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CDA PROIBITO PER DONNE E STRANIERI*

Emma Marcegaglia e Diana Bracco entrano nella classifica delle cinquanta donne-manager più potenti nel mondo stilata dal Financial Times. Basta questo per sostenere che la situazione delle dirigenti d’azienda è migliorata in Italia? Non proprio, perché nei consigli di amministrazione italiani il numero delle donne resta desolatamente basso. E non solo: anche i consiglieri stranieri sono molto pochi. Eppure, gli studi empirici indicano una relazione positiva significativa tra diversità del board e performance societaria. E allora ben vengano le quote rosa.

 

Nell’autunno del 2007 nessuna italiana compariva nella classifica Top 25 businesswomen in Europe del Financial Times . Nella FT Top 50 women in world business del 25 settembre 2009 appaiono invece Emma Marcegaglia e Diana Bracco: un fatto che sembrerebbe suggerire enormi passi in avanti in un intervallo assai breve. (1)

IL PROFILO DEI CONSIGLIERI

Sfortunatamente, la composizione dei consigli d’amministrazione delle società del Mib30 mostra che la situazione rimane critica. Su 466 cariche consiliari, soltanto undici sono ricoperte da donne. (2) In ben ventidue società non siede nessuna donna, mentre soltanto in due – Fininvest e Saipem – il peso femminile supera, di poco, il 10 per cento del consiglio. Marina Berlusconi, occupa due incarichi (Fininvest e Mediobanca), dunque le amministratrici sono solo dieci. Hanno però un profilo demografico ed educativo interessante: sono più giovani (meno di 52 anni di media per le otto amministratrici di cui disponiamo dell’età) e qualificate (otto laureate sulle nove per cui abbiamo il dato) rispetto alle élite italiane in generale. Altrettanto interessante notare come in questo piccolo campione ci sia una donna straniera, Ana Maria Botìn, che siede nel consiglio di Generali.
L’altra caratteristica della governance delle grandi società italiane è infatti la presenza ancora modesta di amministratori stranieri, in particolare tra gli indipendenti. Il dato grezzo di 67,5 posizioni sempre su 466 cariche appare significativo, ma è fuorviante: in alcuni casi, soprattutto nelle banche (Carige, Mps, Mediobanca), gli amministratori non-italiani rappresentano gli interessi di azionisti esteri e si può sostenere che pertanto non apportano un contributo addizionale di esperienza e di contatti rispetto a quello che già consegue all’internazionalizzazione della proprietà. In altri, invece, la presenza di qualche manager straniero in posizioni apicali è il riconoscimento dell’elevato grado di internazionalizzazione produttiva, vuoi per la natura sui generis della proprietà (una famiglia italo-argentina per Tenaris, Goldman Sachs per Prysmian), vuoi per il ruolo delle acquisizioni all’estero nel permettere la crescita dimensionale (Lottomatica, Saipem e UniCredit, ma anche Generali). Amministratori indipendenti stranieri sono presenti in maniera significativa soltanto in Fiat – Roland Berger, René Carron e Ratan Tata – e Telecom – sempre Roland Berger e Jean Paul Fitoussi. (3) Oltre a Berger, tedesco, sono tre gli amministratori stranieri che siedono in più di un consiglio: il francese Antoine Bernheim (Generali e Intesa Sanpaolo), il tedesco Dieter Rampl (Mediobanca e UniCredit) e il tunisino Tarak Ben Ammar (Mediobanca e Telecom). In compenso, nei trenta principali consigli d’amministrazione italiani non si corre il rischio di incontrare un cinese, un brasiliano, un sudafricano, un giapponese e, con l’eccezione di Tata, un indiano. Fortunatamente, Franco Bernabè siede nel board di PetroChina, la maggiore società al mondo per capitalizzazione.
Perché questa situazione dovrebbe essere fonte di preoccupazione? Perché numerosi studi empirici trovano una relazione positiva significativa tra diversità del board, con presenza di donne, di stranieri e di determinate minoranze, e performance societaria. (4) Ma anche perché questi dati confermano che la scarsa mobilità delle élite italiane è un problema non solo generazionale, ma anche di background: tutti uomini, se possibile italiani.

QUOTE ROSA IN CDA?

C’è bisogno di un intervento di policy? In teoria solo la presenza di un fallimento di mercato lo può giustificare e quindi non quando i benefici vengono appropriati da azionisti abbastanza oculati da nominare board eterogenei. Alcuni benefici possono però non essere appropriabili, visto che il talento circola (o quantomeno dal punto di vista del benessere collettivo sarebbe desiderabile che circolasse) e una società per azioni deve necessariamente mettere in conto che una buona amministratrice può cambiare lavoro a un dato momento. Poche donne in cda equivale a ridurre l’insieme di risorse e di talenti a cui il paese può attingere per il proprio sviluppo.
Da ciò la sempre controversa questione delle quote rosa, tema che le recentissime vicende della giunta di Taranto dimostra essere di grande attualità anche nel mondo politico-amministrativo.
Una proposta di legge dell’onorevole Lella Golfo prevede di ripartire gli amministratori da eleggere in modo da assicurare l’equilibrio tra i generi. L’equilibrio si intenderebbe raggiunto quando il genere meno rappresentato, che in pratica è quello femminile, ottiene almeno un terzo degli amministratori eletti. In Francia un recente rapporto suggerisce di imporre quote in modo da portare la presenza femminile nei cda al 40 per cento entro sei anni, una misura che la sottosegretaria alla Famiglia considera come un “male necessario”. (5) Anne Lauvergeon, secondo il FT la terza businesswoman più importante al mondo, si è detta convinta della necessità di imporre quote, che pure precedentemente aveva definito umilianti. (6)
Se la critica che il meccanismo delle quote lede il principio del merito ha delle basi, numerosi studi mostrano l’importanza di fattori extra-economici – non necessariamente contrari al merito, ma sicuramente da esso distinti – nella selezione e socializzazione delle elite. Finché il gap tra l’Italia e il resto d’Europa, per non dire del mondo, rimane così ampio, vale la pena considerare l’introduzione di quote per le candidature femminili.

(1) Anche Fortune ha una classifica simile e nell’edizione 2008 vi appariva Marina Berlusconi.
(2) Si sono considerati soltanto i consigli d’amministrazione e si sono sommati consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione nelle banche che hanno adottato il sistema duale.
(3) Sergio Marchionne è conteggiato come straniero a metà, data la sua doppia cittadinanza. In realtà anche Paolo Rocca, che pure ha soltanto un passaporto italiano, può essere considerato come straniero a metà visto che ha passato una parte importante della sua vita in Argentina. Nella misura in cui anche la residenza all’estero è importante, vanno menzionati anche i casi di Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales, consiglieri indipendenti in UniCredit e Telecom.
(4)Per esempio Carter, Simkins e Simpson (2003), “Corporate Governance, Board Diversity, and Firm Value,” The Financial Review, 38/1; Virtcom Consulting (2008), Board Diversification Strategy: Realizing Competitive Advantage and Shareowner Value; Gregoric, Oxelheim, Randøy e Thomsen (2009), Corporate governance as a source of competitiveness for Nordic firms, Nordic Innovation Centre.
(5)“Parité économique: pour Mme Morano, les quotas sont « un mal nécessaire »,” Le Monde, 17 luglio 2009.
(6)“Areva chief in U-turn on female quotas,” Financial Times, 26/27 settembre 2009.

Nome membri donne stranieri   d% s%
A2A 18   0.0 0.0
ALLEANZA 12 1   0.0 8.3
ATLANTIA 15   0.0 0.0
BANCA MPS 12 1   0.0 8.3
BANCO POPOLARE 32   0.0 0.0
BANCA CARIGE 18 1 3   5.6 16.7
EDISON 13 4   0.0 30.8
ENEL 9   0.0 0.0
ENI 9   0.0 0.0
FIAT 18 3.5   0.0 19.4
FINMECCANICA 12 1   0.0 8.3
GENERALI 18 1 8   5.6 44.4
INTESA SANPAOLO 30 1 1   3.3 3.3
LOTTOMATICA 13 6   0.0 46.2
LUXOTTICA GROUP 15 1   6.7 0.0
MEDIOBANCA 23 2 6   8.7 26.1
MEDIOLANUM 14   0.0 0.0
MEDIASET 17 2   11.8 0.0
PARMALAT 11   0.0 0.0
BCA POP. MILANO 18 1   0.0 5.6
PRYSMIAN 12 4   0.0 33.3
SAIPEM 9 1 3   11.1 33.3
SNAM RETE GAS 9   0.0 0.0
SARAS 9   0.0 0.0
STMICROELECTRONICS 9 6   0.0 66.7
TENARIS 10 6   0.0 60.0
TELECOM ITALIA 15 5   0.0 33.3
TERNA 9   0.0 0.0
UBI BANCA 34   0.0 0.0
UNICREDIT 23 2 8   8.7 34.8
             
  466 11 67.5   2.4 14.5

 

* Le posizioni espresse nell’articolo sono attribuibili esclusivamente all’autore e non coinvolgono in nessun modo l’Ente per cui lavora.

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  1. AM

    Se si allarga il campione, pur includendo imprese di notevoli dimensioni, il risultato cambia, almeno per quanto riguarda la presenza straniera nei CdA. Conosco il campo bancario dove gli stranieri abbondano nei CdA. Anzi ci vorrebbe un auspicio per la reciprocità: avere cioè italiani come consiglieri indipendenti nei CdA bancari all’estero. Diversa è la posizione delle donne nei CdA bancari. Quì si sente la carenza del gentil sesso. Oggi però abbiamo una donna di alto valore in uno dei posti più ambiti del settore bancario, membro del Consiglio Superiore della Banca d’Italia. Speriamo che questa nomina apra la strada alla presenza femminile nei CdA bancari.

  2. Marco Giovanniello

    Se è ancora valida la premessa che una società per azioni debba avere per obiettivo i profitti e non il politically correct, sarei felice se l’ autore mi spiegasse in che modo posso aspettarmi un aumento dei profitti e dei dividendi dall’ introduzione di quote rosa nel cda. Vorrei anche che mi spiegasse il diverso effetto di peni e vagine all’ interno di un cda. La mia compagna ha una posizione di rilievo in un’ importante società quotata e personalmente sono orgoglioso che non l’ abbia ottenuta perché di sesso femminile. Nell’ azienda è anche a capo del progetto per promuovere le carriere femminili, cioè per rimuovere i non pochi ostacoli residui. Tuttavia le quote rosa sono ripugnanti e minano il requisito indispensabile della meritocrazia, già tanto labile in Italia.

  3. Michele Castelli

    Negli ultimi anni si sono susseguiti con sempre maggiore frequenza gli interventi a favore di una composizione dei CDA delle imprese più aperta alle donne, agli stranieri e in genere a competenze plurali. Non c’è dubbio che contribuiscano a migliorare il livello della discussione e ad approcciare i problemi con punti di vista originali. Ma nella maggior parte delle imprese italiane è proprio quello che non si vuole. I rappresentanti dei soci di riferimento delle imprese non vogliono che il manovratore sia disturbato, non vogliono intralci nella strategia che mettono a punto fuori dal CDA, che deve solo ratificare. Ecco quindi che in Italia ci sono pochi consiglieri stranieri e di personalità perché altrimenti andrebbero in qualche modo ascoltati e ciò potrebbe diventare pericoloso. Quelli che ci sono, inoltre, in alcuni casi, limitano i loro interventi perché più interessati ad esibire l’incarico nel proprio curriculum piuttosto che cercare di contribuire alla gestione d’impresa. Se si riuscisse a superare il provincialismo del c.d. capitalismo di relazione, allora sì che nel nostro paese l’economia potrebbe svilupparsi a tassi in linea con quelli europei.

  4. Diego

    Lo scorso anno ad Oslo è stata introdotta per legge una quota obbligatoria di almeno il 40% di management femminile nelle aziende pubbliche.

  5. mdamore

    In realtá, non é affatto chiaro che una presenza piú alta di donne nel board facciano aumentare la performance aziendale. Il problema nell´identificare questo effetto é che esiste un evidente problema di endogeneity. Gli unici (pochi) studi basati su una identitication strategy credibile non trovano alcun impatto significativo delle donne nella performance. Tuttavia, ci sono altri effetti interessanti che vanno tenuti in conto; ad esempio Adams, Ferreira (2008) dimostrano che le donne tendono ad assentarsi di meno e quindi fanno piú monitoring al CEO.

  6. Roberto Ertola

    Ho avuto per 4 anni un Direttore Generale donna, abbiamo perso decine di milioni di euro e ciò nonostante non abbiamo mai fatto un’ora di cassa integrazione e non abbiamo mai tagliato i costi se non i panettoni per i dipendenti a Natale. Sarà un eccezione che conferma la regola, ma anche stavolta non sono d’accordo con voi.

  7. Eleonia Bindi

    La prima selezione avviene nella famiglia potente di appartenenza, tranne eccezioni, le femmine sono ancora viste come sottoprodotti capaci solo di sposare e fare figli e perdere il cognome. La salvaguardia dei patrimoni avviene solo di padre in figlio ecco che, anche se inetti, si ritrovano nei CDA, in virtù di un familismo patriarcale che con la santa benedizione della chiesa continua a garantire il potere ai maschi.

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