Il modello di relazioni industriali varato nel 1992-93 è ancora adeguato. Se in Italia esiste oggi un problema di salari e di occupazione è perché il paese non cresce più. Un aumento simultaneo di retribuzioni e occupati si può avere solo con una rapida crescita della produttività totale dei fattori. Da favorire attraverso un ammodernamento della dotazione di capitale fisico che incorpora le innovazioni tecnologiche. Come dimostra l’evidenza empirica su Stati Uniti ed Europa.

Le vertenze sindacali di questi giorni hanno rianimato la discussione sull’esistenza in Italia di una questione salariale e riportato in primo piano la questione dell’adeguatezza del modello di relazioni industriali nato dagli accordi del 1992-93.

Le tesi contrapposte

Da un lato si argomenta che i salari sono cresciuti poco in confronto alla produttività, dall’altro si fa presente che la moderazione salariale ha avuto la sua contropartita nell’aumento dell’occupazione. I segni dell’affanno del nostro modello contrattuale erano visibili già qualche da qualche anno, a partire dalla mancata sigla del contratto dei metalmeccanici per il biennio 2002-2003 da parte della CGIL. Nell’ultimo anno prima la vertenza dei metalmeccanici e poi lo scoppio di conflittualità nel settore dei trasporti hanno reso manifesta la crisi.
Ma siamo davvero alla fine di una fase e dobbiamo ripensare le nostre relazioni industriali? E se c’è una loro crisi quale è la cura?

Qualche numero può aiutare a fare chiarezza e a spiegare come forse i salari sono cresciuti al contempo troppo e troppo poco e che la crisi del modello di relazioni industriali va ricercata non nei comportamenti irresponsabili dei sindacati dei lavoratori o delle imprese, ma nella crisi di crescita della nostra economia.  La tesi che qui si vuole sostenere è che il nostro modello di relazioni industriali ha dato buona prova di se: l’Italia ha un problema salariale e di occupazione, ma entrambi dipendono da un serio problema di crescita.

E i numeri per chiarire la questione

Nell’ultimo decennio (1) i salari reali del settore privato – retribuzioni lorde di contabilità nazionale per unità di lavoro dipendente deflazionate con l’indice generale dei prezzi al consumo (2) – sono aumentati complessivamente del 3,2 per cento, pari allo 0,3 per cento all’anno. Come termine di raffronto, tra il 1983 e il 1993 erano saliti del 17 per cento.
Nel decennio della politica dei redditi, la produttività del lavoro è invece cresciuta del 13 per cento.
La differenza è andata a finanziare il consistente aumento dell’occupazione (7 per cento se riferita al totale, 10 per cento se riferita ai soli lavoratori dipendenti), ma la quota delle retribuzioni sul valore aggiunto è calata di un punto percentuale (di tre punti quella corretta per il numero degli autonomi).

Lo squilibrio a sfavore dei lavoratori è stato ancora più forte se si guarda alla nuova serie delle retribuzioni lorde prodotte dall’Istat sulla base degli archivi Inps. Secondo queste nuove informazioni, tra il 1996 e il 2003 (primo semestre), l’aumento dei salari nominali del settore privato, al netto dell’agricoltura e dei dirigenti, è stato del 12,4 per cento, quasi 5 punti percentuali in meno di quello indicato dalla contabilità nazionale.
Le retribuzioni reali sarebbero perciò calate di circa 4 punti, a fronte di una crescita del 4 per cento della produttività.

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I numeri indicano che certamente il mondo del lavoro ha dato un forte contributo allo sforzo di aggiustamento del paese. Oggi le famiglie forniscono al sistema produttivo il 7 per cento di lavoro in più di quanto facessero dieci anni fa e tuttavia la quota del prodotto di cui beneficiano è diminuita.

Questa valutazione non si modifica in modo sostanziale se si guarda alla produttività totale dei fattori (Ptf), cioè alla misura dell’effetto sulla produzione dei miglioramenti tecnologici e della qualità dell’input di lavoro.
Nel settore privato, tra il 1993 e il 2002, la Ptf è cresciuta del 10,5 per cento, circa sette punti percentuali in più dei salari reali. (3)

Il divario sembra dare ragione a chi sostiene l’incapacità del modello di relazioni industriali di redistribuire gli aumenti di produttività ai salari.   D’altro canto, la tesi della crescita eccessiva può trovare un qualche motivo di sostegno nel fatto che la disponibilità di lavoro non utilizzato è in Italia molto più ampia che in altri paesi, specialmente nelle regioni meridionali (solo il 55 per cento dei nostri potenziali lavoratori è occupato, contro il 65 per cento in Germania, il 61 in Francia, il 64 della media europea e il 72 per cento degli Stati Uniti). I sacrifici salariali del passato decennio hanno ridotto questo divario di occupazione, che tuttavia rimane molto ampio.

Un dilemma insolubile?

Dobbiamo allora dare di più a chi già lavora o permettere a più persone di lavorare?
Posta in questi termini la questione sembra di difficile soluzione e soprattutto foriera di ulteriori sacrifici per le famiglie o per le imprese. Tuttavia, la discussione in atto sembra confinata esclusivamente sulla linea disegnata da questo trade off, la cui strettezza non dipende dal malfunzionamento del sistema di relazioni industriali.
Piuttosto che arrovellarsi su chi deve pagare il conto, vale forse la pena fare uno sforzo per capire come migliorare il trade off, per esempio favorendo una più rapida crescita della produttività totale dei fattori, la condizione per far crescere simultaneamente salari e occupazione.

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Questa strada non è facile da percorrere a causa degli enormi ritardi nell’accumulazione di capitale umano e negli investimenti in ricerca e sviluppo. Però, una accelerazione del processo di accumulazione di capitale fisico avrebbe delle forti ricadute anche sulla crescita della produttività totale dei fattori perché una parte consistente del progresso tecnico è incorporata nei nuovi macchinari.
Nella tavola in allegato sono riportate la crescita dello stock di capitale per occupato e della produttività totale dei fattori in Europa e negli Stati Uniti. Periodi di grandi ampliamenti dello stock di capitale pro capite si associano a fasi di forte crescita della produttività totale dei fattori. La direzione causale non è ovvia, ma è indubbio che l’ammodernamento della nostra dotazione di capitale sarebbe un potente volano per un rapido incremento della produttività della nostra economia.


(1)
Le variazioni riferite a questo periodo vanno intese come la differenza percentuale tra la media dei quattro trimestri culminanti con il terzo trimestre del 2003 e la media del 1993.

(2) In questo articolo uso le retribuzioni pro capite come indicatore del costo del lavoro invece che i redditi da lavoro per evitare il problema della discontinuità dovuta all’introduzione dell’Irap nel 1998.

(3) Banca d’Italia, Relazione Annuale sul 2002, Tav. B20, pag. 144

 

 

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