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QUELLE IMPRESE CHE REAGISCONO ALLA RECESSIONE

La grande recessione mondiale, che ha determinato una contrazione violenta dei flussi commerciali e della produzione, anche per l’Italia è la più seria dal dopoguerra. L’analisi dei microdati raccolti dalla Banca d’Italia rivela che la crisi ha colpito prima di tutto i comparti manifatturieri più propensi all’esportazione e i produttori di beni strumentali, creando particolari difficoltà alle imprese più piccole. Ma chi nella prima parte del decennio aveva realizzato profonde ristrutturazioni ha saputo arginare meglio gli effetti negativi della crisi.

La crisi economica internazionale del 2008-09 è per l’economia italiana la più seria dal dopoguerra. Rispetto alla recessioni che hanno fatto seguito allo shock petrolifero della metà degli anni Settanta e alla crisi valutaria del 1992, la contrazione del Pil e della produzione industriale sono state più rapide e intense (tabella 1). (1)

I NUMERI DELLA CRISI

In un arco temporale ridotto, tra il secondo trimestre del 2008 e il secondo del 2009, il Pil è ritornato sui livelli della fine del 2001, la produzione industriale su quelli di metà anni Ottanta, assai più indietro delle altre economie dell’area. Il quadro trova conferma nelle opinioni degli imprenditori intervistati dagli economisti della Banca d’Italia la scorsa primavera. La quasi totalità delle quattromila imprese interpellate giudicava l’attuale situazione economica più grave rispetto a episodi del passato; oltre il 70 per cento dichiarava di risentire della crisi in misura sensibile. (2)

Tabella 1 – Recessioni a confronto

Il ricorso a tutti gli strumenti di flessibilità nell’utilizzo della manodopera concessi alle imprese (riduzione delle ore lavorate, ricorso alla Cig ordinaria, straordinaria e in deroga) ha finora consentito di limitare l’impatto di una flessione così drammatica dell’attività sui livelli occupazionali. Il calo degli occupati è stato comunque significativo, 695mila persone a ottobre rispetto all’aprile del 2008, e si è concentrato sui più giovani, col venir meno di nuove opportunità lavorative al cessare dei contratti temporanei in essere. (3)
I dati più recenti mostrano un recupero della produzione e della fiducia, ma i livelli di attività rimangono lontani da quelli che hanno preceduto la crisi. Gli sviluppi nel mercato del lavoro sono incerti.
È necessario capire i meccanismi di diffusione della crisi al sistema imprese per meglio accompagnare la ripresa. 

QUALI IMPRESE HANNO RISENTITO DI PIÙ DELLA CRISI?

Gli effetti della crisi internazionale sull’economia italiana si sono manifestati in primo luogo attraverso un netto calo della domanda, soprattutto nei comparti manifatturieri più propensi all’esportazione e in quelli dei beni strumentali. Il calo si è poi esteso al resto dell’economia per gli intensi legami di subfornitura che caratterizzano il sistema produttivo italiano e per il progressivo irrigidimento delle condizioni di concessione del credito da parte delle banche.
A risentirne maggiormente, anche tenendo conto di specificità settoriali e geografiche, sono quindi state non solo le imprese esportatrici ma anche, più i generale, quelle più piccole (nel campione Invind, quelle con 20-49 addetti). (4)
È tra queste due categorie che si è registrata la contrazione più forte degli investimenti (realizzati nel 2008 e pianificati per il 2009; figura 1) e del fatturato.

Figura 1 – Variazione degli investimenti a consuntivo (2008) e prevista (2009)

per classe dimensionale   

per quota di fatturato esportata

Fonte: Banca d’Italia, Invind.
Nota: dati relativi alla sola industria in senso stretto.

I canali attraverso i quali la crisi si è trasmessa con virulenza alle imprese di minore dimensione, anche se non direttamente interessate dal crollo della domanda estera, sono principalmente due: i) le aziende committenti, in media più grandi, hanno cercato di contenere l’impatto della crisi sulla propria forza lavoro internalizzando fasi della produzione in precedenza appaltate all’esterno alle imprese fornitrici, mediamente più piccole; ii) le aziende di maggiori dimensioni, dotate di un forte potere contrattuale, sono riuscite ad attenuare i problemi di liquidità dilazionando i pagamenti ai fornitori e contrattando clausole più vantaggiose.
Sebbene dimensione e coinvolgimento nei flussi di commercio internazionale spieghino buona parte della variabilità tra imprese nell’intensità degli effetti della recessione, anche altre caratteristiche appaiono rilevanti nello spiegare tanto la dimensione della crisi quanto la capacità di risposta  manifestata dalle aziende. Secondo l’indagine Invind condotta nel 2007, nell’ambito della quale si cercò di fotografare il processo di ristrutturazione del sistema produttivo italiano, quasi metà delle imprese dell’industria e dei servizi privati non finanziari era stata interessata da un significativo cambio di strategia tra il 2000 e il 2006. (5) Oggi queste imprese sono quelle che hanno saputo arginare meglio gli effetti della crisi, facendo meno ricorso a strategie di risposta difensive e penalizzanti (quali la contrazione dei margini di profitto e la riduzione della scala produttiva) e più a strategie attive, quali la diversificazione dei mercati di sbocco e dei prodotti.
Il processo di innovazione e modernizzazione intrapreso dalle imprese italiane negli scorsi anni in risposta ai grandi cambiamenti del contesto esterno (il nuovo paradigma tecnologico, l’integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari, il processo di integrazione europea culminato con l’introduzione della moneta unica) è così risultato, anche durante la crisi, un elemento di forza. È su questa attitudine del sistema produttivo di recuperare efficienza e capacità innovativa che bisognerà puntare per il futuro, combinandola con politiche volte a sostenere la domanda interna.

(1) Si veda Bassanetti A., M. Cecioni, A. Nobili e G. Zevi “Le principali recessioni italiane: un confronto retrospettivo”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza n. 46, 2009.
(2) Ogni anno la Banca d’Italia conduce un’indagine campionaria sulle imprese con più di 20 addetti operanti nell’industria e nei servizi privati non finanziari. I risultati dell’ultima indagine sono commentati nel supplemento al Bollettino statistico “Indagine sulle imprese industriali e dei servizi”, luglio 2009.
(3) Rilevazione sulle Forze di lavoro dell’Istat, 17 dicembre 2009; si veda anche F. Daveri su lavoce.info.
(4) Si veda Bugamelli M., R. Cristadoro e G. Zevi “La crisi internazionale e il sistema produttivo italiano: un’analisi su dati a livello di impresa”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza n. 58, 2009.
(5) Si vedano Bugamelli M., F. Schivardi e R. Zizza “The Euro and Firm Restructuring”, Nber Working Paper, no. 14454, 2008 e Brandolini A. e M. Bugamelli (a cura di) “Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza n. 45, 2009.

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  1. Ivano Urban

    Sono ormai dieci anni che leggo questi bollettini economici che tendono ad indurci a capire "cosa dovremmo fare" per migliorare la nostra economia, questo fanno gli analisti. Per alcuni la questione è apparsa comprensibile e anno agito di conseguenza e con successo e per altri, la stragrande maggioranza da quanto risulta, c’è ancora quell’irrisolvibile punto interrogativo. Abbiamo capito tutti che "innovazione" risulta essere la parola d’ordine ma allo stato dei fatti per i più è un termine generenico e difficile da interpretare e quindi da mettere in pratica. Idee+razio+sviluppo=creazione di valore. Sembra facile.. Non credo che le idee manchino e neppure la capacità di realizzarle e metterle a valore. Il nostro grande problema del processo per lo sviluppo economico-industriale è la "razio": saper interpretare, distinguere e finanziare le idee buone. Dunque, analisti economici e analisti finanziari se non vi date una svegliata voi continueremo a discutere sempre sul cosa dovremmo fare, e non su cosa abbiamo saputo fare. L’innovazione descrive il nuovo, ed è normale che il nuovo includa un’alta componente di rischio: da ripartire equamente!

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