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La risposta ai commenti di Luigi Mariucci con commento di Pietro Ichino

Ai diversi commenti al mio intervento rispondo così. Il caso di Pomigliano può essere valutato da diversi punti di vista. Ovviamente io l’’ho commentato in base alle mie competenze. In questa ottica ho distinto tra clausole di quell’’accordo, pure molto costrittive, come quelle riferite all’’orario di lavoro, ma in sé legittime, perché nella disponibilità dei contraenti, e clausole a mio avviso illegittime, perché relative a materie non negoziabili, quali, in particolare, quelle riferite ai trattamenti di malattia e alla pretesa di rendere vincolante verso i singoli la clausola di tregua.Una specifica risposta devo a Pietro Ichino. Mi stupisce che Ichino non colga la portata problematica del punto 15 del c.d. accordo (che a mio giudizio costituisce piuttosto un regolamento aziendale sottoscritto per accettazione), quella in cui i comportamenti difformi dei singoli (ivi incluso lo sciopero) vengono qualificati come illeciti passibili di sanzioni disciplinari fino al licenziamento. Ichino dovrebbe ben conoscere la sterminata letteratura giuslavoristica in materia di clausole di tregua, a partire dagli studi di Giorgio Ghezzi. Quelle clausole sono state considerate legittime, fin dalla “contrattazione articolata” del 1962-63, proprio in quanto tali da vincolare le parti collettive, e non i singoli. Ciò riguarda prima ancora che l’’art.40 cost. (sul diritto di sciopero) l’’art.39 cost. sulla libertà sindacale. C’’è una precisa ragione per cui in Italia lo sciopero è stato considerato un “diritto individuale ad esercizio collettivo”. Il motivo riguarda la sfera giuridica e la situazione di fatto. In regime di pluralismo sindacale lo sciopero non può essere monopolio di alcun singolo sindacato: questo fa la differenza storico-giuridica, per fare un esempio, tra l’’Italia e la Repubblica Federale Tedesca. Dunque lo sciopero in Italia si può limitare nelle sue modalità di esercizio, non nella sua titolarità. La legge sui limiti dello sciopero nei servizi pubblici essenziali ne è la controprova: lì, con intervento di legge, si limitano appunto le modalità di esercizio dello sciopero, non la titolarità del diritto. La questione non è di “lana caprina”, come Ichino obietta alle fondate osservazioni di Stefano Liebman, ma riguarda una questione di fondo: attiene all’’idea che abbiamo dello Stato di diritto e del rapporto tra diritti civili e diritti sociali. Non a caso Gino Giugni diceva che quello della titolarità individuale del diritto di sciopero era un “dogma fondato sulla ragione”.

Questo intervento di Luigi Mariucci è molto interessante perché fonda la tesi della inopponibilità della clausola di tregua ai singoli lavoratori (non tanto sull’’articolo 40 della Costituzione, quanto) sull’’articolo 39, che sancisce il principio di libertà sindacale. A questo argomento, però, è agevole obiettare che l’’articolo 39 non vieta affatto che un contratto collettivo si applichi anche a un lavoratore non iscritto al sindacato stipulante. Pur in assenza di una disposizione che preveda e regoli l’’estensione erga omnes dell’’efficacia del contratto collettivo, questo può applicarsi anche ai non iscritti che lo accettino, o facciano rinvio ad esso mediante il contratto individuale. Così, per esempio, il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici si applica anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, perché i rispettivi contratti individuali rinviano ad esso. E da tempo dottrina e giurisprudenza giuslavoristiche hanno pure riconosciuto come il rinvio “al c.c.n.l.” ben possa intendersi quale rinvio “alla contrattazione collettiva” gestita dalle stesse associazioni imprenditoriali e sindacali: onde anche il contratto aziendale stipulato da tutti i sindacati firmatari del contratto nazionale deve considerarsi applicabile a tutti i lavoratori cui quest’’ultimo si applichi. Tutto questo non collide in alcun modo con la libertà sindacale del lavoratore: il quale è e resta libero di iscriversi al sindacato che preferisce e, al tempo stesso, di prestare il proprio consenso negoziale all’’applicazione del contratto collettivo in ipotesi stipulato da altri sindacati.
Questo essendo il quadro giuridico, che cosa impedisce di pensare che l’’intera normativa prodotta dalla contrattazione collettiva, cui il lavoratore abbia prestato la propria adesione, ivi compresa l’’eventuale clausola di tregua sindacale, si applichi anche nel rapporto individuale di lavoro? Questo è ciò che è stato sostenuto in passato da un giuslavorista autorevole – e universalmente considerato come un grande maestro di buon senso giuridico – come Giuseppe PERA. E non significa affatto ammettere un monopolio, né della contrattazione, né della proclamazione dello sciopero, a favore di alcuna coalizione sindacale.
D’’accordo: Giorgio GHEZZI, nella sua monografia sulla responsabilità contrattuale delle organizzazioni sindacali del 1963, ha invece sostenuto che la clausola di tregua non può vincolare i singoli lavoratori; e molti altri giuslavoristi meno autorevoli di lui hanno aderito a questa tesi. Ma lo stesso GHEZZI ha più recentemente riconosciuto che, nel campo di applicazione della legge n. 146/1990 (servizi pubblici) la violazione della clausola di tregua genera responsabilità anche in capo al singolo lavoratore nel suo rapporto con l’’imprenditore (G. GHEZZI, U. ROMAGNOLI, Diritto sindacale, 4a ed., 1997, p. 150): anch’’egli, dunque, riconosce che non vi è alcun ostacolo, né concettuale, né costituzionale, a una costruzione della clausola di tregua come vincolante anche per il singolo lavoratore cui il contratto collettivo si applichi.
D’’altra parte, l’’ipse dixit non può bastare contro un mondo intero in cui le clausole di tregua contenute nel contratto collettivo si applicano pacificamente anche ai lavoratori rientranti nel suo campo di applicazione (possiamo forse sostenere che la libertà sindacale esiste soltanto in Italia e non nel resto d’’Europa?); né può bastare di fronte alla constatazione delle conseguenze assurde cui l’’impostazione difesa da Luigi Mariucci conduce, come quella della frequenza mensile dello sciopero in tutti i comparti dei trasporti, anche nel periodo immediatamente successivo al rinnovo del contratto (rinvio in proposito, anche per i riferimenti comparatistici e dottrinali, al quarto capitolo del mio libro A che cosa serve il sindacato?). Né l’’ipse dixit può obbligare il sindacato confederale a continuare a difendere una tesi giuridica che è rovinosa per il sindacato stesso, privilegiando altre formazioni sindacali fautrici della conflittualità permanente.
Per concludere, a me sembra che:
  1)  l’’affermazione secondo cui la clausola di tregua può appartenere soltanto alla “parte obbligatoria” e non alla “parte normativa” del contratto collettivo non ha alcun sostegno di rango costituzionale, onde il legislatore ordinario ben può disporre con norma generale nel senso della vincolatività di quella clausola per i singoli rapporti di lavoro rientranti nel campo di applicazione del contratto collettivo, come ha già fatto nel settore dei servizi pubblici essenziali;
   2) l’’affermazione secondo cui la clausola di tregua può appartenere soltanto alla “parte obbligatoria” e non alla “parte normativa” del contratto collettivo non ha alcun sostegno neppure nella legge ordinaria oggi vigente, onde la contrattazione collettiva ben può, nella propria funzione di regolazione dei rapporti individuali, validamente prevedere che la clausola stessa vincoli anche i singoli lavoratori cui si estende il campo di applicazione del contratto.

 Quest’’ultima tesi è, certo, opinabilissima; ma altrettanto opinabile è la tesi contraria.  (p.i.)

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Un commento all’articolo di Iacopo Viciani “Aiuti da valutare”

  1. rc

    Devo dire che finalmente leggendovi ho capito dove sta il punto del contendere; penserei però che la questione, netta nella sua contrapposizione giuridica, trovi la sua soluzione in un senso o nell’altro sulla base del prevalere degli "interessi" e della forza contrattuale di una parte o dell’altra. Se infatti mi devo pensare come imprenditore è certo che vorrei il contratto nazionale vincolante anche nei suoi aspetti relativi alla tregua sindacale, ma se mi penso dipendente, mi sento soffocare dall’idea di avere un contratto che limiti la mia libertà individuale.

  2. giuseppe

    Le grandi vertenze sindacali, Pomigliano piuttosto che Alitalia, finiscono spesso in contrapposizioni dialettiche,di natura giuridica-ideologica, che, ahimé, finiscono per mostrare quanto sia grande la paura di confrontarsi con il cambiamento. Badate bene sono pienamente convinto che ogni volta si pensi siano a rischio i diritti individuali delle persone bisogna ragionare con estrema attenzione per evitare di aprire varchi alla deregolamentazione selvaggia. Per contro, però, è necessario contestualizzare l’ipotesi di accordo su Pomigliano. Tutti conosciamo le difficoltà di quel territorio, dal punto di vista produttivo e sociale, siamo sicuri che la strenua difesa di un diritto individuale di sciopero, seppur di rango costituzionale, in realtà non ne cancelli degli altri? Ne propongo un altro di pari rango, quello al "Lavoro". Fino a che punto è legittimo difendere un diritto individuale quando esso contrasti con interessi generali?

  3. pierangelo badano

    Mi sembra che le tesi rispettabilissime esposte da Pietro Ichino (che Ichino stesso ritiene comunque opinabili) nonché la concezione del sindacato che mi pare emergere dalle sue argomentazioni (non mancherò di leggere il suo libro per capire meglio) siano condivisibili solo se si ritiene il corpus giuridico e normativo che regola l’attività sindacale come avulso dalla storia. Se accetto questo postulato, non posso che darle (quasi) ragione. A mio modesto avviso il nodo del dibattito è tutto qui: per esempio la legge sullo sciopero nel settore pubblico nasce in un contesto preciso, con l’obiettivo di garantire il diritto del cittadino a fruire di servizi. Ha senso estendere al privato oggi questo tipo di considerazioni? La legge 300, la Costituzione nascono in contesti storici particolari: io per esempio le modificherei da decenni, ma mi conviene farlo ora? Inoltre, ci sono stati periodi in cui un certo livello di conflittualità pagava: io credo nella negoziazione ovviamente (ho fatto attività sindacale in CGIL), ma se gli spazi per farla fra vent’anni non ci fossero più? Spero di aver spiegato con sufficiente chiarezza i miei dubbi.

  4. Giorgio Conti

    Mi pare di capire che il dilemma Ichiniano sia come conferire certezze alle imprese italiane e straniere affinchè queste possano tornare ad investire in Italia. Il professor Ichino da per scontato che le ìimprese siano disposte ad investire se saranno fatte le riforme sul tipo del contratto di "Pomigliano". Mi permetto su tale argomento di essere perplesso perché, credo che i motivi che fino ad oggi rendono poco appetibile l’investimento in Italia sono anche ad esempio il costo dell’energia, la complessità del sistema fiscale e quant’altro. Allora mi chiedo perché in questo paese ci illudiamo ancora con gli slogan? Perché partire sempre dal costo e dal mercato del lavoro per rendere competitivo il sistema economico nazionale? Quanto hanno, invece, investito in ricerca le industrie italiane, ammesso che ne sia rimasta qualcuna ancora in piedi, eccezion fatta per Fiat, di una certa dimensione? Abbiamo perso Bagnoli, Nuovo Pignone, Galileo, le Officine Reggiane ed ora Fincantieri sta vacillando. Il vero problema dell’economia nazionale è che non c’è mai stato capitale privato pronto a rischiare su investimenti Industriali ma sempre pronto alla rendita di posizione.

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