
Per i cittadini e le finanze pubbliche è fondamentale contare sulla possibilità di ottenere dalle public utilities servizi efficienti a costi di mercato, o altrimenti rivalersi anche contro gli enti locali che le controllano. In  mancanza di strumenti finalizzati a misurare efficienza dei servizi, regole che estendono adempimenti burocratici sembrano fini a se stesse.
Quanto osserva il Battini è in larga parte condivisibile e, in realtà, è in linea con quanto affermato nell’articolo. Si è voluto, infatti, sottolineare l’antinomia tra il tentativo di dare efficienza all’azione amministrativa puntando su sistemi di gestione e valutazione assimilabili a quelli conosciuti nel privato, e la contestuale burocratizzazione di quei soggetti privati, a capitale pubblico, che invece quegli schemi avrebbero dovuto già utilizzare al meglio.
La circostanza, lo si ribadisce, che dal processo di "pubblicizzazione" del lavoro nelle public utilities restino fuori le società quotate rivela come lo stesso legislatore percepisca tale pubblicizzazione un appesantimento, dal quale ha voluto salvaguardare i capitali investiti in borsa. Sicchè, le società più grandi e ricche potranno continuare ad agire in una sorta di zona che diviene franca (con possibili clientelismi ed altri effetti distorsivi di contorno).
Il legislatore, allora, dovrebbe con chiarezza scegliere quale sia la strada da seguire, perchè le commistioni e gli ibridi portano con loro il rischio di rassumere gli aspetti negativi dei modelli di base.
Ma, invece di cercare una convergenza virtuosa tra modelli gestionali o contratti collettivi, si creano continuamente ossimori: il pubblico privatizzato o il privato pubblicizzato.

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