Con il decreto sulla spending review il governo ha deciso di accorpare le province e sottrarre loro la gran parte delle funzioni e competenze, che passerebbero ai comuni. Meglio sarebbe invece che  fossero attribuite alle Regioni. Perché ciò risponde alla logica dell’adeguatezza rispetto alla dimensione territoriale e renderebbe più semplice il trasferimento delle risorse finanziarie.  Permetterebbe anche una più razionale revisione dei confini, aprendo la strada alla riforma costituzionale per la definitiva abolizione delle province.

Il decreto seguito alla spending review ha deciso di accorpare le province e sottrarre loro la gran parte delle funzioni e competenze. Il problema potrebbe consistere nell’aver attribuito quelle funzioni ai comuni, piuttosto che all’ente più congeniale alla cosiddetta “area vasta”, cioè la Regione.

L’ECCESSIVA FRAMMENTAZIONE DELLE COMPETENZE

Il Dl 95/2012, in fondo, risponde con oltre quaranta anni di ritardo alla domanda posta da Ugo La Malfa sull’opportunità di mantenere in piedi le province una volta istituite le Regioni. Oggi il problema da affrontare e risolvere è se sia realmente efficace e opportuna la scelta di frazionare le funzioni provinciali tra i comuni, tanto più che questi ultimi saranno interessati da tagli ai trasferimenti erariali imponenti, per 2,5 miliardi.
Nell’assegnare alle province alcune funzioni, soprattutto con le leggi Bassanini alla fine degli anni Novanta, si era seguita la logica dell’adeguatezza rispetto alla dimensione territoriale, nel rispetto del principio della sussidiarietà verticale, secondo il quale le funzioni amministrative fondamentali spettano ai comuni, salvo che ragioni di opportunità non consiglino di attribuirne alcune, in via crescente, al livello amministrativo superiore, cioè province o Regioni.
Saltato il livello provinciale, sia l’articolo 118 della Costituzione che disciplina la sussidiarietà verticale, sia valutazioni di maggiore efficacia della redistribuzione delle competenze, sia, soprattutto, la caratteristica di funzioni di “area vasta” delle competenze sottratte alle province, avrebbero dovuto consigliare di individuare nelle Regioni e non nei comuni gli enti destinati a succedere nell’esercizio delle funzioni dismesse delle province.
La scelta di sminuzzare e polverizzare le funzioni provinciali (come scuola, edilizia scolastica, formazione, lavoro, programmazione territoriale) tra i comuni appare perdente, e in contraddizione con la decisione, adottata dal medesimo decreto, di accorpare gli uffici giudiziari e dei piccoli comuni. Per perseguire economie di scala, è sempre consigliabile aggregare e non diluire.

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COME RIPARTIRE LE RISORSE?

Trasferire direttamente le funzioni provinciali alle Regioni consentirebbe anche di risolvere molto più agevolmente i problemi di revisione della finanza locale e dei trasferimenti finanziari dello Stato.
I comuni in Italia sono oltre 8.100 e risulta parecchio complicato fissare un criterio convincente e funzionale per ripartire tra essi funzioni accorpate e gestite sin qui da soli 110 enti. Inoltre, il Dl 95/2012, come prima il decreto “salva-Italia”, dispone che con le funzioni debbano passare ai comuni le risorse strumentali, patrimoniali, organizzative e umane. Ed è altrettanto complicato immaginare una modalità di equilibrata distribuzione tra i comuni di quest’imponente massa di risorse. Alla fine, il rischio è che, da un lato, ciascun comune potrebbe trovarsi con nuove incombenze e dotazioni insufficienti; dall’altro, che il personale sia destinato a coprire i posti vacanti per le funzioni tipiche comunali, trascurando quelle provinciali.
Trasferire le funzioni alle Regioni è, invece, molto più semplice: è certo più facile concentrare trasferimenti statali, entrate tributarie ed entrate di 110 province verso venti Regioni, che non dividerle in 8.100 comuni.
Le Regioni dispongono, inoltre, di una forte autonomia organizzativa, tale da realizzare presidi territoriali di dimensioni provinciali, senza ricorrere alla creazione di nuovi enti intermedi.
D’altra parte, funzioni come quella connessa alle politiche del lavoro sono immediatamente percepibili come inadeguate, se gestite esclusivamente dall’ente comune. Basti pensare che le offerte congrue di lavoro e formazione, cioè quelle che obbligano i percettori di ammortizzatori ad accettarle pena la decadenza dai benefici, hanno, tra i loro requisiti, una distanza di non oltre 50 chilometri dal domicilio (non la residenza) del disoccupato o un tempo di percorrenza di 80 minuti. Un ufficio del lavoro ristretto nei confini comunali non può offrire opportunità lavorative e formative con queste caratteristiche.
I “mercati” del lavoro, nell’ambito dei territori, non si esauriscono nei confini comunali. Vi sono produzioni, distretti, poli formativi più ampi. I servizi debbono tenere conto di questi ambiti e non possono soffrire del contenimento entro le mura municipali. Analoghi discorsi si potrebbero fare per la programmazione dell’istruzione, per l’edilizia scolastica e per la programmazione territoriale.
Assegnare alle Regioni le funzioni che si intendono eliminare in capo alle province non incrinerebbe il disegno di riforma attivato di sostanziale dismissione delle province stesse e permetterebbe una più razionale revisione dei confini, aprendo la strada alla riforma costituzionale più logica e conseguente, cioè l’abolizione delle province e il loro assorbimento da parte delle Regioni.

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