Il Parlamento europeo ha approvato una proposta sui congedi di maternità. Tre gli obiettivi: portare a 20 settimane il congedo pienamente retribuito; proteggere le donne dal licenziamento e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo. L’Italia riconosce già i primi due punti, con scarsi effetti sulle scelte di lavoro e fecondità. Perché contano di più un adeguato sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli. Il congedo obbligatorio per i padri invece può rappresentare un segnale per smuovere una cultura di disuguaglianza nella distribuzione delle responsabilità familiari e sul posto di lavoro.
La proposta legislativa sui congedi di maternità approvata nei giorni scorsi dal Parlamento europeo ha tre obiettivi principali.
TRE OBIETTIVI PER LA TUTELA DELLA MATERNITÀ
Il primo obiettivo è quello di migliorare le condizioni delle lavoratrici incinte, aumentando per le madri le settimane minime di congedo di maternità pienamente retribuite da quattordici a venti. Questa parte della proposta non cambia molto la situazione delle mamme in Italia dove le venti settimane di congedo sono già un diritto acquisito. L’unica differenza sta nel rendere omogeneo tra tutte le categorie l’indennità al 100 per cento della retribuzione, mentre attualmente il contributo è limitato all’80 per cento per alcuni contratti (legge n. 53 dell’8 marzo 2000 e il successivo decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001). Per le mamme in Germania, Francia e Gran Bretagna, che hanno congedi di maternità meno lunghi e con copertura inferiore, la situazione invece cambierà in modo significativo con vantaggi per le famiglie, ma anche costi a carico del welfare. I governi hanno infatti espresso forti riserve a causa dell’aumento dei costi per le finanze pubbliche in un momento in cui si introducono tagli non indifferenti ai sussidi alle famiglie.
Il secondo obiettivo è quello di proteggere le donne dal licenziamento introducendo il divieto di licenziare le lavoratrici per un periodo minimo che va dall’inizio della gravidanza ad almeno sei mesi dopo il termine del congedo di maternità. Anche in questo campo, per l’Italia non cambia molto dal momento che la legislazione italiana del lavoro vieta già il licenziamento fino a che il bambino non abbia compiuto un anno di vita.
Il terzo obiettivo è quello di introdurre il contributo del padre del neonato a pieno titolo per almeno due settimane nel periodo obbligatorio delle venti settimane del congedo della madre, anche se l’unione non è formalizzata dal matrimonio. È l’unica grossa novità per l’Italia, in quanto si tratta di prevedere un periodo di almeno due settimane di congedo obbligatorio per i padri, pienamente retribuito e non cedibile alla madre. In Italia già dal 2000 il padre, anche se non coniugato con la madre, ha la facoltà di prendere tre giorni di congedo alla nascita del figlio e successivamente alcuni mesi al 30 per cento del salario, anche durante il periodo di congedo obbligatorio della madre. La retribuzione per il padre in congedo è pari al 100 per cento solo per i dipendenti pubblici e solo per il primo mese. (1)
EFFETTI POSSIBILI
La proposta legislativa del Parlamento europeo si basa sull’idea che un adeguato congedo parentale porti vantaggi economici,favorendo la crescita dell’occupazione delle donne e della fecondità.
Per capire come la generosità dei congedi parentali influenzi le scelte di lavoro e di fecondità, è utile guardare ai paesi dove la proposta che arriva oggi dall’Europa è già stata messa in atto, almeno per quanto riguarda le prime due parti: lunghezza del congedo di maternità e protezione dal licenziamento. In Italia, nonostante norme generose e protettive, in tutto l’ultimo decennio l’offerta di lavoro femminile è stata stagnante (45-46 per cento) ed è addirittura diminuita nell’ultimo anno e il tasso di fecondità è cresciuto di poco (1,3-1,4 figli per donna).
In Gran Bretagna e in Francia, invece, nonostante i periodi più brevi e la minor copertura dei congedi di maternità, i tassi di partecipazione al mercato del lavoro delle donne con figli superano il 60 per cento. Non solo, il numero di figli per donna in Francia ha toccato il valore di 2, e la Gran Bretagna la sta raggiungendo. Come spiegare l’apparente contraddizione? Negli ultimi dieci-quindici anni in paesi come la Gran Bretagna e più ancora la Francia ciò che ha funzionato è un sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli in presenza di maggiori opportunità di lavoro per le donne. Secondo nostre stime, un incremento della durata del congedo parentale porterebbe, sì, a un aumento della probabilità di lavorare, ma solo per un periodo limitato e solo per le donne più istruite. (2) Non avrebbe invece quasi nessun effetto per le donne meno istruite, che possono verosimilmente usufruire meno del congedo parentale sia perché è pagato solo al 30 per cento del salario (la tendenza ad anticipare il rientro al lavoro è tipica delle madri del Mezzogiorno e con bassa istruzione), sia perché non è disponibile per tutti i tipi di contratti: generalmente per il lavoro autonomo e parasubordinato non è previsto congedo oltre quello obbligatorio.
Quanto alla protezione dal licenziamento, come emerge sia dai rapporti sindacali che da indagini locali, un numero elevato di donne è costretto a esibire il test di gravidanza nei colloqui di selezione o a firmare lettere di dimissioni prima ancora dell’assunzione, lettere che verranno usate dal datore di lavoro in caso di maternità. Anche la recente indagine Istat-Cnel Maternità e lavoro femminile, conferma questi dati: su un campione di 50mila donne occupate e in stato di gravidanza, dopo la nascita del figlio il 20 per cento non è più occupato. Di queste, il 7 per cento è stata licenziata, il 24 per cento ha dovuto smettere per contratto scaduto o per cessata attività del datore di lavoro, mentre il 69 per cento si è licenziata (almeno in parte volontariamente).
IL CONGEDO PER I PADRI
Sui possibili effetti dell’elemento nuovo per l’Italia del congedo europeo, cioè il congedo obbligatorio per i padri, può essere utile guardare ai risultati degli studi dell’Osservatorio nazionale delle famiglie che hanno monitorato l’utilizzo del congedo parentale dopo la legge 53/2000. Secondo questi dati, l’incremento nell’utilizzo del congedo parentale da parte dei padri è ancora molto limitato. (3) Negli ultimi anni ne ha usufruito solo il 24 per cento delle madri che lavorano e solo il 7 per cento degli uomini aventi diritto. (4) La ragione addotta dai padri secondo i dati Eurobarometro è di natura economica: la perdita di salario sarebbe troppo grande e preoccupano le possibili ripercussioni sulla carriera. Ma c’è anche una componete culturale: paura cioè di uno stigma sul posto di lavoro.
Dunque, il congedo obbligatorio di due settimane ai padri, anche se è un intervento limitato, può rappresentare per l’Italia un segnale simbolico importante per smuovere una cultura radicata di ineguaglianza nella distribuzione del lavoro e delle responsabilità familiari, ma anche di ineguaglianze sul posto di lavoro.
Senza aspettarsi effetti di breve periodo, la proposta di un congedo obbligatorio per i padri può essere una strada da seguire, ma l’obiettivo finale deve rimanere la possibilità di congedi parentali più condivisi tra i genitori, consentendo per esempio un congedo part-time a entrambi i genitori che consentirebbe a entrambi di non allontanarsi troppo a lungo dal mercato del lavoro con la conseguente perdita di conoscenze e gli inevitabili effetti negativi sulla carriera. Effetti questi che molte donne con figli già sperimentano.
(1) Al padre compete un periodo facoltativo continuativo o frazionato non superiore ai 6 mesi elevabile a 7 se questi fruisce del congedo parentale per almeno 3 mesi. L’opportunità di poter usufruire di un mese in più di congedo ha la precisa finalità di incentivare il lavoratore padre a usufruire del congedo parentale.
(2)Del Boca, D., Pasqua S. e Pronzato C.(2009) “Motherhood and Employment in Institutional Contexts: an European Perspective, Oxford Economic Papers April.
(3) Gavio F. e Lelleri R. (2006), La fruizione dei congedi parentali in Italia nella pubblica amministrazione, nel settore privato e nel terzo settore. Monitoraggio dell’applicazione della legge n. 53/2000. Osservatorio nazionale delle famiglie.
(4) Istat Conciliare lavoro e famiglia, Argomenti n. 33, 2008.
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Federico Maio
Peccato che, sintetizzando, quelli che dovrebbero fare i figli sono assunti a progetto (i giovani) e non hanno nessun tipo di protezione, ma proprio nessuno! Quindi prima eliminiamo i contratti assurdi di sfruttamento totale delle persone e poi parliamo di questi fantastici congedi per procreare che valgono solo per chi ormai l’età per fare figli non ce l’ha più (parlo sempre della situazione italiana). Non ho minuti per argomentare ma prendo in considerazione la mia situazione personale e di quasi tutti i miei coetanei. Cordialmente.
Alloni Diego
Se 8 settimane di sospensione lavorativa materna sono ostetricamente ineluttabili, rimangono 12 settimane di effettivo congedo di maternità vs 2 settimane di paternità: un rapporto di 6/1 quando l’allattamento al seno come forma esclusiva/continuativa di nutrizione avviene in circa i 2/3 dei neonati italiani (rapporto 2 a 1). Continua dunque la discriminazione delle leggi "ad generem", per altro vissuta vittimisticamente da quelle che posano il sedere sulle poltrone fisse, che discriminano "intra generem" le lavoratrici precarie. Come le estensori delle linee-guida per la magistratura nel diritto di famiglia, che vietano la possibilità ad un figlio di separati di trascorrere la notte con il padre fino al compimento dei 12-18 mesi (nella pratica giudiziaria è spesso fino ai 3-5 anni del bambino). Considerando le indicazioni europee non sufficientemente discriminatorie, non solo rispolvereranno la scusa della "tenera età" per non applicare la futura normativa italiana, ma ostacoleranno ogni desiderio di cura paterna diretta dei papà separati dai loro 10.000 neonati, ponendo a loro carico assegni di mantenimento insostenibili con le indennità di congedo.
Lucia Vergano
Se è vero, come molti esperti ribadiscono, che i primi anni di vita sono fondamentali per la formazione dell’identità di un individuo, rintengo qualsiasi provvedimento legislativo favorevole alla cura dei neonati e dei bimbi piccoli un prezioso investimento per la società intera, non solo per i diretti interessati. Pertanto, i congedi parentali, rivolti tanto alla madre quanto al padre, dovrebbero essere parte integrante di una politica lungimirante di sostegno alle famiglie, insieme ai servizi e agli incentivi fiscali. Tuttavia, credo che l’anomalia italiana rispetto ad altri paesi europei in termini di tasso di natalita’ e di partecipazione femminile al mercato del lavoro si spieghi anche alla luce dell’organizzazione dei tempi di lavoro: insufficiente flessibilità e articolazione antiquata degli orari di ufficio spesso impediscono di ritagliarsi momenti nell’arco della giornata da destinare alla cura e alle incombenze domestiche, costringendo almeno uno dei neo genitori (piu’ sovente, la madre) a rinunciare alla professione, nel timore di non riuscire a sopportarne la fatica.
Felice Di Maro
Smuovere una cultura di disuguaglianza nella distribuzione delle responsabilità familiari e sul posto di lavoro non è semplice e non è che l’UE può offrire uno strumento, ossia in pratica una proposta. Le autrici penso che dovrebbero riflettere in quanto non è affatto scontato che agevolando la donna nei vari livelli del lavoro e dando il congedo anche agli uomini le cose in famiglia possano andare meglio. Penso che economia e relazioni uomo-donna abbiano bisogno nell’insieme di nuove interpretazioni. Il ruolo della donna è fondamentale almeno per i figli e deve però scegliere e l’uomo deve cercare di fare anche lui la sua parte e questa "scelta" ha per lui un prezzo. Quale? Rinunciare al salario o parte dello stipendio per stare in casa e consentire alla sua donna di soddisfare alle proprie aspettative. Ma poi la donna sarà riconoscente? Forse no! Ma questa è la vita!
Daniela B.
Mi sembra un cambiamento di cultura e buone regole ci potranno essere quando si partirà dalla realtà, dagli effetti che il non accudimento dei figli da parte dei genitori (non solo alla nascita) ha su tutta società e dai vantaggi per la comunità che ne possono derivare. La norma mi pare di buone intenzioni ma ingenua: sia perchè sposta sul conflitto uomo/donna il terreno del cambiamento e non sul contrasto di esigenze tra genitori e non genitori; sia perchè ogni lavoratore e datore di lavoro deve comunque fare i conti con la struttura del mercato del lavoro e con ciò che più gli conviene per vivere: norme così diventano più una bella opportunità riservata a pochi o un ostacolo da aggirare attraverso gli strumenti pratici che la legge stessa consente (es. contratti a progetto). Insisto comunque che riconsiderare la natura della questione di partenza (genitori/non genitori e non uomo/donna) apra nuove prospettive: c’è una società di genitori che si muove in mondo del lavoro fatto per una perpetua e statica singletudine e giovanilità (ritmi, contratti, pensioni). E forse ai più piace ancora pensare che sia così. Ai giovani di oggi invece sta stretto.
Nicole T.
Sono pienamente d’accordo con chi afferma che il problema è a monte, il problema riguarda chi non ha la benchè minima possibilità di prendere anche solo in considerazione la maternità. Perchè non tutte hanno i nonni a portata di mano, 800 euro al mese per pagare un asilo privato a 25 anni…perchè adesso è scontato che a 25 anni si debba campare con 200 euro al mese e un contratto a progetto che scade ogni 3 mesi, i contributi ce li scordiamo e la maternità slitta ineluttabilmente a quando arriveranno gli "anta", se il fisico ce la farà! Se non cambia la legislazione del diritto del lavoro, se le donne non saranno veramente tutelate, la maternità sarà un lusso per poche e per pochi…e pensare che lo scopo primario di tutti gli esseri viventi è la procreazione…e per fortuna!