La crisi ha cambiato tutto: l’economia, le istituzioni finanziarie, il nostro modo di fare politica economica e la nostra teoria economica. Eppure, per i programmi di insegnamento universitari, tutto resta come prima. Come trenta anni fa, gli studenti seguono prima un corso di microeconomia e poi uno di macro. Il problema è la separazione netta tra le due parti. I docenti dovrebbero invece affrontare fin dall’inizio, direttamente e in un modo adeguato, le questioni che la realtà economica contemporanea pone davanti agli occhi, nella vita e nelle tasche di tutti.
Si discute molto, e giustamente, seppur spesso nel modo giuridico-formale tipico della cultura del nostro paese, di riforma dell’università e di formazione delle classi dirigenti, la quale non può che avvenire principalmente nelle università. Un fatto, tuttavia, colpisce. Non si discute mai dei contenuti dell’insegnamento. Queste bellissime scatole che disegniamo, serviranno a insegnare che cosa? Su ciò, non una parola. Eppure, il contenuto e il modo dell’insegnamento non sono affatto cose scontate, non sono qualcosa di cui ci si potrà occupare, se mai, dopo, a riforma avvenuta (quando?) – come se i saperi fossero qualcosa di distaccato dalle istituzioni che ci diamo e abbiamo e da quanto accade nel mondo in cui viviamo, e pertanto dati una volta per tutte. È una questione urgente, che va discussa e affrontata subito e che, per di più, ha il vantaggio di poter essere risolta subito, senza dover introdurre alcuna nuova legge o regolamento.
LA CRISI NON CAMBIA I PROGRAMMI
La più grave crisi economica e finanziaria dalla Grande Depressione del secolo scorso non può avere cambiato profondamente, come ha fatto, l’economia, le istituzioni finanziarie, il nostro modo di fare politica economica e la nostra teoria economica, e non anche il nostro modo di insegnare l’economia. Ma, se andiamo a vedere i programmi di insegnamento, tutto risulta essere come prima (prima, cioè, della crisi): business as usual, nell’insegnamento dell’economia.
Nel primo anno – che, in verità, come tutti sanno, è, dal punto di vista culturale, formativo e civile, il più importante e decisivo – si continua a insegnare l’economia come si faceva trent’anni fa, con pochissimi marginali ritocchi. I maggiori, ovviamente, nella parte di macro, quella più legata all’evolversi delle istituzioni. Prima un bel corso di microeconomia, che dia i fondamenti rigorosi della materia e, poi, un bel corso di macro che, sulla base di quei fondamenti, spieghi il funzionamento dei mercati a livello macro e questioni come la crescita economica e l’inflazione. La stessa sequenza viene seguita anche in quei corsi introduttivi in cui si insegnano in uno stesso corso tutti i Principi di economia, sia micro sia macro.
Il problema non è tanto quello della sequenza: prima la micro, poi la macro. Ma, piuttosto, quello della separazione netta tra le due parti, così netta che, quasi dappertutto, vengono insegnate in due corsi distinti, da docenti distinti. Credo che la separazione sia stata introdotta da Paul Samuelson, nella prima edizione del suo celeberrimo manuale di economia, in cui, tuttavia e significativamente, la prima parte era costituita dalla macroeconomia e la seconda dalla microeconomia, ordine da lui stesso invertito in seguito. Ebbene, se questa separazione ha mai avuto un senso, oggi, davvero, non ce l’ha più – ed è proprio la crisi in corso a mostrarcelo con inequivocabile, assordante evidenza. Anche a chi, per caso, non se ne fosse accorto prima. Faccio degli esempi: li traggo da un collega di Stanford che queste cose le ha capite. La teoria dei tassi di interesse è micro o macro? Il moral hazard è micro o macro? La politica monetaria (macro) non dovrebbe focalizzarsi su obiettivi e settori specifici (micro)? L’analisi dei mercati finanziari, della Borsa e dei mercati immobiliari – di cui evidentemente non possiamo non estendere il “coverage” per i nostri studenti anche del primo anno – sono temi micro o macro? È evidente che queste distinzioni, oggi, non abbiano veramente più alcun senso.
Ma se così è, allora non ha neppure più alcun senso tenere separate due parti dell’economia (quali?) e continuare a mantenere in piedi un’impostazione didattica ormai del tutto superata dagli eventi economici stessi. Bisogna invece provare a fare, e da subito, corsi “integrati”, attenti agli argomenti in se stessi più che alla loro (presunta) appartenenza a un (artificioso) sub-settore disciplinare. Il nuovo semestre inizia il 15 febbraio: personalmente, mi impegno a mettere in pratica quanto qui ho scritto, innovando completamente la didattica. In questo modo, si possono e si devono fare anche corsi più attuali e interessanti per gli studenti (molti dei quali non faranno mai gli economisti, e c’è da stupirsene, se continuiamo a proseguire coi vecchi programmi?) mostrando loro subito la rilevanza assoluta delle cose che insegniamo. Che cosa diremmo di un fisico che insegnasse oggi la fisica come la si insegnava trent’anni fa? Di uno storico contemporaneo che, dopo l’11 settembre, non mettesse al centro del suo insegnamento lo scontro tra Islam e mondo occidentale? O di un medico che non insegnasse le più recenti terapie? Non potremmo, una volta tanto, cercare anche noi di essere all’altezza del nostro tempo, di non essere sempre in ritardo, e di fare come fanno a Stanford? Noi “economisti politici” non ci lamentiamo forse sempre di perdere studenti a favore di altre materie e del loro disinteresse verso la nostra disciplina? Certo che se continuiamo a insegnare l’economia senza affrontare fin dall’inizio, direttamente e in un modo adeguato, le questioni che la realtà economica contemporanea pone davanti agli occhi, nella vita, e nelle tasche di tutti, perseverando in un tipo di insegnamento obsoleto e stantio, in formale ossequio a un presunto rigore (che, nella sostanza, non c’è, e che comunque può essere meglio sviluppato in corsi più avanzati) e in sostanziale e colpevole acquiescenza alle nostre inveterate abitudini accademiche e alla nostra pigrizia intellettuale, non ci potremo davvero più lamentare. E agli occhi del mondo che ci guarda e che continua ad aspettarsi da noi una guida sicura nella presente tempesta (penso qui soprattutto alla nuove generazioni), confermeremmo soltanto la nostra inettitudine, il nostro declino e la nostra irrilevanza. O, almeno, di gran parte della nostra professione.
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Carlo
Il problema e’ alla radice. In una qualunque altra disciplina, le teorie che si rivelano infondate o inefficaci vengono classificate come tali ed accantonate. Nell’economia no. Forse perche’ teorie economiche che "funzionino" non esistono? Cosa si direbbe di uno scienziato che elabora un modello ‘supponendo’ che la terra sia piatta? Eppure e’ proprio cio’ che fanno gli economisti…
Sergio
Sarebbe forse la separazione tra micro e macro? Non mi pare. In micro si disegna un mondo ideale (concorrenza perfetta) senza moneta (è solo una merce come le altre) e senza intermediari finanziari. Ma era stato già Adam Smith a mostrare che una qualsiasi attività commerciale non è possibile senza il credito. In macro cambia tutto. L’esempio più vistoso? Il modello AS-AD poggia sul mark-up, cioè sul prezzo di oligopolio, con buona pace della concorrenza perfetta. E le conseguenze sono paradossali: si disquisisce di "produttività totale dei fattori" assumendo la concorrenza perfetta, poi di "tasso naturale di occupazione" respingendo l’assunto. Ovvio che poi non si riesca a prevedere le crisi… Direi che occorre piuttosto una rifondazione sia della micro che della macro e che questa è ancora lontana. Tanto che ci si rifugia nell’economia aziendale per assegnare il Nobel.
sara marsico
Condivido completamente quanto scritto da Fabio Ranchetti. Sono una docente di diritto economia politica e scienza delle finanze in un istituto tecnico di Melegnano, in provincia di Milano. Sono una sostenitrice del vostro sito e una frequentatrice del Festival dell’economia di Trento, che è un regalo che mi faccio a fine anno e dai cui stimoli traggo linfa preziosa per le mie lezioni di economia. Anch’io da tempo insegno l’economia senza tenere distinti i due ambiti della micro e della macroeconomia, usando il Sole24Ore e ottengo interesse e partecipazione dai miei studenti. Il lavoro è più faticoso, ma molto più interessante e uso i testi, fondamentali, di Fabrizio Galimberti sulle crisi finanziarie e sull’ultima crisi per rendere le mie lezioni ancora più avvincenti. C’è solo un piccolo problema: se lascio delle classi e arriva un docente nuovo, nonstante una documentazione puntualissima di quello che ho svolto e la mia disponibilità a fornire tutti gli strumenti del caso, il risultato è la noia e la disaffezione all’economia da parte dei miei ex studenti perchè i docenti insegnano l’economia esattamente come trent’anni fa. Che fare?
Luigi Bernardi
Concordo con Fabio Ranchetti: la spiegarazione è figlia della sintesi neoclassica e poi dei "microfondamenti". Ricordo un frase di A. Graziani: insegnare anche i macrofondamenti della microeconomia, non solo quelli micro della macroeconomia. Non so per altro come le due parti potrebbero essere integrate e non ci sono manuali adatti. Si potrebbe quanto meno iniziare i corsi con 10 lezioni sui 10 principali problemi economici del mondo. Lo fa M. Feldstein. E poi mi si lasci spezzare una lancia a favore di Scienza delle finanze. Riguarda almeno la maggior parte del dibattito di politica economica, ma la si sta escludendo dai curriculum di Giurisprudenza, Scienze politiche ed economia aziendale, spesso a favore di corsi tradizionali di micro marshalliana, che non servono a niente (G/SP) o di politica economica, che non aggiunge molto a macroeconomia.
Gianluca De Santis
Micro/macro, ma i perchè dovevamo cercarceli noi! Una volta chiedemmo in aula alla docente di politica monetaria di spiegarci un tema di politica monetaria dell’epoca (era il 1993…) e rispose che non era oggetto del programma cioè formule, dimostrazioni matematiche e assurdi modelli che a noi futuri operatori dell’economia "reale" non servivano. Noi volevamo capire, non volevamo fare i matematici prestati all’economia.
Anna Botti
L’osservazione relativa all’insegnamento dell’economia può essere applicata a tutti i programmi di tutte le scuole di secondo grado in sù. Il sogno di mio figlio è diventare chef, come dice lui "un bravo chef". A 16 aa. ha già fatto esperienza estiva lontano da casa, con persone sconosciute e più grandi di lui. Ce l’ha fatta! Ma va in crisi per due ore settimanali di matematica malamente insegnata da una prof. altamente frustrata che sogna studenti di liceo scientifico. Sarebbe ora di rivedere programmi e insegnanti per adeguarli alle varie realtà scolatiche e lavorative. Grazie per lo sfogo e buon lavoro.
Stefano Firpo
Non solo concordo pienamente ma rincarerei la dose. E’ ormai impressionante il conformismo che esiste nei corsi di economia e finanza ad ogni livello di insegnamento ed in ogni parte del globo. La crisi ci insegna che molti fondamenti microeconomici e probabilistici della teoria economica e finanziaria dovrebbero essere oggetto di un profondo ripensamento. Un ripensamento che si dovrebbe in primis riflettere in un approccio alla didattica più aperto, più contaminato, critico, eterodosso. Maggiore attenzione andrebbe riservata ad esempio alla storia economica (che non viene più insegnata in molti Master di Economia). Non si studia più Minsky o Kindelberger, solo per fare il primo esempio che mi viene in mente. Nell’insegnamento l’ipotesi di mercati efficenti è sempre considerata un dato di fatto, i comportamenti razionali una costante pressochè ideologica. Le stesse regole probabilistiche a cui facciamo affidamento si debbono conformare sempre alla curva a campana della distribuzione normale secondo cui una crisi come questa dovrebbe registrarsi una volta ogni mille anni.
Lea
Quando è scoppiata la "bolla dei subprime" molti dei miei amici, ben conoscendo i miei studi in economia, mi chiedevano continuamente informazioni. Tuttavia gli esami già fatti non riuscivano a risolvere molti di questi quesiti. La maggior parte delle risposte me le sono date leggendo riviste, quotidiani e libri più o meno tecnici, guidata dalla curiosità e da una punta d’orgoglio per non sentirsi dire "ma che vi fanno fare all’università?". Ogni tanto sussultavo pensando "ma io questa cosa l’ho studiata!". L’economia è affascinante perchè indaga così tanti fenomeni che non si può prescindere dall’attualizzarla. Esiste qualcosa di più dinamico dell’economia, in continua evoluzione? Perchè da studentessa devo chiedermi, "sì studio questa cosa, ma a che serve?". La teoria agganciata alla realtà ha tutto un altro sapore, forse non sarò mai un’economista, ma almeno avrò davvero gli strumenti necessari per capire quello che mi accade intorno, oltre al pezzo di carta. Una studentessa.
mirco
Ai miei tempi, essendomi laureato in economia a indirizzo per economisti, pur non avendo poi sfruttato la laurea per lo scopo ma per altro, nonostante tre esami di economia, due di matemantica finanziaria, due di statistica, uno di econometria oltre algli altri previsti, ho capito la sostanza del corso di laurea con l’esame di storia delle dottrine economiche in cui poi preparai la tesi. L’economia non è matematica non è finanza se dietro ci vedi la storia dei popoli e delle nazioni e ci vedi gli esseri umani in carne ed ossa. L’economia è buona amministrazione della casa, ma il fine è il bene nostro e dei nostri figli. A cosa servono 5 mega banche americane e altri soci in giro per il mondo che giocano in borsa con la stessa agilità con cui una regina degli scacchi muove sulla scacchiera senza pensare alla sorte delle nazioni?
fabrizio villani
Averne di docenti come lei… almeno con quello che ha scritto. La realtà dei fatti è fatta di docenti che non favoriscono l’apprendimento, di gente che se gli chiedi un appuntamento di chiarimento concetti non c’è mai, di menefreghisti interessati solo allo stipendio o troppo impegnati nel loro secondo lavoro…ora sono in erasmus, all’estero le cose sono molto diverse.
Emilio Di Meglio
Mi trova pienamente d’accordo su questi punti. A mio avviso bisognerebbe avere due insegnamenti e chiamarli genericamente "economia 1" e "economia 2". Vi si potrebbero insegnare i concetti generali dell’economia con continui riferimenti alla storia economica recente e meno recente. Occorrerebbe suscitare negli studenti un approccio critico e multidisciplinare, mostrando anche quali sono le ipotesi o i limiti delle teorie economiche. Ad esempio si potrebbe insegnare la contabilità nazionale e nello stesso tempo far leggere il rapporto della commissione Sen-Stiglitz-Fitoussi che ne fa comprendere alcuni limiti. La teoria dell’utilità e delle scelte razionali con i lavori della psicologia che le ridimensionano e cosi’ via. E’ anche importante lavorare con i dati e con gli strumenti informatici, per essere capaci di creare i propri semplici modelli e meglio comprenderli.
Franco ECONOMISTA
L’Autore tocca l’antico problema della separazione dello studio dalla pratica. La sua critica è prudentemente condivisibile solo per tempi di quiete sociale e di progresso generale. Non lo è invece proprio nei periodi di crisi e di svolta: sono quelli infatti i momenti in cui ogni risoluzione può rivestirsi impunemente delle più svariate e antitetiche teorie: E ciò tanto più in un’epoca come l’attuale, in cui molti studiosi non si sono accorti che l’ effetto della globalizzazione economica è proprio quello di aver demolito ogni distinzione tra economia e politica, tra studio e applicazione, tra impresa e finanza, tra merce e lavoro, tra costi e prezzi, tra produzione e rendita, etc. I pochi che si discostano da questa ossequiosa cura delle svolte dell’onnivoro capitalismo, ipocritamente chiamate" crisi", chiamano anch’essi "crisi" quelli che sono solo gli effetti del capitalismo sull’economia reale! Avessero pensato di chiamare con I loro nomi questi 2 fenomeni! La scienza avrebbe offerto da una parte i rimedi per evitare che l’unica vittima fosse sempre il lavoratore e dall’altra,le condizioni di ammissibilità delle "svolte".
Ivano D'Antonio
Da studente di Economia prossimo alla laurea ho letto con molto interesse la sua analisi. Da quello che vedo effettivamente sembra che la didattica "tradizionale" non aiuti a formare nuovi economisti e vorrei porre alla sua attenzione una ulteriore osservazione. Quando ho scoperto il mio interesse per la teoria economica, ho incontrato una difficoltà, che solo ora sono in grado di spiegare: quasi tutti i professori puntano più alla spiegazione dei risultati delle teorie convenzionali che ad una rigorosa analisi delle loro premesse e, inoltre,molte domande mi sembra che trovino risposta più nellanalisi matematica che nella teoria economica. Ciò, data la mia inadeguata preparazione matematica, mi portava a vedere leconomia come una strada a me preclusa e mi creava anche confusione il fatto che a volte mi sembrava di confondere il fine con i mezzi.Solo in seguito, dopo aver seguito un corso sul pensiero economico, ho trovato una nuova dimensione che mi aiuta a comprendere soprattutto quali sono le domande fondamentali, più che darmi le risposte come se fossero certezze. Ciò rende ai miei occhi lEconomia molto più attraente tanto che diventare economista è proprio ciò che desidero.
francesco giavazzi
Accolgo l’invito di Ranchetti. Quest’anno ho cambiato il syllabus del corso di macro che inizio a insegnare domani agli undergraduate di MIT. Lo ho diviso in due parti che ho chiamato: la macroeconomia quando il mondo e’ lineare, e l’altra La macroeconomia quando si incontrano dei vincoli (ad esempio sul capitale) e il sistema cessa di essere lineare. E’ una parabola semplice, ma che mi aiuterà, spero, a riflettere sulla crisi. Il guaio è che la seconda parte, quelal non lineare, ce l’ho un po’ in testa, ma gli appunti devono ancora essere scritti. Per fortuna ci sono due mesi di tempo. Commenti, suggerimenti su come scriverli, most welcome.
Paolo Ermano
Sono d’accordo con lei della necessità di un insegnamento più organico che metta in diretto contatto micro e macroeconomia. Tuttavia, fintanto che i libri di testo saranno organizzati nel modo attuale (che discende poi dal metodo Samuelson) e la teoria sottostante sarà quella che porta da un lato verso le teorie dell’astratta massimizzazione dell’utilità per imprese e consumatori (micro) e dall’altro verso all’IS-LM (macro), sarà difficile trovare un modo per organizzare in maniera nuova le due materie: troppo materiale! Sarebbe invece auspicabile un corso base di 20 ore in cui si presentano i fatti più importanti della realtà economica locale e mondiale: solo così, dando un affresco di come va il mondo, si potrebbe trovare nuova linfa nell’insegnamento grazie all’interesse che potrebbe suscitare questa introduzione negli studenti. E sarebbe anche un buon modo per selezionare chi è veramente interessato alle tematiche. Grazie e un saluto
Francesco Burco
…iniziare con la lettura di L’Azione umana di Ludovico Von Mises. Riportare l’economia alla sua dimensione autentica che è umana, filosofica e politica (nella sua accezione nobile). Dematematicizzare, demodellizzare, mettere in discussione i troppi dogmi. Meno statistica applicata, più comprensione della natura umana.
Paolo Mariti
I problemi sollevati sono enormi e di grande rilievo. Qualche spunto si può ricavare dai seguenti siti: http://www2.lse.ac.uk/publicEvents/events/2010/20090120t1830vSZ.aspx (se ne può ascoltare la registrazione ipod); inoltre: http://www.economicsnetwork.ac.uk/heterodox
Marco Cavallero
Concordo con il professor Ranchetti e aggiungo che il problema sostanziale risiede nella presunta scientificità dell’economia. Come scriveva il grande Sylos Labini alcuni anni fà, dobbiamo tornare ai classici. L’eccessiva matematizzazione dell’economia ha allontanato l’insegnamento dalle basi dell’economia stessa e i modelli matematici vengono insegnati come leggi universali. Qualcuno ha confuso la scienza economica con la fisica. Suggerisco un bel corso di filosofia dell’economia al primo anno di università. Abbiamo dimenticato l’insegnamento di John Maynard Keynes "Mi auguro non sia lontano il giorno in cui il problema economico occuperà quel posto in ultima fila che gli spetta, mentre nell’arena dei sentimenti e delle idee saranno, o saranno di nuovo, protagonisti i nostri problemi reali: i problemi della vita e dei rapporti umani, della creazione, del comportamento, della religione". Forse sarebbe meglio tornare ad insegnare queste lezioni.
Fabrizio Concetti
Mi trovo perfettamente d’accordo con il prof. Ranchetti. Mi sono laureato in Scienze Politiche indirizzo economico a Bologna nel 1978 e, se non ricordo male, il prof. Ranchetti era già un docente. Anche allora si dibatteva sulla crisi dell’economia politica e sui contenuti del suo insegnamento. Penso che le cose non siano cambiate. L’economia sconta in Italia la sua origine dai corsi di giurisprudenza. L’insegnamento è basato principalmente sulla dottrina marginalista con netta prevalenza della microeconomia. Keynes e i classici vengono trattati in maniera residuale, come precursori ed eccezioni. La visione del sistema economico (capitalismo) e gli strumenti di analisi che vengono forniti agli studenti più che farne degli econimisti, ne fanno dei ragionieri al quadrato.
Massimiliano Deidda
"In teoria, tra la teoria e la pratica non c’è differenza, in pratica, si!". Separerei: la metodologia dell’insegnamento (la didattica), che attiene alla pedagogia; dalla metodologia della ricerca, che attiene, ai modelli e agli strumenti dell’analisi economica. La potenza esplicativa dell’economia è entrata in crisi l’11 settembre 2001: non appartengono all’apparato concettuale dell’economia le più importanti categorie di pensiero da utilizzare per capire l’odio di una parte dell’umanità verso un’altra parte dell’umanità. Il 2010 segna il successo degli economisti, dati per spacciati all’inizio della crisi, alla cui tecnica si deve la capacità dei governi di "tener dritta la barra del timone nella bufera. L’economia è l’unica scienza sociale capace di ricondurre i comportamenti umani oggetto di indagine ad un’unica unità di misura: la moneta. Ciò consente l’uso della matematica per misurare i fenomeni. La critica si sposti dall’economia agli economisti. L’oggetto d’indagine resti circoscritto, con rigore metodologico, allo studio dei fenomeni economici. Si lasci spazio all’interdisciplinarità e all’uso delle nuove tecnologie (es. neuroeconomia), senza sconfinamenti.
Francesco Ballarini
Ci sono due aspetti che intendo sottolineare. Il primo è che troppo spesso si insegnano le teorie economiche senza collegarle con gli eventi economici reali . Il secondo riguarda linsegnamento delleducazione finanziaria cioè linsegnamento delleconomia e della finanza dal punto di vista dellinvestitore individuale. Questo deve imparare ad investire in modo consapevole il proprio danaro e a controllare e programmare le proprie finanze al fine di evitare che un bel giorno se ne esca dicendo ..in famiglia, a scuola, gli amici, di tutto mi avete parlato, meno che della cosa più importante..di come gestire il mio danaro!
bruno tenore
Due terapie, il socialismo reale ed il riformismo, si sono rivelate inefficaci nella cura del capitalismo. Se però ci rassegniamo all’idea che quella che è sempre più una patologia, sia invece l’unica realtà possibile, anche le parti ancora sane si ammaleranno. Questo chiedo agli economisti: che prefigurino la/le possibile/i organizzazione/i di una società post capitalista. Altrimenti continueremo a fondare e sciogliere Partiti e leaders, senza mai renderci conto che il problema è che non ci sono ancora prospettive credibili e realizzabili.
ANDREA LENZI
Sono completamente d’accordo con il Prof. Ronchetti e tanto di cappello per l’ammissione di incongruenza dell’insegnamento universitario da parte di un docente della stessa istituzione. E’ rammaricante, frustrante, intellettualmente quasi inutile seguire un corso di economia presso le università di oggi. Ricordo di aver seguito contro voglia i vari corsi di scienze politiche di economia dello sviluppo, macro e micro economia, politica economica e via dicendo. Cercavo di mettermi avanti leggendo i contemporanei, i vari Stiglitz, Rifkin, Georgescu-Roegen. Ma nessun professore, dico nessuno, si è mai preoccupato di aggiornare il proprio corso, di renderlo più addentro alle situazioni economiche reali. Nessuno si è mai preoccupato di portare a ragionare sull’attualità! Il premio per il corso era il voto, la fine di un martirio culturale, almeno per me. Ancora devo capire cosa serva l’università in Italia, e non è solo questione di riforme o di percorso universitario più congruo alla realtà. Credo che in primo luogo si debba ragionare su chi i corsi li gestisce, li pratica; forse manca la voglia di rimettersi in gioco come educatori ed insegnanti.
roberto fiacchi
D’accordo con l’articolo, che tuttavia resta a mio parere sempre molto legato alla struttura accademica di insegnamento. Ritengo che si debba cambiare soprattutto intervenendo sugli aspetti pragmatici che dovrebbero porevedere un rapporto continuativo con il mercato e con le realtà aziendali sia nazionali sia estere. Si tratterebbe di analizzare in corso d’opera casi aziendali specifici con benefici di reciprocità; non solo aziende private, ma anche cooperative, ministeri, regioni, banche, per esempio. Mi viene in mente ciò che avviene per gli studenti di medicina e chirurgia che operano presso ospedali. In tal modo l’economia verrebbe compresa meglio e potrebbe dar vita ad una indispensabile creatività in continuo divenire.
Francesco Macaluso
Credo che la sua sia una denuncia molto forte, ma che sostanzialmente si scontra con le fondamenta del nostro sistema universitario ed istituzionale. Lei menziona Stanford nel suo articolo. Il deficit universitario è più strutturale. Si ricordi del trade-off tra efficienza ed equità all’italiana. Non si cambiano i corsi attuali? Pensi ai posti di lavoro da salvaguardare. E’ proprio da lì che nascono i mali italiani. C’è da fare una scelta ed è quella di carpire ciò che gli studenti vogliono. Quella che si offre è la solita minestra: i professori invece di premiare chi sa maneggiare un "Sole24", porta in trionfo dei bei pappagalli.
Roberto Fabbrini
Secondo me l’articolo è fondato su dei presupposti giustissimi, ma ritengo che prima di un corso integrato di "economia politica" sia ancora utilissimo affrontare due bei corsi distinti micro e macro. E non è comunque facile cambiare rotta. Penso che prima di rivoluzioni didattiche di questa portata, l’Università (almeno per le facoltà di Economia) debba, e soprattutto possa, realisticamente, occuparsi di ben altre inefficienze e mancanze. Complimenti per l’idea in ogni caso.
Antonio Aghilar
La discussione è molto appassionante. A mio modo di vedere le cose, sì, è vero: l’economia come si insegna oggi nelle Università è perfettamente inutile. Si tratta solo di una carrellata di modelli (essenzialmente quelli derivanti dalla "sintesi neoclassica"), semplici e comunque del tutto insoddisfaccenti a cogliere la complessità dei fenomeni economici e la loro "non linearità". Credo che il concetto di "non linearità" sia un punto focale irrinunciabile, perchè quando una disciplina cessa di coltivar dubbi allora semplicemente non è più scienza, ma teologia. Al prof. Francesco Giavazzi, mi permetto di dare un umile suggerimento (da laureato in una piccola Università del Sud). Provi a cominciare il corso facendo ai propri alunni la seguente domanda: che cosa si intende per "comportamento economicamente razionale"?
renato foresto
La legge 142 del ’90 introduceva nei Comuni e nelle Province la figura del Revisore dei conti tratti dagli Ordini professionali dei Ragionieri e dei Commercialisti. Un mansionario articolato in nove punti definisce i loro obblighi e mi pare che vengano tuttora assolte ad eccezione di una, quella che li impegna a "fare rilievi, considerazioni e proposte tendenti a conseguire efficienza produttività ed economicità della gestione". Se per efficienza intendiamo il rapporto costi/ricavi in servizi quando il primo termine corre a perdifiato e nell’impossibilità di misurare la crescita dei ricavi, il Revisore dovrebbe quanto meno accendere una spia rossa a tutela del pubblico bene. Invece, tutti i Rapporti ignorano questo test decisivo per distinguere gli amministratori capaci dagli incapaci. Il Revisore revisiona "a prescindere" – come diceva Totò – nel nostro caso a prescindere dagli sprechi che secondo recenti stime riferite a tutta la pubblica Amministrazione ammontano a diverse decine di miliardi e tuttora in crescita. Non é questa la finanza che troviamo sui manuali e che insegnano negli Atenei.
Virginio Zaffaroni
Ciò che principalmente mi sfugge nell’Economia è quanto ci sia in essa dotato di effettiva forza di legge universale e quanto invece abbia solo valore teorico-interpretativo. La legge di gravità della fisica vale (per quanto ci risulta!) per tutti i tempi e in ogni luogo. E così, chessò, per i principi della termodinamica. Esiste qualche affermazione dell’Economia che abbia questa forza? L’ affermazione che l’immissione di moneta determina a breve o lungo andare, coeteris paribus, inflazione vale ovunque. Se vado in un villaggio delle isole Papua con quattro sacchi di conchiglie e le offro in dono ai nativi determino gli stessi effetti del quantitative easing di FED e BCE? Se è così ecco una legge dell’Economia "simile" a quelle della Fisica. Sull’idea di costruire un bel catalogo di quasi-leggi dell’Economia qualche economista e qualche storico dell’economia dovrebbe applicarsi.
Anna Pettini
Grazie al prof.Ranchetti per aver sollevato la questione! Sento da tempo che il modo in cui insegniamo economia è essenziale per dare ai ragazzi una possibilità in più di riflettere sulle profonde trasformazioni in atto, tra cui quella del mercato del lavoro che dovranno pur provare a comprendere e non subire soltanto. Da quest’anno ho adottato il testo di micro di Goodwin, Nelson, Ackerman, Weisskopf: apparentemente è semplice, ma il merito di presentare la materia in modo ampio e il modello neoclassico come interprete di una sfera circoscritta dell’intero sistema. Ha anche, a mio parere, il grande merito di lasciare molte domande aperte alla ricerca: non sarà consolante per i nostri studenti, ma almeno non è fuorviante. Mi sembra un primo passo. Sarei felice di conoscere le impressioni di altri docenti che lo hanno adottato.
Luca Solari
A mio avviso il problema è più ampio. Mentre la ricerca in campo economico si affanna (consentitemi un liberatorio finalmente da teorico dell’organizzazione) a costruire modelli degli attori economici meno parsimoniosi, ma più realistici, la didattica soprattutto di base si affida ad una tradizione di stampo implicitamente normativo trascurando il dovere di qualsiasi disciplina di legittimarsi a partire da una chiara esplicitazione dei presupposti metodologici. Suggerirei a molti la lettura di Max Weber, La scienza come professione. Personalmente lo trovo estremamente attuale e utile per togliere questa urgenza normativa in ogni campo del sapere (mercato del lavoro, università, pubblica amministrazione ecc.) che sembra pervadere i colleghi economisti. Parlare dell’attualità significa parlare dei limiti di qualsiasi scienza normativa dell’essere umano.
Acocella Salvatore
Sono un ingegenere minerario anziano, dilettante di economia. La iniziai a studiare all’Università, a quarant’anni, senza completare i corsi, per finalità aziendali, contabili. La ho ripresa circa 15 anni fa per approfondire la teoria. Mi si insegnava che questa era la "scienza dell’allocazione delle risorse scarse". Le risorse sono quelle "materiali" all’origine di tutto: sono quelle naturali. Che sono, se non scarse, limitate. Ma le teorie economiche che dovrebbero servire da modello, ignorano in maniera assoluta tutto ciò. L’economia è "circolare", le risorse sono trattate come illimitate. Si vogliono applicare i concetti della "cinematica" (fisica), anzi della matematica, però quando le teorie falliscono, sulla base dei principi galileiani della fisica, dovrebbero essere rigettate, come ha osservato qualcuno. Alcuni economisti del recente passato, in maniera più o meno esplicita, hanno introdotto i concetti correlati al "deterioramento" o del "consumo" di quelle risorse naturali su cui si basa l’attività umana e, quindi, l’economia. Georgescu Roegen (lo Scholar of the Scholarars, come lo definì Samuelson) ha trattato esplicitamente l’argomento. Ma era sgradito.
Roberto Fini
Nella scuola superiore, non soltanto la presente crisi non ha trovato posto, ma neppure eventi quali new economy, crisi dotcom, crisi valutarie degli anni novanta, ecc. si trovano citati nei manuali. Mediamente, la qualità dellinsegnamento delleconomia nella scuola superiore è scadente. E in effetti in università non si trova una sostanziale differenza tra studenti del liceo, dove leconomia non si insegna, e studenti dei tecnici commerciali, dove al contrario vengono impartite cento ore di lezione allanno di economia (oltre alle più di trecento di economia aziendale ). Perché? Intanto leconomia viene insegnata insieme al diritto e viene spesso considerata secondaria dal docente (frequentemente di formazione giuridica). Inoltre, i manuali risentono del taglio tradizionale che viene caldeggiato dagli editori (prima micro, poi macro, scienza delle finanze trattata dallangolazione del diritto tributario). Salvo eccezioni, la lettura di giornali, di testi del pensiero economico, ecc. non trova posto nella didattica. Cè da meravigliarsi se poi anche studenti che ne dovrebbero restare fuori vanno ad ingrossare le fila degli analfabeti economici?
Hessamina
Quando, preso il mio bel diploma di maturità scientifica, decisi di proseguire gli studi mi chiesi più volte. Quale disciplina mi aiuta a capire ciò che mi circonda, le dinamiche sociali, il lavoro? Cosa mi aiuta a leggere il giornale con una giusta dose critica? Bè dopo una lunga analisi mi sono resa conto che l’Economia è la scienza che si pone l’obbiettivo di rispondere a tutte queste domande. E subito ne ebbi conferma dalla prima lezione all’Università: "ragazzi l’economia è una scienza sociale". In quel momento pensai: bene non ho sbagliato una virgola! In realtà seguendo corso dopo corso non sempre ho capito il nesso tra un argomento e l’altro, e spesso gli argomenti venivano presentati come sterile e noiosa teoria economica, difficilmente applicabile alle dinamiche economiche moderne. Apprezzo pertando che proprio un produttore di conoscienza economica si sia reso conto che ciò che serve per costrire , prima di tutte menti pensati, sia il continuo confronto con la realtà! Auspico che questo pensiero abbia un forte e concreta espansione!
Paolo Ranieri
Come ricorda un lettore, cè differenza fra leggi fisiche e leggi economiche. In tutti questi discorsi si trascura che l Economia Politica è una scienza storica. Quindi dovrebbe studiare la specificità storica e sociale in cui viviamo, il modo di produzione capitalistico. Lunico che ha elevato lo studio della società a scienza sociale è stato Marx, che invece è continuamente bistrattato. Come ricorda Lenin in "Che cosa sono gli amici del popolo e come lottano contro i socialdemocratici", che invito a leggere perché è una delle migliori introduzioni al marxismo. Quindi bisognerebbe individuare, come ha fatto Marx, le leggi specifiche e storiche del modo di produzione attuale, quello del capitale, e non andare alla ricerca di inesistenti leggi economiche valide per tutti i tempi e i luoghi.