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LACRIME DI COCCODRILLO SULLA BORSA ITALIANA

Le vicende del rappresentante di Borsa italiana nel board di London Stock Exchange hanno riaperto la discussione sull’alleanza siglata tre anni fa. Ma davvero il controllo di Lse danneggia le possibilità di raccolta di capitali delle nostra imprese? In realtà, le aziende italiane, soprattutto le piccole e medie, restano lontane dal listino e preferiscono ricorrere alle banche. E le risposte a questo antico problema non sono da ricercare nelle strutture della Borsa, ma in tre nodi irrisolti, che riguardano il sistema industriale, quello bancario e politiche fiscali inadeguate.

 

Le recenti dimissioni dell’amministratore delegato di Borsa italiana e l’incertezza circa la nomina del suo successore nel board di London Stock Exchange (Lse) hanno riportato al centro dell’attenzione la scelta di “alleanza” tra le due borse siglata tre anni fa.

STORIA DI UN’ALLEANZA

Borsa italiana fu pagata da Lse emettendo sue azioni (allora quotate 17 sterline ed oggi 7) per un ammontare di circa 1,3 miliardi di sterline. I soci italiani, in gran parte banche ed emittenti, grazie allo scambio, ottennero quasi il 28 per cento del capitale di Lse, rappresentando unitariamente il primo azionista. (1) Nel board di Lse entrò una importante rappresentanza di consiglieri italiani e si presero vaghi impegni circa un avvicendamento alla guida della società, che non si è realizzato.

Quattro sostanzialmente i business acquisiti: il trading azionario, il mercato dei derivati, il trading dei titoli di stato (Mts) e le attività di post trading (montetitoli e cassa di compensazione).
Molti ora parlano di una “svendita” del nostro mercato e invocano provvedimenti. Tuttavia, come spesso accade, la ricostruzione degli avvenimenti è sommaria e forse il cuore del problema è altrove.
Quanto alla storia meritano di essere ricordati alcuni punti.
Al momento della privatizzazione della Borsa, ma anche più recentemente dopo lo scambio azionario con il Lse, più di una voce si è levata per promuovere una gestione comune delle partecipazioni rilevanti nelle società di gestione dei mercati, così da facilitare un percorso di sviluppo strategico. Sono stati appelli inascoltati.
Se è vero che gli azionisti non hanno saputo esprimere posizioni strategiche “forti” nei dieci anni di vita indipendente di Borsa spa, non si può scordare che un percorso di sviluppo autonomo tramite una Ipo era stato ipotizzato dal management. Così come il tentativo di dare vita ad una alleanza continentale (con Parigi e Francoforte) era stato fortemente sostenuto anche dall’allora ministro Padoa-Schioppa. La soluzione con Londra arrivò dopo il naufragio di queste alternative e in un clima in cui molti paventavano l’isolamento come il maggio rischio.
Quanto all’“affare” fatto da Lse, l’avviamento pagato, di oltre 917 milioni di sterline, è stato svalutato per ben 473 solo un anno dopo, con il concreto rischio che altre svalutazioni seguano.
Lse ha una governance coerente con il suo status di società quotata e i suoi azionisti più rilevanti non sono inglesi. La composizione del suo consiglio di amministrazione in futuro non potrà rimanere congelata dagli equilibri stabiliti in occasione della fusione. E comunque, è un dato di fatto che la rappresentanza italiana è molto più che proporzionale rispetto al suo peso azionario.

UN SISTEMA CHE SI AFFIDA ALLE BANCHE

Ma, per venire al cuore del problema, la domanda da porsi è: cosa ha perso il “sistema Italia” perdendo il controllo della Borsa ? Il controllo di Lse ha danneggiato o sta danneggiando le possibilità di raccolta di capitali delle nostre imprese?
La verità difficile da accettare è che, al di là dell’orgoglio nazionale, la nostra borsa gioca un ruolo relativamente modesto nel sistema finanziario domestico, che rimane saldamente bank oriented, soprattutto con riguardo alle piccole e medie imprese, che sono e restano lontane dal listino e per cui è sempre molto difficile trovare investitori.
Il tema è vecchio, ma le risposte al problema non sono da ricercare nelle strutture della Borsa, che sono efficienti e con un’offerta di mercati e segmenti addirittura sovrabbondante. Né basta a spiegare il fenomeno la pur eccessiva complessità delle norme e la loro burocratica applicazione, anche se non è un caso che su questo aspetto numerose siano le iniziative di semplificazione a livello comunitario. (2)

Tre credo siano invece gli aspetti critici irrisolti:

·        L’orientamento di una parte della nostra imprenditoria a minimizzare i propri risultati fiscali tramite manovre elusive (quando non evasive) che rende ad essa inaccettabile la trasparenza e i requisiti di governance della quotazione. A tal proposito una sola battuta: i 100 miliardi di euro rientrati con lo scudo rappresentano circa quattro volte la raccolta delle Ipo degli ultimi dieci anni e più o meno corrispondono a tutti i flussi di investimento canalizzati dalla Borsa (quindi compresi aumenti di capitale e offerte secondarie) nello stesso periodo. Ma se dovessimo concentrarci solo sulle operazioni riguardanti le piccole e medie imprese, forse rappresentano più di quanto la Borsa italiana abbia raccolto nei due secoli della sua vita.

·        La mancanza di una forte incentivo del sistema bancario nazionale a promuovere una ricomposizione del passivo delle imprese nella direzione dell’apertura del capitale;

·        L’assenza di politiche fiscali che, sul lato corporate riequilibrino i vantaggi del debito sull’equity e, sul lato degli investitori, incentivino l’investimento sulle piccole e medie imprese.

Tutte queste cose non hanno nulla a che vedere con l’azionariato di Borsa italiana e con le lacrime di coccodrillo per l’accordo con Londra.

(1)

(2) Significativa la posizione del ministro francese Christine Lagarde sulla base del rapporto Demarigny sulle Smiles (Small and Medium-sized Issuers Listed in Europe) in cui si sostiene la necessità di una semplificazione dell’impianto delle Direttive. Ma anche Borsa italiana è al lavoro con un “libro bianco” sul tema.

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  1. Lukas Plattner

    Sono assolutamente d’accordo con la lucida analisi. I numeri sono impietosi, nel 1990 le società quotate erano 266, nel 2005 282, nel 2009 296. Si tratta di un canale alternativo per la raccolta del capitale inutilizzato nel nostro Paese con grave danno per il tessuto economico.

  2. Lilliput

    Finalmente qualcuno ha il coraggio di dire come stanno le cose. A proposito di coccodrilli e per la cronaca: l’unico azionista di Borsa che in assemblea votò contro le proposte di modifiche statutarie funzionali all’operazione LSE non è incluso nella lista dei maggiori azionisti allegata all’articolo di Fumagalli.

  3. Antonio Perricone

    La risposta alla domanda: cosa ha perso il sistema Italia perdendo il controllo della Borsa? la mia è: assolutamente nulla, fa parte della litania dell’italianità come valore in sè.

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