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C’è un futuro per la Fiat in Italia?

Il sistema produttivo che la Fiat intende applicare su larga scala richiede l’utilizzo a ciclo continuo degli impianti, il consenso da parte della forza lavoro, le certezze sulla gestione dei rapporti sindacali. La vicenda di Pomigliano ha rimesso in discussione il progetto “Fabbrica Italia”. Le scelte provocatorie della Fiat mirano ad ottenere una risposta chiara sulla possibilità di portare avanti il progetto. Lo spazio di trattativa è sempre più ristretto. Senza un accordo, si rischia il ridimensionamento della capacità produttiva in Italia.

I FATTI

Il 21 aprile la Fiat annuncia il progetto Fabbrica Italia, che prevede la separazione societaria delle attività automobilistiche dal resto del gruppo e un investimento di 20 miliardi di euro in Italia per ribadire il radicamento italiano di un’’impresa che si sta trasformando sempre di più in una multinazionale. Il primo passo riguarda lo stabilimento di Pomigliano d’’Arco, dove la Fiat prevede di spostare dalla Polonia la produzione della Panda. A fronte di un investimento di 700 milioni, l’’azienda chiede la firma di un contratto duro, per garantire governabilità dello stabilimento e saturazione degli impianti. Tutti i sindacati firmano con esclusione della Fiom, che accusa l’’azienda di violare il contratto nazionale e la Costituzione. Il referendum fra i lavoratori conferma l’’accordo con una maggioranza del 62 per cento, molto al di sotto del “plebiscito” sperato dai firmatari. La Fiom è oggettivamente la vincitrice di questo round. La reazione della Fiat è composita. Da una parte, conferma l’’investimento su Pomigliano e l’’accordo “con chi ci sta”, per non rompere l’’asse con i sindacati firmatari. Dall’’altra, prende provvedimenti che accrescono il livello dello scontro: licenzia cinque lavoratori accusati di ostruzionismo o assenteismo, non concede il premio di produzione, delibera lo scorporo e, il segnale più forte di tutti,  annuncia che la “L0”, che sostituirà alcuni modelli attualmente prodotti a Mirafiori, verrà prodotta in Serbia. Da ultimo, le voci di costituzione di una newco, cioè di una nuova società svincolata da obblighi di contratto nazionale che imporrà ai singoli lavoratori di Pomigliano la firma del nuovo contratto.

LE RAGIONI DIETRO L’’ACUIRSI DELLO SCONTRO

La situazione ha preso una piega molto brutta. Le posizioni di Fiat e Fiom diventano sempre più inconciliabili, come riconosciuto anche da Epifani. È fondamentale capire perché si è arrivati a questo punto per trovare vie di uscita.
Una possibilità, avanzata da diversi commentatori, è che in realtà la Fiat avesse già deciso il ridimensionamento della produzione in Italia. Tutti i fatti sopra riportati sarebbero solo una brutta commedia per poter tagliare le produzione addossando a qualcun altro la responsabilità. Se questo fosse il caso, sarebbe utile che Fiat lo dicesse apertamente,  come argomentato da Carlo Scarpa su questo sito.
Esiste una seconda interpretazione. Il piano Fabbrica Italia funziona solo se gli impianti italiani raggiungono alti livelli di produttività. Il sistema produttivo che la Fiat intende applicare su larga scala (il world class manufacturing) richiede l’’utilizzo a ciclo continuo degli impianti, il consenso da parte della forza lavoro, le certezze sulla gestione dei rapporti sindacali. In quest’’ottica, non basta che aderisca la maggioranza dei sindacati: serve un accordo che impegni tutti i lavoratori. Qualunque sindacato, quindi, ha di fatto diritto di veto sugli accordi. Quello della Fiom è rafforzato dal fatto che la sua posizione è minoritaria ma non marginale fra i lavoratori, come dimostrato dal referendum di Pomigliano. Secondo questa interpretazione, il management Fiat ha sbagliato le proprie valutazioni, in quanto si aspettava una accoglienza positiva unanime al progetto di rilancio di Pomigliano. La netta opposizione della Fiom ha colto di sorpresa l’’azienda. A questo punto, tutto il progetto Fabbrica Italia è stato messo in discussione, data l’’incertezza sulla gestione dei rapporti industriali.
L’’escalation di scelte provocatorie da parte della Fiat mira a rompere questa incertezza. Marchionne lo ha detto esplicitamente. Ma, da esperto di contrattazione,  sa bene che solo gesti che segnalino chiaramente la posta in gioco possono provocare  una reazione. Questo è particolarmente vero in Italia, dove solo le emergenze sono in grado di sollecitare risposte forti. Il manager vuole sapere se le condizioni di gestione delle fabbriche che lui ritiene necessarie per il rilancio dei siti produttivi italiani siano assicurabili oppure no. Le sue scelte puntano a risolvere al più presto l’’incertezza, costringendo la controparte a scelte chiare: sì o no, e l’’azienda deciderà di conseguenza. Il “ni” non basta.
È difficile prevedere gli esiti dello scontro. L’’accelerazione imposta da Marchionne stride con i tempi della politica italiana,  abituata a rinviare in eterno la risoluzione dei nodi strutturali che frenano lo sviluppo del paese. Come in ogni trattativa, l’’elemento fondamentale è l’’alternativa in caso di rottura. Per la Fiat, il radicamento produttivo in Italia è ancora forte. Tuttavia, un ridimensionamento sostanziale della capacità produttiva è alla portata, come la scelta serba vuole segnalare. Per i lavoratori, esistono poche alternative. Un ridimensionamento della Fiat avrebbe conseguenze nefaste su un sistema industriale già provato da 15 anni di crescita asfittica e con una presenza ai minimi termini di grandi imprese. In questi termini, è chiaro chi ha più da perdere da una rottura. Non sembra pensarla così la Fiom, che, del tutto legittimamente, antepone questioni di principio alla possibile chiusura degli stabilimenti. Il problema è che la sua scelta di intransigenza coinvolge tutti i lavoratori, anche quelli che la pensano diversamente, a causa del diritto implicito di veto discusso sopra.

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ESISTONO VIE D’’USCITA?

L’’atteggiamento intransigente assunto dall’’azienda dopo Pomigliano, che si contrappone a quello altrettanto rigido della Fiom, ha condotto la trattativa in un vicolo cieco. Vale la pena percorrere tutte le strade per riaprire il dialogo. Il ministro Sacconi sembra iniziare a capire che presiedere il “Ministero per la Divisione Sindacale e l’’Isolamento della Cgil” non è il modo migliore per accompagnare questa difficile partita. Purtroppo, è improbabile che la riapertura tavoli negoziali possa sbloccare la situazione se non si ha qualcosa da proporre. A parole, Sacconi ha colto il punto di quello che il governo deve fare: predisporre le infrastrutture materiali e immateriali per poter fare impresa in modo efficiente. In questo caso, l’’aspetto più urgente è la riforma del sistema di rappresentanza. La globalizzazione impone tempi di reazione molto brevi da parte delle imprese.  Come sostenuto da Tito Boeri e Pietro Ichino, un sistema in cui l’’impresa deve trattare con cinque o dieci sigle sindacali non può garantire efficienza e celerità. L’’ipotesi della “newco” a Pomigliano costituisce una riforma di fatto del sistema di relazioni industriali. Un “rompete le righe” non regolamentato sarebbe di dubbia legittimità giuridica, e quindi soggetto alla possibilità di infiniti ricorsi. Potrebbe inoltre innescare una stagione di conflittualità sociale. Meglio una riforma condivisa da fare in tempi brevissimi in Parlamento, che garantisca forza ai rappresentati sindacali per trattative anche dure, ma rompa il diritto di veto di ogni sigla.

CONCLUSIONI

All’’inizio dell’’anno scrissi su questo sito che la vicenda Fiat avrebbe rappresentato una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia. La valutazione degli eventi degli ultimi sei mesi fa temere il peggio. Le scelte di rottura dell’’azienda aumentano la posta in gioco, diminuendo lo spazio di manovra e accorciando i tempi entro i quali si possa trovare un accordo per far partire Fabbrica Italia. L’’inconcludenza della politica e le divisioni sindacali rendono altamente improbabili le risposte necessarie per una soluzione positiva per il Paese. A questo punto, il disimpegno progressivo di Fiat dall’’Italia è un’’ipotesi concreta. L’’ottimismo di maniera non riuscirà a mantenere i posti di lavoro. Servono azioni immediate e decise.

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La risposta ai commenti

22 commenti

  1. Franca

    Mi scusi, ma il fatto che la Fiat abbia deciso di utilizzare a ciclo continuo non significa mica che i lavoratori debbano essere utilizzati "a ciclo continuo"; non si può giustificare questo bisogno di aumentare la capacità produttiva con l’aumneto delle ore di lavoro e la perdita di alcuni diritti fondamentali come la pausa. Inoltre, vogliamo ricordare la curva d’apprendimento? Diciamola tutta, Marchionne vede il panorama italiano sia politico che sindacale solo come una viscida palude e non vede l’ora di sgaiattolare fuori.

  2. vaccaro carmine

    A mio parere Marchionne in un solo colpo fregandosene del governo e del sindacato tenta di risolvere il conflitto che dura da anni tra produzione e salario. Infatti, è questo conflitto che porta dagli anni novanta a oggi ad avere un costo del lavoro per unità di prodotto il più alto d’Europa e di conseguenza il salario più basso d’Europa. La Fiat vuole efficientare il sistema delle produzioni aumentando la produttività abbasando senza il coinvolgimento di nessuno assenteismo scioperi, vedi Pomigliano. Ci sono due grossi problemi in Italia, la legge sulla rappresentatività e l’assenza di una strategia industriale dello stato diversamente da quanto accade nelle americhe di Obama. Non esistono ricette semplicistiche, ma da qualche parte bisogna pure iniziare. Provo a dire la mia: il sindacato deve rivedere e contestualizzare la sua azione cominciando sul serio a parlare di democrazia economica, e bisogna necessariamente posizionare il lavoratore al centro dei processi produttivi cominciando sul serio a premiare il merito e la presenza. Non so cosa ne pensate, a presto, un vostro assiduo lettore.

  3. franco

    Schivardi ha ragione il pericolo che Fiat lasci è forte. Ma il vero problema sono i tanti (sindacalisti e intellettuali) che non si sono resi conto che la globalizzazione se impone a noi di rinunciare a conquiste che pensavamo definitive, è anche il mezzo per far crescere chi sta molto peggio. Sono stato colpito da due cose di recente: i giovani di Pomigliano hanno votato no per avere libero il sabato; sul Ft un economista cinese rammentava che il reddito dei suoi concittadini anche se in crescita è un decimo di quelli occidentali.

  4. Daniele Robiglio

    L’ "auto" offre una comodità a costi individuali e sociali sempre meno sostenibili. La domanda cresce nelle aree di recente industrializzazione. Nel resto è una domanda di sostituzione. E’ un prodotto obsoleto. Il bisogno di mobilità sarà sempre più coperto dai mezzi pubblici, sistemi di "car sharing", con stili di vita più sani ed economici. L’abbattimento dei costi presuppone pochi produttori globali con localizzazioni a costi produttivi bassi. La parabola Fiat è stata prima il monopolio e gli aiuti statali e ora è un manager forte e libero da condizionamenti nazionali che ha usato la debolezza italiana per aprire il capitale Fiat al gioco globale. Forse occorre pensare meno all’auto e molto alle infrastrutture, ai porti, alle ferrovie, al turismo, alla difesa dei beni culturali, al rilancio agricolo- alimentare, alle produzioni di eccellenza delle piccole e medie imprese, alla ricerca e alla formazione. Difficile per un paese politicamente disastrato come il nostro.

  5. riccardo nogara

    La Marchionne-Fiat sta proponendo alla forza lavoro, in un libero mercato globalizzato, di adeguarsi alle esigenza fondamentale di stare nel mercato; cioè produrre auto sempre più competitive, sempre più apprezzate dal consumatore senza se e senza ma, altrimenti saranno altre ad essere preferite ed acquistate. Il libero mercato globale, non fa distinzione tra imprenditore e lavoratore, riconosce solo il prodotto richiesto dal consumatore. Semmai l’imprenditore e lavoratore dovranno stringere un patto di solidarietà finalizzato a produrre oggetti (auto o altro) che possano sempre più catturare l’interesse del consumatore, perchè ci saranno altri imprenditori e lavoratori che faranno gli stessi oggetti nel resto del mondo. E nel mondo ci sono ricchi e molti poveri. Questi ultimi giustamente voranno quantomeno essere meno poveri anche se a scapito dei ricchi, che, tuttavia, dovranno essere ancor più competitivi per continuare a vendere, non perdere quote di mercato, pena l’impoverimento per gli inevitabili licenziamenti.

  6. teu

    Tutti gli articoli che si leggono in questi giorni sul caso Fiat, danno quasi per scontato che sia naturale e non contestabile che si licenzino operai in Italia (o piu’ in generale nei paesi occidentali) per aprire fabbriche in paesi a minor costo del lavoro. Il mio punto di vista in proposito e’ radicalmente opposto: ho sempre pensato che assumere una persona non sia equivalente a comprare una macchina e che una persona non debba poter essere semplicemente dismessa quando non conviene piu’ mantenerla. La chiamerei "responsabilita’ sociale dell’imprenditore", in quanto licenziando un imprenditore crea un costo per la collettivita di cui a mio parere dovrebbe assumersi in parte l’onere. In questo senso vedrei bene una legge che imponesse agli imprenditori che chiudono interi stabilimenti di cercare un acquirente prima di dismetterlo o in alternativa di pagare almeno tre annualita’ complete a tutti i dipendenti che vengono licenziati. E’ ora di finirla con i ricatti alla Marchionne (perche’ di questo si e’ trattato, non di altro) e con le persone che prendono i soldi dallo stato e poi lo lasciano con il cerino della disoccupazione in mano!

  7. martelun

    La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. (art. 4 Cost. Italiana) Lettera aperta all’Assemblea Regionale Siciliana. Superare la Fiat di Sergio Marchionni! Nel febbraio 2007 fu firmato l’accordo tra il governo Prodi e la Fiat per il rilancio di Termine Imerese. Nel luglio 2007 il Consorzio di Sviluppo Industriale di Palermo tratta con gli uomini Fiat il Contratto di Programma che prevedeva un investimento di 1,316 miliardi di euro di cui 356 milioni di euro di contributi, 350 milioni di euro Sviluppo Italia Sicilia e 150 milioni di euro la regione Sicilia più la norma sull’apprendistato. Ad inizio 2008 l’Assemblea Regionale Siciliana non decide sulla norma per continuare il Progetto. A febbraio scioperano gli autotrasportatori. Il 30 aprile del 2008 la Fiat firma con il ministero dell’Economia e dello Sviluppo regionale serbo un memorandum d’intesa per una jont venture di cui la Fiat detiene il 66,5% e lo stato serbo il 33,5%. Il resto su http://www.progettoalternativo.com/

  8. enzo

    Quanti stabilimenti di industrie automobilistiche "straniere" sono presenti in Italia? Quanti si prevede che apriranno nel prossimo futuro? Come mai evitano la possibilità di investire nel bel paese? Qual è la differenza effettiva del costo del lavoro (non dei salari) in europa? I servizi offerti dal nostro paese sono davvero superiori a quelli dell’est europa? E il livello professionale dei dipendenti?

  9. ciro

    La Fiat (fabbrica, italiana, automobili, torinese) è e sarà dell’Italia, nessuno la porterà via, dal nostro paese. Gli Italiani hanno sempre lottato e lotteranno per la Fiat, proprio come ho fatto io, ero malato di cancro, ho fatto svariati anni di interferone associato con la ribavirina, dopo svariati tentativi, ora sembra che il virus sia svanito, ma il vero esito lo avrò dopo tre anni, così è anche la Fiat,ora è ammalata, e solo con farmaci appropriati potrà guarire e risolgere con pieno rigore e tantissima forza. Io ho fede in Lei, e spero di non sbagliarmi. A presto.

  10. Marcello Battini

    Qualcuno ha affermato che il costo della manodopera, nella produzione automobilistica, incide per il 7% del totale. Se ciò è vero, allora la questione va vista in termini diversi da quelli d’immediata comprensione. La fabbrica ha bisogno di lavoratori fidati, non ostili. La fabbrica ha bisogno di un unico interlocutore sindacale, non di trattative solenni. La fabbrica non intende più finanziare indirettamente il costo eccessivo delle strutture sindacali. Solo allora, a mio avviso, la fabbrica riprenderà in considerazione la localizzazione italiana. Se si vuole salvare i posti di lavoro in Italia, non occorrono soldi (nessun imprenditore serio li ha mai voluti, ma ovviamente, se offerti, nessuno si può rifiutare), ma occorre un cambiamento di rotta dei sindacati e delle istituzioni in generale, più che sacrifici da parte dei lavoratori.

  11. Edmont Dantes

    Mi sconcerta la superficialita’ di tanti articoli sul caso Fiat. La Fiat ad oggi non ha un piano industriale, non sforna nuovi modelli ma basa tutto sulla finanza, vedi scorpori e spostamenti, solo spostando attivita’ da una parte all’altra aggiunge o toglie poste per tornare in utile. Fino a ieri la Polonia era il modello di superproduttivita’ poi si parla di Turchia e adesso Serbia, paesi fuori EU con strane divise. Siamo seri, lo credete davvero? Dietro il solito bluf per chiedere come sempre fondi pubblici, altro che libero mercato.

  12. Gildo Matera

    Il caso Fiat e le dichiarazioni di Marchionne sulla possibilità di lasciare il sistema che contrattualmente vincola l’azienda, aprono uno scenario che andrebbe analizzato per la forza innovatrice che contiene. Innovatrice nel senso di essere capace di prospettare uno scenario di nuovi modelli contrattuali che Confindustria, nelle sue varie articolazioni categoriale, fatica a tradurre in concreto. L’accordo dell’aprile 2009 (sugli assetti contrattuali) fu un timido tentativo di introdurre un nuovo sistema di relazioni che potesse generare una architettura contrattuale confacente ai singoli casi aziendali. Oggi, al di là dell’oggettiva difficoltà tecnico-giuridica di essere praticata, la proposta che Marchionne lancia riapre una questione che non può essere risolta con una deroga contrattuale solo per la newco di pomigliano. Come reagirebbero le altre aziende? Le questioni che Fiat pone (organizzazione lavoro, produttività ecc) interessano tutto il sistema industriale italiano. Se non si saprà cogliere questo momento per rinnovare i modelli contrattuali ,abbandonnado retaggi contrattuali del passato, faremo i conti sistematicamente con l’atteggimento anti-industriale di Fiom & co.

  13. assente

    Condivido compeltamente la tesi, ma vedo la realizzazione molto difficile. Per ragioni anche ideologiche l’intervento legislativo sulla rappresentanza incontrera’ purtroppo molti ostacoli. Allargherei l’analisi alla situazione della competitivita’ di Fiat nei confronti della concorrenza europea, perche’ il quadro mi sembra preoccupante e sottovalutato, con i fari puntati solo sull’utile a breve. Se fiat non recupera su questo piano non ci sono speranze per nessuno e, a breve e medio, e’ difficile essere ottimisti. da mesi ormai, finito l’effetto incentivi, il gruppo Fiat perde quote di mercato in europa. I dati di giugno ci dicono che e’ ultimo dei generalisti e poco davanti a Bmw. Il calo su giugno 2009 e’ del 20% a poco piu di 79.000 auto. Nei sei mesi (con tre mesi di incentivi in Italia) Fiat perde il 10,2%. Con Renault (+20 %), Peugeot (+11%), VW – 1,2%. Tra i modelli piu venduti il gruppo italiano ha solo la Punto che e’ in calo del 25 %. Con Corsa (+ 10%), VW Polo (+72%), Opel Astra (+ 18%), Megane (+ 18%). Purtroppo la gamma e vecchia e schiacciata sulle piccole. Un film gia visto, non molto bello. Aspettando la gamma integrata con Chrysler che pero’ non e’ dietro l’angolo.

  14. Edmont Dantes

    La rottura della Fiat con Confindustria e’ grave, perche’ da la sensazione che siamo tutti contro tutti, la percezione che il fenomeno della mucillagine sia arrivato pure al sistema produttivo, ma cosi’ non si vince! Art.2 Statuto – La Confindustria…costituisce il sistema della rappresentanza delle imprese produttrici …che condividono i valori del mercato e della concorrenza nei quali si riconoscono.

  15. Roberto Rossi

    Dimentichiamo troppo spesso che dietro le strategie della Fiat e la competitività internazionale esistono anche i lavoratori, persone in carne ed ossa come noi, come Marchionne, come tutti i commentatori che scrivono su questi temi, come gli esperti (cito Ichino per tutti) che propongono soluzioni. Non ho rapporti con Fiom e Cgil e non so se le ragioni che agitano siano giuste o sbagliate. Salta agli occhi però l’idea, un pò preconcetta e troppo sbandierata, di lavoratori assenteisti e che remano contro. Sembra che in nome della globalizzazione esasperata le conquiste sociali acquisite vadano gettate alle ortiche per inseguire quote di mercato e profitto a tutti i costi. Questa idea a mio avviso non è né moderna né interessante: è un pò vetero capitalista e legata ad un sistema di relazioni industriali che punta ad inseguire i paesi emergenti e le loro inesistenti conquiste sociali. Vogliamo davvero un mondo in cui contano solo le ragioni dei più forti, dei Marchionne e dei loro cantori o abbiamo forse qualche modello positivo da mostrare ai paesi emegenti anche in tema di relazioni industriali e di conquiste sociali? O la dignità dei lavoratori, ad ogni latitudine, è un optional.

  16. Edmont Dantes

    Ieri un’amico polacco mi racconta che la Fiat ha detto di voler portare in Italia la produzione della Panda ed i sindacati e Governo sono stati informati di conseguenza!? Ma come non ha detto che voleva uscire dall’Italia ed ora su un altro tavolo dice che ci entra..a mano che non ci siano incentivi! Ma a quale gioco sta giocandola Fiat forse a quello delle tre carte ma le bugie hanno le gambe corte…

  17. sandro

    Una politica autorevole, di destra o di sinistra, non può farsi ricattare da un’azienda privata, tanto più da un’azienda che ad ogni minima difficoltà richiede l’intervento statale. Un Governo serio dovrebbe mettere sul piatto una riforma del licenziamento collettivo, ad hoc, per rendere molto costosa la migrazione di Fiat in Serbia. Nulla può impedire a Fiat di andarsene e di vendere le auto serbe in tutta Europa. Ma è inaccettabile che oltre a stipendi di 400 euro al mese, la Serbia offra 10 anni di incentivi fiscali e contributi pubblici alle imprese che lì investono. E’ perfettamente inutile un diritto antitrust europeo che sanziona la concorrenza sleae fra privati, se poi la legittima fra Stati membri. Ogni Stato è sovrano in tema di politica economica e fiscale, ma si dovrebbe premere per una disciplina europea degli aiuti ainvestitori residenti nell’Unione né con ogni probabilità la Fiat intende emigrare. Ha fatto presente che la Serbia concederà 200 milioni di euro a fronte di 700 investiti da Fiat. Se il Ministero investe..Lo scorso mese era chiesta la stessa cifra per tenere aperto Pomigliano. Semplicemnte, battono cassa, nella migliore tradizione del Lingotto.

  18. Carla strappazzon

    Ho sempre acquistato Fiat perchè era ed è giusto dare valore a prodotto Italiano. Appena posso cambio la fiat con altra marca. Non sono più orgogliosa di questo marchio. E vorrò vedere se e come il mercato assorbirà la produzione delle macchine prodotte in Serbia, con stipendi di sopravvivenza, xchè anche loro incominciano ad avere un costo più alto della vita.

  19. acocella salvatore

    Ho letto il vostro commento che mostra come lo o gli scriventi non conoscono la “fabbrica”, non hanno mai lavorato in fabbrica, né conoscono le “macchine” (non le adorate auto!). Dovreste sapere che gli uomini, purtroppo per i Soloni, non sono macchine, ma mangiano e dormono. Aggiungerei a “Il lavoro non è una merce” di Gallino, “l’uomo non è una macchina”. Ho letto di Erri De Luca, ma mai di un giornalista, economista, avvocato o politico sulla “fonderia”. Un personaggio, ex guardia di finanza e boscaiolo, che fleggeva Calvino e i quotidiani ifno a poco prima della sua morte (avvenuta l’anno scorso a 101 anni, soleva dire “o parlà è arte leggia (leggera)”!. Sapete benissimo che la produzione automobilistica mondiale è in eccesso (rispetto alla domanda presente e immediatamente futura). L’Africa ha perso e non guadagnato con la decantata Globalizzazione senza regole; e così l’India (non io ,ma lo dice Stglitz). Le alternative a medio – non solo per l’Italia, ma per i Paesi, o meglio, per le zone sviluppate non sta a me proporle: andremmo lontani. La Fiat sta in Italia perché sa che vende più degli altri e ottiene incentivi e aiuti, anche se indiretti.

  20. Alberto F.

    Il problema della nostra principale industria privata, e di molte altre nostre aziende, è che si trova a competere in un mercato globale dinamico (e in questo momento in difficoltà per quanto riguarda l’automobile) pur essendo basata in un paese immobile come l’Italia e governato a tutti i livelli dai dei soggetti che dovrebbero essere quantomeno in pensione.

  21. Daniele

    Se io fossi al posto di Marchionne, come imprenditore farei lo stesso. Capisco benissimo che così si rovinano tante famiglie e tante imprese collegate alla filiera, ma il profitto è il profitto, questo i hanno insegnato ad economia e commercio di Verona. Mi chiedo e gli interventi governativi, tipo riduzione delle aliquote, sia per le imprese che per le buste paga dei lavoratori dove sono? Dov’è lo Stato? quando si decideranno a varare le riforme? Ecco spiegato il perché di quello che ho scritto che è mera teoria in un paese bloccato. Voi cosa ne pensate? Attendo delucidazioni in merito.

  22. riccardo nogara

    “La globalizzazione impone tempi di reazione molto brevi da parte delle imprese. Come sostenuto da Tito Boeri e Pietro Ichino, un sistema in cui l’impresa deve trattare con cinque o dieci sigle sindacali non può garantire efficienza e celerità. L’ipotesi della “newco” a Pomigliano costituisce una riforma di fatto del sistema di relazioni industriali. Un “rompete le righe” non regolamentato sarebbe di dubbia legittimità giuridica, e quindi soggetto alla possibilità di infiniti ricorsi. Potrebbe inoltre innescare una stagione di conflittualità sociale. Meglio una riforma condivisa da fare in tempi brevissimi in Parlamento, che garantisca forza ai rappresentati sindacali per trattative anche dure, ma rompa il diritto di veto di ogni sigla. Maurizio Landini dovrebbe capire che il costo del lavoro in un mercato globalizzato non è una variabile independente, come non è una variabile indipendente l’organizzazione sociale dove si producono beni di consumo o servizi. Temo che il conservatorismo della FIOM e del Governo costringano alla fuga anche gli imprenditori più resistenti alle caste.

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