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La pensione delle donne

Dal 2012 l’età della pensione per le dipendenti pubbliche sale a 65 anni. Uno scalone solo per le lavoratrici, dunque. Ma ci sono anche vantaggi. Aumenta infatti la rata di pensione: un fatto positivo se si considera che le donne sono più esposte al rischio povertà in età anziana. Tuttavia i benefici maggiori potrebbero essere culturali. Le regole meno stringenti sull’età di pensionamento sono una sorta di ricompensa per la mole di lavoro domestico e di cura che le donne si assumono. Ora, le nuove norme potrebbero portare a un maggior equilibrio nella divisione del lavoro non retribuito.

Ci sono almeno tre criteri per valutare l’’eguaglianza tra uomini e donne nel sistema previdenziale. Tuttavia, in Italia, il dibattito è eccessivamente incentrato sull’’età di pensionamento, nonostante le donne anziane siano tra gli individui più a rischio di povertà. (1) E le proposte assumono spesso carattere emergenziale, per reagire ai necessari stimoli che vengono dall’’Europa.

UNA PROSPETTIVA EUROPEA

È generalmente riconosciuto che forti sistemi di protezione sociale sono parte integrante del “modello sociale europeo”. In media, nel 2008, la spesa per la protezione sociale nei paesi dell’’Unione Europea era pari al 28,5 per cento del Pil (dato Eurostat), per la maggior parte (63 per cento) destinata a sanità e pensioni.
La politica sociale rientra nella competenza dei singoli Stati membri, ma questi tentano di coordinare le proprie politiche in sede comunitaria. In campo previdenziale, il metodo di coordinamento aperto (Mca) pone tre obiettivi:

1. Adeguatezza: garantire pensioni adeguate per tutti e un accesso alla pensione che permetta di mantenere, entro un livello ragionevole, il livello di vita standard, in uno spirito di solidarietà ed equità generazionale;
2. Sostenibilità: garantire la capacità del sistema economico e sociale di sostenere i costi del sistema previdenziale, soprattutto alla luce dell’’invecchiamento della popolazione, generato primariamente dal cospicuo calo delle nascite degli ultimi decenni. In particolare, l’’Mca propone di favorire il prolungamento della vita lavorativa e l’’invecchiamento attivo, garantendo un giusto e adeguato equilibrio fra contributi e prestazioni, nonché promuovendo l’’accessibilità e garantendo la sicurezza dei regimi a capitalizzazione (cioè, in Italia, dei fondi pensione);
3. Modernizzazione: i sistemi pensionistici devono essere trasparenti, ben adatti alle esigenze e alle aspirazioni degli uomini e delle donne e alle necessità della società moderna, di fronte all’’invecchiamento demografico e ai cambiamenti strutturali; le persone devono ricevere le informazioni necessarie per programmare il pensionamento; le riforme vanno realizzate in base al più ampio consenso possibile.
Trascurando il problema della sostenibilità, gli Stati membri presentano differenze consistenti sia nel grado con cui riescono a garantire un adeguato standard di vita agli anziani, sia nel differenziale di genere. (2)

LE DIFFERENZE DI GENERE

La previdenza sociale in Italia è fortemente basata sul sistema pubblico, che è un tipico schema alla Bismarck, nel quale le pensioni sono strettamente legate al mercato del lavoro formale e non, ad esempio, alla cittadinanza. Questa visione è in netta contrapposizione con sistemi alla Beveridge, che invece propongono una pensione pubblica da concedere a tutti in eguale ammontare (universalità della pensione).  Si possono evidenziare almeno quattro ordini di cause delle differenze di genere nelle prestazioni previdenziali.

1. Le differenze nell’’aspettativa di vita: poiché mediamente le donne vivono più a lungo, sono in grande maggioranza nelle coorti più anziane tra gli anziani, e dunque sono soggette a una maggiore soggezione al regime di indicizzazione, ovvero il modo con cui le pensioni vengono aggiornate di anno in anno (si veda la proposta di Tito Boeri). D’’altro lato, se l’equità attuariale è assunta tra i principi del sistema previdenziale, se si vuole cioè che il sistema restituisca nell’’arco del pensionamento lo stesso valore versato nell’’arco della vita lavorativa (eventualmente incrementato di un certo tasso d’’interesse, uguale per tutti), allora la maggiore longevità delle donne implica che riceveranno una pensione più a lungo, e dunque riceveranno lo stesso valore degli uomini solo se le singole rate di pensione saranno più basse.
2. I ruoli di genere, in particolare per quanto attiene alla divisione sessuale del lavoro non retribuito e di conseguenza le differenze di partecipazione al mercato del lavoro, ma anche al fatto che, a differenza di altri paesi, non c’’è divisione dei contributi previdenziali in caso di divorzio, ad esempio.
3. dinamiche interne al mercato del lavoro, quali fenomeni di segregazione o discriminazione, implicano differenze nelle dinamiche di carriera o ampi differenziali retributivi. Poiché il sistema italiano, più di altri, lega strettamente le pensioni al reddito da lavoro, in un certo senso “importa” precisamente tutti gli svantaggi sofferti dalle donne.
4. La formula di calcolo dei benefici, che potrebbe presentare sia differenziazioni esplicite tra uomini e donne (ad esempio riguardo l’età pensionabile) sia effetti differenziati di norme formalmente uniformi.

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Esempi di caratteristiche formalmente neutrali, ma sostanzialmente con ricadute negative in termini di differenziale di genere, sono: il riconoscimento di crediti figurativi per il lavoro di cura solo nel caso di maternità (e non ad esempio per la cura degli anziani); il mancato riconoscimento delle unioni di fatto (le donne sono danneggiate in quanto economicamente “parte debole” della coppia); l’’aliquota di finanziamento e di computo più bassa per i lavoratori para-subordinati, tra cui le donne sono sovra rappresentate, che implica pensioni future più basse; potenzialmente, il diffuso ricorso ai pre-pensionamenti e pensionamenti anticipati, quando la titolarità del relativo privilegio è legata alla contribuzione accumulata precedentemente o ad ambigui criteri legati ai “carichi di famiglia”.

LE RIFORME ITALIANE

È possibile considerare l’’insieme delle numerose riforme previdenziali che si sono succedute dal 1992 ad oggi (Amato, Dini, Prodi, Maroni, Damiano), evidenziando le modifiche che hanno prodotto effetti positivi, negativi o neutri sul differenziale di genere delle prestazioni previdenziali:

1. Riforma Dini, effetto positivo: l’’intera vita contributiva è conteggiata ai fini della determinazione del montante contributivo. Questa innovazione incide positivamente perché le donne presentano una dinamica retributiva più contenuta, e il gender pay gap è crescente con l’’età: quindi se prima si conteggiavano solo gli ultimi anni di carriera, questi favorivano sproporzionatamente gli uomini.
2. Riforma Dini, effetto positivo: il meccanismo della capitalizzazione composta dei contributi. Simulando una sorta di investimento finanziario per i contributi versati, attribuisce più peso alle fasi iniziali della carriera, quindi valgono le considerazioni del punto precedente.
3. Riforma Amato, effetto negativo: l’’indicizzazione delle pensioni ai prezzi invece che ai salari. Riduce di più le pensioni per le coorti più anziane, dunque maggiormente per le donne.
4. Riforma Dini, effetto negativo: il rafforzamento del principio individualistico e l’’obiettivo dell’’equità attuariale. Si trasferisce così ogni differenza di genere presente sul mercato del lavoro al campo pensionistico.
5. Riforma Dini, effetto neutrale: l’’uso di coefficienti di trasformazione medi, uguali per uomini e donne. (3)
6. Tutte le riforme, effetto ambiguo: la graduale equiparazione dell’età di pensionamento (ricercata con diversa gradualità).

UN NUOVO SCALONE

Le recenti decisioni del governo introducono una sorta di nuovo “scalone”, che obbligherà le lavoratrici pubbliche ad andare in pensione di vecchiaia a 65 anni dal 2012, con un innalzamento secco dell’età di pensionamento da 61 a 65 anni.
Dal punto di vista della sostenibilità, il provvedimento avrà un impatto modesto: il risparmio complessivo derivante dall’anticipo al 2012 dell’innalzamento dell’età per andare in pensione è stato valutato dal governo in 1,450 miliardi tra il 2012 e il 2019.
Più complessi sono i riflessi in termini di adeguatezza e modernità del sistema previdenziale. La misura ha certamente un aspetto negativo: la riduzione del margine di libertà nella scelta del momento di pensionamento per le donne, rispetto agli uomini, perché queste riescono ad accumulare meno contributi degli uomini e quindi hanno più difficoltà a ottenere una pensione contributiva. (4)
C’’è però un aspetto positivo da tenere in considerazione: andando in pensione più tardi, la maggior parte delle donne riceverà una rata di pensione più alta. Poiché le donne sono particolarmente esposte al rischio di ricevere un reddito molto basso in età anziana, è un aspetto tanto importante quanto gli altri.
Infine, una questione fondamentale, ma finora poco discussa e studiata, è l’’impatto dell’’attuale trattamento “di favore” per le donne (che per ora rimane nel settore privato, riguardando la riforma solo il settore pubblico), sulla cultura del paese e in particolare sulle aspettative. Giustificando, anche se implicitamente, l’’applicazione di regole meno stringenti sull’’età di pensionamento come un riconoscimento per le interruzioni contributive e gli altri disagi dovuti al lavoro non retribuito delle donne, i ruoli di genere tradizionali vengono formalmente riconosciuti e legittimati. (5)
Da questo punto di vista, è possibile distinguere le riforme degli anni Novanta (1992 Amato, 1995 Dini, 1997 Prodi) che tendevano tutte all’uniformità di trattamento e alla rimozione di apparenti favoritismi, dalla riforma Maroni del 2004, che invece reintroduce esplicitamente una distinzione tra uomini e donne, sebbene con riferimento ad alcune limitate categorie di lavoratori.
Per osservare tale impatto, è possibile tentare di stimare l’’effetto delle prime tre riforme sulle aspettative dei lavoratori, nel senso di una internalizzazione dello spirito di uguaglianza di trattamento. Come mostra la figura 1, a seguito delle riforme degli anni Novanta, la situazione di forte discrepanza tra uomini e donne nell’età attesa di pensionamento viene completamente annullata, con una sostanziale equivalenza delle aspettative dopo il 2000.
Ben venga, dunque, la nuova correzione di rotta e sia anzi estesa alle lavoratrici del settore privato, magari garantendo al contempo più flessibilità nella scelta per tutti, uomini e donne, se i suoi effetti saranno quelli di confermare che alla politica non spetta “ricompensare” le donne, dopo che si sono ingiustamente fatte carico di gran parte del lavoro non retribuito, ma tentare di stabilire un ambiente consono al riequilibrio dei carichi di lavoro domestico e di cura.

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Figura 1. Età di pensionamento mediamente attesa, prima e dopo le riforme degli anni ’90

(1) Si vedano i diversi interventi comparsi su lavoce.info (voce PENSIONI) e in particolare l’articolo di Agar Brugiavini (1 giugno 2010). Si veda anche l’’articolo di Michele Raitano su www.ingenere.it (15 gennaio 2010).
(2) Vedi Corsi, M. e D’Ippoliti, C. (2008), “Poor Old Grandmas? On Gender and Pension Reforms”, The Nordic-Baltic Network on Gender Responsive Budgeting – Discussion Paper, n. 2.
(3) Il coefficiente di trasformazione è il numero che, moltiplicato per il montante contributivo accumulato dal singolo lavoratore o lavoratrice, permette di determinare la rata di pensione. Questo valore dipende dall’età anagrafica al momento del pensionamento (e non dall’anzianità contributiva) in quanto scopo della riforma Dini era approssimare l’equità attuariale del sistema, ovvero l’uguaglianza ex-ante del valore attuale del flusso di pensione (rendita vitalizia) ricevuto da ciascun lavoratore/lavoratrice. Poiché attualmente le donne presentano in Italia un’’aspettativa di vita sia a zero che a 60 anni superiore a quella degli uomini, e dunque riceveranno mediamente un numero di rate di pensione superiore a quello degli uomini, l’equità attuariale implica che, per poter ricevere lo stesso valore attuale le donne dovrebbero ricevere rate di pensione di importo inferiore. Ovvero, sulla base del principio individualistico, il coefficiente di trasformazione dovrebbe essere differenziato per genere. Alcuni autori sostengono che l’’uso di uno stesso coefficiente di trasformazione costituisce un trasferimento dagli uomini alle donne: si veda ad es. Aprile, R. (2009) Differenze di genere nel sistema pensionistico pubblico: un’analisi delle prospettive di medio-lungo periodo, relazione presentata al convegno “Donne e Pensioni”, Sapienza Università di Roma, 4 dicembre.
(4)Vedi Boeri, T. e Brugiavini, A. (2008), “Pension Reforms and Women Retirement Plans”, Journal of Population Ageing, vol.1, pp. 7-30.
(5)La questione è tanto più grave, quanto più le aspettative si dimostrano in realtà lente e difficili da cambiare, come notano Bottazzi, R., Jappelli, T. e Padula, M. (2006), “Retirement expectations, pension reforms, and their impact on private wealth accumulation”, Journal of Public Economics, vol. 90, pp. 2187-2212.

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La risposta ai commenti

18 commenti

  1. Sergio

    L’aumento dell’età pensionabile ha senz’altro effetti virtuosi sulla spesa pensionistica sostenuta dallo Stato. Ma quali gli effetti sul ricambio generazionale nel mercato del lavoro? Non avrebbe più senso pensionare prima e incentivare l’immissione di giovani qualificati nel mercato in sostituzione di una vecchia guardia che non produce più come quando aveva 25 anni? Esistono studi sugli effetti di un abbassamento dell’età pensionabile?

  2. Angela

    Articolo quasi accattivante, se non fosse che sulla pelle delle donne ed in nome delle pari opportunità non si può scherzare. Viene enfatizzato l’aspetto positivo che questa riforma avrà sulle donne che avranno pensioni più elevate, migliori prospettive sociali, migliore qualità della vita. Come donna che lavora da trenta anni francamente non vedo tutti questi vantaggi, non sono un’economista e quindi mio parere rispecchia il mio disagio personale. Questa riforma peggiora le mie aspettative di vita, modifica i miei progetti e da un punto di vista lavorativo non miporterà alcun vantaggio perchè in Sanità lavorare fino a 65 anni è rischioso per il paziente che viene assistito. Temo che l’ottimismo a tutti i costi miri a farci digerire un’ingiustizia talmente grande che non volerla vedere è da sciocchi. Le donne hanno chiesto parità ,non uguaglianza rispetto agli uomini. Le donne non sono uguali agli uomini, è talmente evidente da non doverlo neppure argomentare. La biologia stabilisce questa diversità.Vivere più a lungo non significa vivere meglio, Vivere fino a 80 anni non significa vivere in buona salute fino ad 80 anni. Questo secondo me è l’errore di fondo.

  3. Annamaria

    Approvo in pieno lo scritto di Sergio…Ho 57 anni 33 anni di servizio, mi dite che cosa ci sto a fare io nell’ambiente di lavoro, mentre ci sono giovani disoccupati in giro per l’Italia? Secondo me è tutta una manovra fondata sulla speranza che qualcuno (ahimé) non arrivi alla pensione. Allora sì che ci saranno risparmi per lo stato!

  4. FrancescoG.

    Sulle pensioni temo sempre lo scontro generazionale. Noi che abbiamo dai 25 ai 35 anni non ci pensiamo nemmeno all’età della pensione. Sappiamo che dobbiamo lavorare 40 anni. Serve più apertura e libertà d’azione per creare benessere e lavoro. Con uno stato sociale presente e funzionante. La Svezia sta in alto alle classifiche di crescita proprio con quest’impostazione. Da noi qualche nuova idea (no la patente a 80 anni, anche se sei sano), fa pensare che siamo diventati come macchine da produzione: utili solo a sostenere la ditta e, a fine ciclo, da rottamare. Ho due domande. Si è ormai quasi completamente passati dal sistema retributivo al contributivo. Se ci sarà, quando è previsto il calo della curva di spesa? Con il sistema contributivo, la reversibilità in caso di decesso di un coniuge è sempre del 60%?

  5. Maria Luisa Delvigo

    Credo che il punto di vista cambi completamente a seconda dell’età e dell’anzianità lavorativa. Chi potrebbe andare in pensione oggi, o tra poco, con una pensione non troppo diversa dallo stipendio non vede motivo di prolungare gli anni di servizio (se non per eventuali gratificazioni personali che il suo lavoro gli offre). Chi è giovane o ha iniziato a lavorare tardi, avendo poca anzianità contributiva, può trarre sicuramente vantaggio economico da un allungamento della vita lavorativa visto che ci attendono pensioni molto più magre. Tuttavia non possiamo nasconderci che la parità tra i sessi dovrebbe passare anche per altre vie e che attualmente le donne sostengono un peso enorme trovandosi spesso ad affrontare la cura degli anziani e dei nipotini (dopo aver già tentato di conciliare lavoro e famiglia per diversi anni…): non c’è nulla di strano che molte vogliano andare in pensione il prima possibile. In futuro certamente, in alternativa a pensioni inadeguate, stare di più al lavoro darà maggiori gratificazioni economiche, ma sarebbe auspicabile un maggiore sostegno esterno alla famiglia. Forse un po’ di flessibilità e di discrezionalità potrebbero essere raccomandabili.

  6. Diana

    E’ pacifico che la disparità legata al genere andasse in qualche modo sanata. Ho qualche dubbio, tuttavia, che la modalità seguita sia stata colta al volo essenzialmente per i positivi effetti sui conti pubblici (visto che l’Europa non ha indicato quale strada seguire) e non per i possibili benefici per le donne. Soluzioni alternative, quali meccanismi di uscita flessibile per uomini e donne, avrebbero richiesto tempo e soprattutto ricerca di compromesso per la loro stesura. Ho dubbi, inoltre, che il risparmio conseguito sarà davvero destinato alle donne/famiglie che si troveranno in situazione critica a causa del posticipo del pensionamento. Perché non pensare a voucher per badanti/babysitter indirizzati primariamente proprio a quelle donne che non potranno andare in pensione a causa di questa modifica?

  7. Daniele

    Al pari degli altri paesi europei sarebbe giusto equiparare l’età pensionabile di uomini e donne, certo, ma prima credo che occorra garantire lo stesso sostegno che gli altri paesi europei garantiscono alle famiglie che hanno figli o anziani non autosufficienti da curare. In Italia le famiglie sono state dimenticate e spesso e volentieri laddove non arriva lo Stato si sacrificano le donne. Il rischio è quindi di danneggiare le giovani coppie che hanno figli (come se non fossero già penalizzate a sufficienza) e che non potranno contare sull’indispensabile aiuto dei genitori, e le famiglie stesse che avranno più difficoltà ad accudire i vecchi non autosufficienti, dovendo ricorrere a badanti o case protette con notevole aumento delle spese. Qualche vantaggio certo, ma gli svantaggi mi sembrano molti di più.

  8. Confucius

    Essendo il provvedimento applicato alle dipendenti pubbliche, ci dovrebbe essere addirittura un aggravio di costi. E’ vero che l’Inps risparmierà 5 anni di pensione (pari all’80% dello stipendio), ma la Pubblica Amministrazione dovrà pagare 5 anni di stipendio pieno (100%). Le decisioni europee non si applicano sempre (vedi i casi di Rete 4 sul satellite e quote latte), ma se si tratta di bastonare chi lavora i nostri governanti non hanno mai dubbi.

  9. francesca

    Il riequilibrio della divisione del lavoro non retribuito credo che non si corregga solo aumentando l’età pensionabile.Temo che questa "ricontrattazione" sarebbe solo una questione privata e familiare e quindi ancora a carico delle donne.

  10. Sandro

    Al di qua del merito della questione: Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Far andare in pensione prima le donne mi sembra semplicemente incostituzionale.

  11. Angelo Giubileo

    Non c’è nessun risparmio che derivi sic et simpliciter dall’anticipazione della misura dell’innalzamento dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego. Anzi, il contrario! Il risparmio deriva viceversa dall’adozione di due altre misure, alla prima collegate, che riguardano il personale del settore pubblico, previste nella manovra finanziaria di cui al D.L. 78/2010: il congelamento degli stipendi per un triennio e un diverso meccanismo di calcolo della liquidazione a decorrere dall’1/1/2011 (art. 12, comma 10 D. L. 78/2010).

  12. Mara Mangolini

    Mi chiedo perché per forza debba essere un fatto negativo certo,come l’aumento dell’età pensionabile, a creare un comportamento virtuso, futuro e incerto: la condivisione del lavoro non retribuito. Sarebbe meglio pensare e creare prima dei reali elementi di incentivazione alla condivisione e sviluppare servizi di aiuto alla persona che sono invece saldamente avvinghiati alle spalle delle donne.

  13. Carla

    Portare l’età pensionabile delle donne a 65 anni senza un cambio culturale nelle pari opportunità nel mondo del lavoro è l’ennesima penalizzazione alle donne che lavorano. L’Europa , vedi Lisbona, ci dice anche che ci devono essere maggiori servizi alle donne, asili nido in primis e invece che succede? Tagiano asili nido, tagliano scuola a tempo pieno, mobbing sul lavoro alle mamme, non ci saranno più le nonne xchè al lavoro, in una Italia che non ha crescita demografica pensiamo come faranno le giovani donne a fare figli? Ma voi uomini dove siete in tutto questo?

  14. Palmira T

    E’ solo una presa in giro. Così adesso le donne saranno come al solito beffate due volte. Stipendi piu bassi degli uomini, zero posti dirigenziali, doppio lavoro (perché non dimentichiamo che la casa checchè se ne dica è quasi tutta sulle spalle delle donne), uno stato che parla tanto di famiglia ma che poi non agevola in niente la gestione della stessa (quindi zero asili nidi, zero asili pubblici che rispettino gli orari delle donne che lavorano-che me ne faccio di un asilo che chiude alle 4 se io finisco spesso alle 7?) quindi oltre al danno la beffa. Le donne sono umiliate sfruttate, sottopagate, ed in piu dopo aver fatto due lavori tutta la vita a costo zero, sarnno costrette ad andare in pensione come gli uomini. Vogliamo parlare delle donne che lavorano a scuola, e che grazie a questo governo indecente si vedranno decurtare 3 anni di aumenti nella busta paga?

  15. Margaret Thatcher

    Sono soddisfatto da questa manovra nonché da questa riforma delle pensioni perché corregge due aspetti distorti dal punto di vista attuariale: 1. equiparazione dell’età pensionabile delle donne: era ora, anche perché le donne andavano in penzione prima degli uomini solo in Grecia (bell’esempio). Se vuoi la parità la devi prendere nei diritti e nei doveri…. Anzi bisogna estenderla al più presto ai privati (prima di prenderci un’altra infrazione comunitaria) e meglio ancora se l’età pensionabile (o almeno i coefficienti di trasformazione )venissero legati all’aspettavita di vita, così ci sarebbe una demutualizzazione tra i sessi: le donne in pensione più tardi o con meno pensione degli uomini. 2. l’aggiornamento dei requisiti dell’aspettativa di vita è troppo procastinato in la… Bisognava farlo partire subito. Tra l’altro 65 anni per la peszione di vecchiaia erano previsti dalla riforma di Bismarck del 1880! Meno male che Silvio c’è.

  16. Carmela

    Assolutamente ingiustificabile l’innalzamento dell’eta’ pensionabile alle donne del pubblico impiego. Soprattutto a quelle che hanno pianificato, a pochissimi anni dalla pensione, la loro vita in questa prospettiva. Il T.A.R. dovrebbe essere chiamato a pronunciarsi su tale stravolgimento della vita delle interessate. Saranno soprattutto le famiglie di nuova costituzione a pagarne lo scotto, in quanto le nonne dovranno pensare alla lora vita lavorativa e non a sostenere i loro figli ormai genitori. Molte donne lavcorano in struttrure dove hanno orari non compatibili con asili, nidi e scuole. Fino ad oggi hanno contato sulle loro mamme, da oggi in avanti si orienteranno a non mettere più al mondo figli, perchè orami è palese che nessuno potra’ piu’ aiutarle.

  17. Enzo Gondolo

    Faccio notare che, come al solito, non viene scritto che resta comunque salvo il pensionamento per la lavoratrici che raggiungono i 40 anni di anzianità prima del compimento del 65° anno di età e per quelle che raggiungono la quota prevista dal decreto Maroni.

  18. marilena

    L’innalzamento dell’età pensionabile alle donne del pubblico impiego è solo una presa in giro. Specialmente per quelle come me che hanno fatto un progetto, e vicine ai 60 anni. Il T.A.R. dovrebbe pronunciarsi sullo stravolgimento della vita di noi povere donne costrette a lavorare fino a 65 anni con genitori o suoceri anziani da accudire senza avere i soldi per pagare la badante o la casa di riposo, oppure senza poter aiutare le famiglie di nuova costituzione, in quanto noi nonne dovremo pensare alla vita lavorativa e non a sostenere i nostri figli diventati genitori. Poi, scusate, ma dove sta la giustizia di casa? Si parla tanto di parità, ma quale parità? Dove sono gli uomini che si occupano dei lavori domestici, dei genitori vecchi, dei nipotini… e magari loro sono già in pensione perché a 58 anni hanno raggiunto i 35 di contributi e quindi maturato il diritto alla pensione? Perchè a noi povere disgraziate non è concessa la possibilità di scelta? Di poter andare in pensione a 60 anni con i contributi versati (32)? Perché noi dobbiamo essere discriminate all’inverosimile?

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