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MA IL CAPITALISMO È ANCORA VIVO

La lezione che si può trarre da questa crisi è che le banche hanno costretto i governi a correre in loro soccorso. Non c’è dunque nessuna ragione perché non ricomincino a fare i loro giochetti. Per impedirlo si possono ipotizzare tre soluzioni: ridurre la grandezza dei guppi bancari, esigere l’aumento della loro capitalizzazione, pretendere un loro “testamento da vivo”, ovvero l’indicazione di come frazionarli in tanti piccoli istituti in caso di fallimento. Saranno comunque le scelte di Regno Unito e Stati Uniti a delineare il capitalismo finanziario del futuro.

 

Cosa è avvenuto nel mondo dal momento in cui la crisi finanziaria ha toccato il suo apice? Ricapitoliamo: fallimento di Lehman Brothers, fiore all’occhiello di Wall Street, seguito da crisi di panico, pari a quella del 1929. Iniezioni pubbliche di centinaia di miliardi di euro nei maggiori istituti finanziari statunitensi, ma anche europei. Alcune quasi-nazionalizzazioni a New York e Londra. Tutto seguito, ovviamente, da una recessione mondiale, di cui non si è ancora potuto misurare appieno i danni. Un avvenimento storico quindi, ma con quali conseguenze?

FRASI CELEBRI

È forse crudele, ma inevitabile, cominciare menzionando qualche “frase famosa” dell’anno scorso. Il 28 settembre 2008, a Tolone, Nicolas Sarkozy – annunciando una “rifondazione del capitalismo” – dichiara: “Èla fine di un capitalismo finanziario che aveva imposto la sua logica a tutta l’economia e aveva contribuito a renderla perversa” e aggiunge che tale rifondazione si basa sulla diminuzione dei compensi dei manager e sulla fine dei paradisi fiscali. Convergenza totale con la sua ex-avversaria Segolène Royal, che afferma: “Bisogna che il potere politico imponga regole alle banche e ai fondi speculativi, bisogna che metta fine ai paradisi fiscali e che regolamenti le remunerazioni dei trader”. Come sempre in Francia predomina l’analisi ideologica, mentre nei paesi anglosassoni, da cui è partita la crisi, quel che interessa non è tanto rimuovere i sia pur legittimi sentimenti di invidia e gelosia della gente nei confronti dei sempre odiati “banchieri”, bensì eliminare le disfunzioni dei mercati finanziari.

LA NOTIZIA BUONA E QUELLA CATTIVA

Volendo tracciare un bilancio, possiamo dire che c’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che la recessione è senz’altro terminata, anche se per alcuni mesi aumenterà ancora la disoccupazione Nulla è ancora certo, ma se la buona notizia viene confermata, si tratta di un successo eclatante della scienza economica. Si è detto di tutto contro gli economisti incapaci di prevedere la crisi. Senza voler entrare nel merito di un’accusa in parte infondata, bisogna riconoscere che essi hanno saputo però somministrare l’antidoto. Da un anno a questa parte ci sono state innovazioni sconvolgenti nelle banche centrali e il risultato si vede: non si è riprodotto il totale crollo finanziario del ’29. Le garanzie pubbliche e gli sforzi compiuti per rilanciare l’economia hanno prodotto risultati abbastanza rapidi. Certo, resta la pesante incognita del debito pubblico, salito ovunque alle stelle; ma è stata scongiurata la miseria terribile degli anni Trenta con il suo corollario di disordini politici. Non era poi così scontato.
La cattiva notizia è rappresentata dalla lentezza con cui si procede alle necessarie riforme. Più il tempo passa e più le banche raddrizzano la testa e organizzano la controffensiva. Esiste un serio rischio che si finisca con non far nulla. Sarkozy e colleghi hanno senz’altro messo in ginocchio i paradisi fiscali, il che è buona cosa, ma l’evasione fiscale non aveva influito minimamente sulla crisi. La battaglia sui bonus finirà col produrre solo provvedimenti di non ampia portata, che probabilmente verranno aggirati. A Londra il prezzo degli immobili di lusso sta già risalendo, il che significa che i golden boy non sono poi tanto preoccupati.
La grande lezione che si può trarre da questa crisi è che, effettivamente, le banche hanno costretto i governi a correre in loro soccorso. Anche se l’aiuto pubblico non è certo stato offerto a titolo gratuito – anzi è piuttosto oneroso per alcuni istituti  – è definitivamente crollato il falso mito secondo cui lo Stato non aiuta le banche in crisi. Ormai tutti sanno, e del resto lo si immaginava anche prima, che le grandi banche possono assumere rischi insensati, raccogliere i profitti se tutto va bene e scaricare le perdite sui contribuenti quando le cose vanno male. Non c’è ragione perché non ricomincino a fare i loro giochetti, magari ancor più in grande stile. È questo che bisogna impedire a tutti i costi. A tal scopo si possono mettere in atto tre tipi di soluzione, che del resto non si escludono vicendevolmente.

IL CAPITALISMO DEL FUTURO

La prima soluzione consiste nel ridurre la grandezza delle banche. Negli Stati Uniti gli agglomerati bancari non potevano essere costituiti fino al 1999, data in cui venne abolito il Glass-Steagal Act del 1933: tale abolizione è all’origine diretta della crisi. Non si può ovviamente proibire tout court alle grandi banche di concentrarsi. Ma si possono imporre condizioni prudenziali che siano sempre più onerose con il crescere della grandezza degli istituti. E sarebbe la miglior risposta, proprio per il fatto che le banche da quest’orecchio non ci sentono. 
La seconda soluzione sarebbe quella di esigere l’aumento di capitalizzazione da parte delle banche. È proprio su un provvedimento del genere che stanno concentrandosi le discussioni internazionali e probabilmente si arriverà a cambiamenti in proposito. È un settore in cui i dettagli sono molto importanti e si tratta di dettagli molto tecnici. Le grandi banche si adopereranno sicuramente per diluire i provvedimenti con una tale quantità di specifiche tecniche da scoraggiare pubblico e politici dal metterli in atto.
La terza soluzione consiste nello stabilire in anticipo che cosa fare in caso di crisi della banca. Di questo in Francia ancora non si parla, ma se ne discute molto in Inghilterra: la procedura è stata denominata “testamento da vivo”. L’idea sarebbe quella di esigere che ogni banca depositi, quando è in vita, un piano che stabilisca come frazionarla in tante piccole banche, in caso di fallimento. La prospettiva di dover automaticamente smantellare l’istituto dovrebbe indurre le banche a non far più conto sul denaro dei contribuenti. Ovviamente, tale progetto è unanimemente rifiutato dalle banche.
In Inghilterra e negli Stati uniti il dibattito è molto acceso. In base a ciò che verrà deciso, il paesaggio finanziario potrebbe trasformarsi radicalmente, oppure restare immutato qualora le banche riescano a limitare i danni. Certo, riformare il capitalismo sarebbe più glorioso, ma un approccio del genere è più realistico. Ai francesi e ai tedeschi non resta che augurare “in bocca al lupo” a Barack Obama e a Gordon Brown che affrontano una lotta titanica, da cui emergerà il “capitalismo finanziario” del futuro. Capitalismo che comunque ha ancora davanti a sé un lungo e fruttuoso cammino. Con buona pace di coloro che aspettano solo che sparisca…

(traduzione di Daniela Crocco)

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LE MONTAGNE RUSSE DEI DATI CONGIUNTURALI

  1. Giuseppe Caffo

    Sono d’accordo con l’Autore che la prima soluzione proposta sarebbe la migliore.Sarebbe interessante sapere perchè nel 1999 è stata abolita una buona legge promulgata non a caso nel 1933,nel pieno della "grande depressione".Comunque in una sana economia di mercato a nessuno dovrebbe essere riconosciuto lo status di "too big to fail",perchè a nessuno dovrebbe essere permesso di essere così grande e così influente.Altro che crisi del sistema liberale-liberista. Questo sistema non è stato ancora compreso e tanto meno messo in pratica.A tutto vantaggio delle strutture lobbistico-feudali che sanno tutelare molto bene i loro cospicui interessi.

  2. Antonio Nuzzo

    Il capitalismo è ancora vivo…ed anche il buon senso per la maggior parte della gente, sopratutto quando arrivano le catastrofi che abbiamo vissuto. In più delle considerazioni tecniche relative al tipo di attività, i livelli di rischio e la massa critica di una banca, c’è secondo me da considerare il livello di riserve obbligatorie. Penso ad inalzare di molto i livelli di fondi propri, di asset circolari di tutte le banche e di aumentarlo in base alla natura delle operazione eseguite ed al relativo di rischio. Ovviamente queste regole dovrebbero essere applicate a livello planetario magari con la sorveglianza del FMI, delle banche centrali coordinate (attività che già fanno). In questo modo c’è un freno alle operazione più rischiose scoperte ed un paracadute nel caso di fallimento. Il buon senso che le banche hanno perso con gli anni…

  3. Il Gufo

    “Capitalismo che comunque ha ancora davanti a sé un lungo e fruttuoso cammino.”

    Ricordo dei tizi che lo dicevano le stesse cose del comunismo mentre si stava disfacendo sotto i loro occhi.
    Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, evidentemente.
    Se tiro fuori un altro luogo comune posso insegnare anch’io economia?

  4. mirco

    Credo che il sistema capitalistico sia vivo e vegeto anzi molto agguerrito. All’orizzonte vedo delle metastasi cancerogene rappresentate dal sistema finanziario e soprattutto da istituti finanziari( Grandi banche private, fondi sovrani ecc forse oltre alla leman doveva fallire anche qualche fondo) che stanno succhiando il sangue all’economia reale. Se queste entità finanziarie non saranno messe alla frusta dai governi democratici, il capitalismo come l’abbiamo conosciuto non tarderà a finire e si preannunciano brutte situazioni ( guerre, carestie , colpi di stato in varie parti del mondo). Non può essitere la scusa che "siccome sono troppo grande per fallire rischio come mi pare e agisco senza controlli" occorrono vincoli e regole ferree. Ho l’impressione che passata un poco la paura i governi in questi mesi siano un poco titubanti nell’agire. Gli economisti sanno come agire, le banche centrali anche,occorre fermezza morale e non subire le tentazioni e le pressioni delle lobbies.

  5. assunta

    Condivido con l’Autore dell’ottimo articolo che la prima soluzione sarebbe la più adeguata. In questa direzione il 21 ottobre Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, ha proposto lo spezzatino delle banche maggiori per risolvere il problema degli istituti finanziari "troppo grandi", sostenendo che aumentare i coefficienti di capitale degli istituti non basta, perchè l’imprevedibilità delle turbolenze rende difficile sapere quanto capitale sarebbe appropriato. Mi sembra un segnale forte e chiaro. Comunque sempre nel 1999 su proposta del governo, il congresso USA ha approvato una legge che riduceva drasticamente i requisiti di reddito per accedere ai mutui immobiliari, dando origine ai mutui subprime sui quali sono in seguito stati costruiti i famigerati ABS e CDO,la cui diffusione ha largamente contribuito alla drammatica crisi attuale. Bisognerebbe capire bene cosa è successo negli Stati Uniti nel 1999.

  6. Giuseppe Russo

    Non occorre spender parole sui rapporti fra l’attuale crisi economica e la responsabilità di un capitalismo finanziario cresciuto in maniera patologica, grazie allo smantellamento dei limiti legislativi che pur esistevano, oltre che a nuovi, pericolosi ma liberi strumenti di sofisticazione finanziaria negli ultimi 40 anni di storia degli Stati Uniti. Al di là del rapporto strategico fra capitalismo e democrazia più che mai critico o anche dell’osservazione di Keynes per cui lo sviluppo di un Paese in cui la finanza è dominante si trasforma nel sottoprodotto delle attività di un casinò, ciò che nessuno ha ancora osservato è che il capitalismo finanziario è fortemente interessato alla concentrazione delle imprese e quindi alla riduzione del numero e del peso delle piccole imprese. Ciò era stato già sottolineato da Hilferding all’inizio del secolo scorso e poi da Veblen e soprattutto da Minsky, ma ancor più valido nel nuovo tipo di accumulazione delle grandi imprese. L’Europa delle PMI e gli USA della Small Business Administration e più semplicemente le organizzazioni di categoria non hanno nulla da dire?

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