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GIUSTIZIA ED ECONOMIA: DUE MONDI SEPARATI

Il difetto strutturale di produttività del sistema economico italiano dipende da molti fattori. Uno dei quali sono norme giuridiche e prassi giudiziarie e amministrative sono poco sensibili alle ragioni del mercato e dell’efficienza economica. L’abnorme durata dei processi ne è una dimostrazione. Il problema è culturale: nella giurisdizione il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso. Che non è inteso come un servizio ai cittadini, ma come un bene di valore infinito. Occorre dunque promuovere una vera e profonda rivoluzione culturale.

Il difetto strutturale di produttività del sistema economico italiano dipende da molti fattori. Uno, su cui forse non abbastanza si riflette, ma potente e dagli effetti trasversali, è che le nostre norme giuridiche e prassi giudiziarie e amministrative sono poco sensibili alle ragioni del mercato e dell’efficienza economica; in alcuni casi, sono a esse apertamente ostili. Una manifestazione clamorosa della sordità del diritto italiano alle ragioni dell’efficienza è l’abnorme durata dei processi. (1)
 
QUALI SONO LE CAUSE?
 
Una ricerca recente indaga su entità e cause del fenomeno con riferimento alla giustizia civile, la più direttamente rilevante ai fini del buon funzionamento del sistema economico. (2) L’Italia è ultima fra i paesi avanzati, con una durata media dei procedimenti civili almeno tripla di quella altrui. Un’autentica catastrofe, sebbene con una pronunciata variabilità territoriale: in alcune aree del Sud la durata dei processi tende all’indefinito, se non all’infinito. (3)
È un problema di domanda, di offerta o di regole? In altri termini, è la produzione da parte degli uffici giudiziari di “servizi di giustizia” a essere carente e inefficiente, oppure è la domanda di tali servizi da parte dei cittadini a essere abnorme? Oppure sono le regole procedurali, il “rito”, a essere di ostacolo a una rapida conclusione dell’iterprocessuale? La risposta della ricerca è tutti e tre questi aspetti concorrono a determinare la catastrofe.
 
OFFERTA, DOMANDA E REGOLE DI GIUSTIZIA CIVILE
 
Iniziando dall’offerta, l’organizzazione della “fabbrica” della giustizia in Italia è per molti versi inefficiente, nel senso che – a parità di costi – i servizi prodotti sono da noi di quantità e qualità inferiore: gli altri paesi non appaiono spendere più di noi per la giustizia, in rapporto alla popolazione o al peso economico; il confronto diviene sfavorevole solo in rapporto al numero di procedimenti pendenti. Quali le cause? La irrazionalità della rete degli uffici, troppo frammentata e squilibrata geograficamente, la disorganizzazione interna di questi, l’ancora scarso uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e di conseguenza la bassa produttività media dei giudici.
La domanda di giustizia civile, cioè il numero di controversie fra privati di cui si cerca una soluzione giudiziaria, in Italia è abnorme, in paragone a quella degli altri paesi con cui ci confrontiamo. Ogni anno oltre cinque italiani su cento avviano in primo grado un procedimento civile, contro tre francesi e spagnoli, un tedesco e mezzo svedese (dati del 2006). L’alta litigiosità italiana può avere cause antropologico-culturali, attinenti alla dotazione di “capitale sociale”. Lo potrebbe far sospettare la diversificazione Nord-Sud di questo indicatore: a Bari si litiga davanti a un giudice sei volte di più che a Trento (per lo più per questioni di previdenza e assistenza). Ma vi sono altre spiegazioni, empiricamente verificate: il calcolo opportunistico (anziché pagare un creditore mi faccio chiamare in giudizio, l’inefficienza del sistema farà sì che alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà una transazione e mi farà uno sconto); l’alto numero di avvocati e gli incentivi perversi insiti nella struttura dei loro compensi (legati al tempo più che al risultato); l’“inquinamento normativo” (norme mal scritte e continuamente cambiate); le erratiche oscillazioni della giurisprudenza, soprattutto di quella della Corte di cassazione.
Quanto al rito, cioè alle regole che scandiscono l’iter del processo, quindici anni di riforme, che hanno sostanzialmente riscritto il codice di procedura civile, sono serviti a poco sotto il profilo dello snellimento e della velocizzazione dei processi. Assi portanti delle riforme dovevano essere una valorizzazione della fase introduttiva del giudizio per accelerarne la conclusione, un maggior ruolo del giudice rispetto a quello delle parti per contenere le tattiche dilatorie di queste, alcuni riti speciali per valorizzare le specializzazioni dei giudici in taluni campi. In pratica non hanno funzionato, per l’assenza di un disegno generale, per la contraddittorietà di alcuni interventi (che hanno causato una moltiplicazione irrazionale e dispersiva dei riti non conosciuta in alcun altro ordinamento), a volte per le resistenze di parte della classe forense e della stessa magistratura.

 UN PROBLEMA CULTURALE

Perché tutto questo? Al fondo, il problema è culturale. Nel nostro sistema di pensiero la giurisdizione è intrinsecamente a-economica: è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, dunque è una funzione senza costo e senza tempo, in cui ogni singolo processo ha valore assoluto. (4)
Questa assolutezza di principio esclude che si proceda a una valutazione di costi-benefici per la collettività, perché il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso, che non è inteso (come dovrebbe essere in un paese moderno e democratico) quale “servizio” ai cittadini, ma quale bene di valore infinito, dunque da perseguire costi quello che costi e senza limiti di tempo. Gli effetti possono essere assai rilevanti: secondo le indagini condotte dalla Banca d’Italia sulle imprese industriali con oltre 50 addetti, in media, un’impresa coinvolta in una causa civile per inadempimento contrattuale della controparte in un terzo dei casi preferisce accordarsi; per giungere all’accordo rinuncia mediamente a quasi il 40 per cento della somma che sarebbe stata dovuta.
La cultura e la tradizione giuridiche italiane appaiono essere, nel manifestare noncuranza per il mercato e le libertà economiche, un caso estremo nel ventaglio dei paesi che si rifanno alla tradizione di civil law, cioè di un diritto basato sulla legislazione dello Stato. I segnali incoraggianti per il futuro non sono molti: una maggiore “digitalizzazione” in alcuni tribunali (ad esempio Milano); una crescente attenzione del Consiglio superiore della magistratura per il tema degli standard di produttività dei magistrati; la recente introduzione di un “filtro” ai procedimenti che accedono alla Cassazione.   
“A cominciare dal livello costituzionale, è necessario ripensare l’intera cornice del diritto positivo entro cui l’economia italiana opera”. (5) 
Per questo, occorre una vera, profonda, vasta rivoluzione culturale, che solo la migliore scuola giuridica italiana potrà e saprà promuovere.

(1) L’articolo è tratto dal libro S. Rossi, Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale, Laterza, Roma-Bari, 2009.
(2) M. Bianco, S. Giacomelli, C. Giorgiantonio, G. Palumbo e B. Szego, “La durata (eccessiva) dei procedimenti civili in Italia: offerta, domanda o rito?”, in Rivista di politica economica, settembre-ottobre 2007.
(3) A. Carmignani, S. Giacomelli, “La giustizia civile in Italia: i divari territoriali”, in Questioni di Economia e finanza, 40, Banca d’Italia, 2009.
(4) C. Mirabelli, “Dall’astratta certezza del diritto alla certa definizione dei rapporti”, in C. Mirabelli, L. Paganetto, G. Tria, Economia della giustizia, Donzelli, Roma, 2005.
 (5) P. Ciocca, Un nuovo diritto per l’economia italiana, www.apertacontrada.it, 5.12.2009.

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11 commenti

  1. moreno

    Vi è un aspetto nella somministrazione della giustizia italiana che ne certifica la lontananza dal concetto di "servizio"dello Stato ali cittadini. Come da articolo, nell’indefinita attesa della fine dell’iter giudiziario, hanno da guadagnarci tutti, avvocati (il cui numero è inusitatamente superiore a Paesi a noi affini), la parte da voi citata ad esempio (debitori insolventi) o peggio (crimini economici), mentre lo Stato non riesce a velocizzare, semplificare e rendere più onerosa in termini di spesa per il procedimento ,con tariffe per il procedimento tali da scoraggiare un uso "procastinante"o intimidatorio fine a se stesso. Con oneri maggiori, le cause portate in aula avrebbero certamente una riduzione nel numero ed un inalzamento nella qualità. Il minor numero garantirebbe, da subito, più celerità. Così forse si scoraggerebbe chi sulla lentezza della giustizia fa affari (non solo pecuniari).

  2. Giovanni Presti

    Un articolo interessante, con un’ottima analisi che termina però con una conclusione che non condivido: "che solo la migliore scuola giuridica italiana potrà e saprà promuovere". E’ proprio la scuola giuridica italiana che ha contribuito negli anni, per attività machiavellica o inerzia complice, al risultato che vediamo nella realtà di tutti i giorni. Penso invece che una vera riforma dovrebbe coinvolgere non solo i migliori giuristi ma affiancare ad essi Economisti e Ingegneri che possano riformare l’organizzazione e le procedure in modo che "si proceda a una valutazione di costi-benefici per la collettività" (per riprendere la corretta analisi dell’articolo). Cordiali saluti, Giovanni

  3. Pier Paolo

    Bell’analisi. Però non credo che un parlamento fatto di avvocati abbia interesse a snellire la macchina dei processi. La cultura giuridica attuale è inflazionata: sia perché l’italiano ha il vizio di fare ricorso anche per la multa per divieto di sosta (muovendo risorse per nulla) sia perché c’è sul mercato uno stuolo di avvocati (un numero enormemente sopra ogni reale necessità) che invece di svolgere il suo ruolo, quello di ottenere "giustizia" e di evitare abusi sull’imputato, punta direttamente all’assoluzione a qualsiasi costo (che si sposa benissimo con la corsa all’avvocato dell’italiano tipo). Una "nuova scuola giuridica" può migliorare l’approccio degli addetti ai lavori, ma finché verranno usati male da cittadini e avvocati il risultato sarà ancora il sistema ingolfato che c’è ora. Meglio allora prevenire certe azioni facendo in modo che se perdo un ricorso perché ho torto ho una pena triplicata (per cui faccio ricorso solo se ho ragione). Questo va accompagnato da una chiarezza normativa (che ora non c’è) e da una conseguente preparazione dei magistrati a giudicare in modo più omogeneo evitando certi ribaltamenti di sentenze.

  4. BOLLI PASQUALE

    Giustizia ed economia nel nostro Paese sono due mondi separati perchè non funziona la Politica. La Politica è la grande assente del sistema Italia. Le riforme strutturali della giustizia da chi dovrebbero essere affrontate se non dalla politica? I problemi di giustizia del Premier non consentono, però,ai partiti politici di riformare il sistema che sicuramente fa da freno alla già dissestata economia nazionale. La Politica a livello centrale dovrebbe, per il bene della comunità, fronteggiare questi nodi e risolverli, ma tutto si fa meno che questo;si preferisce per mesi discutere di leggi ad personam, legittimo inpedimento e lodi vari. Che preoccupazione hanno i nostri politici sulle sorti del nostro debito pubblico, sulla nostra evasione fiscale, sulla nostra economia che non riparte, sulla disoccupazione che è in continuo aumento e sui suicidi di imprenditori soffocati dalle banche che sono con essi collusi? Il nostro Parlamento non discute dei problemi della gente, ma di problemi propri. Questo è il dramma che vive l’Italia! La nostra litigiosità non è un problema antropologico ma un problema di non politica e di assenza di regole uguali per tutti e non solo per pochi.

  5. Antonio Cavallo

    Sono rimasto allibito dalla frase: "L’alta litigiosità italiana può avere cause antropologico culturali, attinenti alla dotazione di “capitale sociale”. Lo potrebbe far sospettare la diversificazione Nord-Sud di questo indicatore.". E’ un commento disonesto e vergognoso poiché le differenza non è dovuta a differenze antopologiche (di certo) o culturali tra nord e sud: infatti non ce ne sono più che tra negri e bianchi o gialli, tra cattolici, mussulmani ed ebrei, uomini e donne e via dicendo. Tornando al contenuto dell’articolo mi pare assolutamente fuori dalla realtà quotidiana. In breve: una persona onesta non ricorre al tribunale perché ha un piacere nell’affrontare una causa il più delle volte lunga e costosa. Inoltre prendere a modello il sistema anglosassone non è esattamente una soluzione auspicabile, a meno che non se ne prendano anche le condizioni sociali di contorno (bassa litigiosità dovuta a generale disprezzo dei furbi e prepotenti da parte della società, elevata immigrazione ed organizzazione del sistema di erogazione dei servizi).

  6. Luigi Calabrone

    In Italia i servizi pubblici sono autoreferenziali. Gli addetti hanno come unico riferimento nell’agire il proprio benessere/tornaconto personale. Tentativi di introdurre valutazioni di prestazioni/risultati sono falliti. Per la Costituzione “materiale” la magistratura non è sottoposta ad alcun controllo/vincolo, se non quelli interni alla stessa. Massima autoreferenzialità e, a livello dei singoli, anarchia. Hanno contribuito abolizione di concorsi per titoli e promozioni per anzianità. Grandissimo potere e mancato controllo favoriscono, a livello individuale, la convinzione che il giudice non sia chi, per i cittadini, nei tempi più rapidi e con i minori costi possibili, “fa le sentenze" civili (dichiarare chi è titolare del diritto conteso), o quelle penali (dichiarare la colpevolezza del reo), ma, purtroppo, la convinzione – vicina al delirio di onnipotenza – che il giudice “fa giustizia”. Così il sistema giudiziario italiano produce i paradossi stigmatizzati dall’antichità: “Fiat jus, pereat mundus”. Questo “summum jus” ha per altra faccia la “summa iniuria”: la beffa della sentenza civile o penale data oltre ogni ragionevole termine, o, addirittura, mancata per prescrizione.

  7. Saverio

    Tralascio la disanima dei mali della giustizia italiana, che hanno, tra l’altro, un direttto impatto economico. Due proposte molto semplici: 1) la possibilità per il giudice di aumentare la pena, nel processo penale, in caso di ribadita colpevolezza nel processo d’appello; 2) l’onorario all’avvocato da pagre solo in caso di vittoria e sulla base dell’indenizzo riconosciuto, nel caso del processo civile.

  8. PDC

    Veramente un ottimo articolo; apprezzabile soprattutto l’approccio, schematico nella forma e pragmatico nelle questioni poste. È evidente come non sia stato concepito da dei laureati in giurisprudenza… A proposito di abiti mentali e lauree, vorrei proporre il seguente semiserio modellino “darwiniano”. Poiché l’attività del parlamento è legiferare, i laureati in giurisprudenza hanno un vantaggio competitivo sugli altri in quanto dominano il formalismo richiesto. Infatti, sono la specie prevalente (13,5% solo gli avvocati). Come è naturale, essi si adoperano per accrescere ulteriormente il proprio vantaggio, cercando di plasmare l’habitat in modo da rendere le proprie conoscenze ancora più determinanti per l’ottenimento del successo sociale. Ciò significa esasperare il più possibile la complessità e contraddittorietà delle leggi prodotte. Ma siccome quanto viene deciso in parlamento si proietta sul mondo esterno, ecco che le caratteristiche peculiari di un microambiente (il parlamento) diventano fattore di ordinamento arbitrario di un macroambiente (il paese o nazione che dir si voglia).

  9. stefano delbene

    Mi dispiace essere impopolare, ma quello che gli autori ritengono essere un vizio della giustizia in Italia, la scarsa subalternità alla cultura del mercato (scusate la sintesi), è per me, se non una virtù, per lo meno un giusto contemperamento agli eccessi del potere economico. Infatti che ne sarebbe delle tutele del lavoro, dell’ambiente, dei diritti sociali, con una giustizia che faccia valutazioni di costo-opportunità (di chi poi)? Sicuramente c’è un problema di lentezza e di inefficienza, ma già altri su questo sito hanno messo in evidenza quanta sia la responsabilità dell’avvocatura, delle leggi spesso fatte appositamente per non essere (o essere male) applicate, oltre che della scarsa professionalità del personale dei tribunali (e non mi riferisco solo ai magistrati, ma anche agli amministrativi), selezionato con le solite modalità assurde che riguardano tutta la burocrazia italiana. L’Italia è nei fatti, se si escludono alcune eccezioni, un paese arretrato e la giustizia è figlia di questo Stato. Credo quindi che una giustizia subalterna al mercato possa essere causa di ulteriore ineguaglianza.

  10. alberto carini

    Giustamente qualcuno dice: bella l’analisi, ma la cura ? Dovrebbe essere la ricerca di una "funzione obiettivo" comune. Supponiamo che vi sia un governo ideale, libero da conflitti d’ interesse. Si potrebbe pensare a carriere dei magistrati funzione inversa delle cause arretrate, a tariffe professionali degli avvocati forfettarie, legate allo stesso parametro, al pagamento certo di tutte le spese (incluse una tariffa a copertura delle spese del Tribunale) per chi perde. Potrebbe funzionare !

  11. francesco piccione

    Faccio l’avvocato e rischio di dare l’impressione di avere un interesse personale. Così non è. Gli avvocati sono pagati per l’attività fatta e non per lo scorrere del tempo. in corte d’appello hanno rinviato una mia causa dall’ottobre del 2008 al marzo del 2014, per sei anni non percepirò alcun compenso, come è giusto, visto che non svolgerò alcuna attività. gli autori devono avere scarsa conoscenza della pratica forense (ed anche della teoria, visto l’errore sui compensi). In italia il numero delle liti è maggiore perché maggiore è l’illegalità. in nessuna altra parte del mondo civile passa il concetto che si possa non pagare i debiti. Da noi è normale. Ciò crea la costante necessità di ricorrere alla giustizia rallentandone il corso. Lentezza che induce altri a disattendere ai propri doveri, contando sull’inefficienza del sistema. ciò detto per sveltire il corso della giustizia servirebbe una vera riforma del codice che allegerisca il processo da alcuni orpelli bizantini. Bisogna coniugare celerità del processo e diritto alla difesa. agire in giudizio è un sacrosanto diritto che non può essere mediato da valutazioni economiche.

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