Dopo scioperi e proteste, in Francia è stata approvata la riforma delle pensioni. E si deve dar merito al governo francese di aver affrontato un tema così controverso. Tuttavia, la stabilità finanziaria è assicurata solo per pochi anni e non si sa quali misure si dovranno prendere dopo il 2018, quando il deficit riprenderà a crescere. La riforma delle pensioni 2010 può anche essere caratterizzata come regressiva. In questo senso, le critiche dell’opposizione e del sindacato non sono del tutto infondate.
Dopo settimane di proteste, scioperi e persino rivolte, il parlamento francese ha approvato la riforma delle pensioni 2010. Tutto ciò ha provocato qualche incomprensione nei media stranieri. Quell’aumento da prima pagina dell’età legale di pensionamento da 60 a 62 anni è sembrato a molti esperti un ben piccolo passo verso la sostenibilità delle finanze pubbliche, quando molti paesi europei hanno già portato l’età della pensione a 67 o anche a 68 anni. Non voglio qui soffermarmi sulle ragioni della forte reazione delle piazza francese, che vanno ben al di là delle pensioni, mi limito a presentare la riforma, il suo probabile impatto distributivo e i suoi effetti in termini di sostenibilità finanziaria.
UN SISTEMA COMPLESSO
Prima di presentare la riforma vale la pena ricordare la struttura attuale del sistema pensionistico francese. È un sistema complesso, suddiviso in trentotto schemi pensionistici tra obbligatori, pubblici, a ripartizione, contributivi e redistributivi. La maggioranza degli occupati francesi del settore privato è iscritta al più importante schema statale fino a una certa soglia di stipendio. Questo schema a benefici definiti offre il 50 per cento della media dei migliori 25 anni di stipendio a condizione di aver compiuto i 65 anni o di avere raggiunto 41 anni di contributi. L’età minima di pensionamento è 60 anni: consente a chi ha iniziato a lavorare prima dei 19 anni e ha sempre lavorato di lasciare il lavoro appunto a quell’età. Sopra quella soglia, i lavoratori del settore privato sono iscritti a schemi di previdenza complementare: sono sistemi a punti a contribuzione definita e a ripartizione. Anche se i due schemi pensionistici sono gestiti in modo separato, le penalizzazioni per il pensionamento anticipato dipendono dalle regole dello schema principale. Aggiungiamo poi che i dipendenti pubblici hanno uno schema unificato che offre il 75 per cento dell’ultimo salario all’età di 55 anni per gli operai e di 60 per gli impiegati purché siano rispettati i requisiti sul periodo di contribuzione.
COSA CAMBIA CON LA RIFORMA
La riforma delle pensioni del 2010 ambisce a ridurre il deficit del sistema pensionistico francese con una combinazione di aumenti delle imposte e riduzione dei benefici. Gli incrementi delle tasse sono essi stessi un insieme di misure che comprendono l’innalzamento dell’1 per cento dell’aliquota marginale più alta delle imposte sul reddito, un aumento dei contributi per i datori di lavoro e un aumento dei contributi statali per le pensioni pubbliche. La riduzione dei benefici prende la forma dell’aumento dell’età minima di pensionamento da 60 a 62 anni, mentre l’età di pensionamento a tasso pieno (cioè quando non si applica nessuna penalizzazione per difetto nel requisito sul periodo di contribuzione) passa da 65 a 67 anni. Dal 2004 alcune categorie di lavoratori, che hanno iniziato a lavorare a 14, 15 o 16 anni, possono andare in pensione a 58 o 59 anni se hanno contributi per 42 o 43 anni. Queste eccezioni rimangono nella riforma e anzi sono estese a chi ha iniziato a lavorare a 17 anni e potrà andare in pensione a 60 anni. Nel settore pubblico, tutte le età minime di pensionamento sono aumentate di due anni: da 55 a 57 e da 60 a 62 anni. Secondo le stime del governo, il pacchetto di riforma dovrebbe portare a un bilancio in pareggio entro il 2018, quando il deficit riprenderà a crescere di nuovo sotto la pressione di una più lunga aspettativa di vita.
LE PAROLE E I FATTI
Il governo francese afferma di aver preservato la sostenibilità delle sue finanze pubbliche mandando un segnale chiaro ai mercati finanziari, garantendo nello stesso tempo l’equità del sistema pensionistico con tasse più alte sui ricchi e deroghe per coloro che hanno iniziato a lavorare presto. Sul fronte opposto, i sindacati e l’opposizione affermano che la riforma è ingiusta e qualcuno aggiunge che un’età di pensionamento più alta porterà a una maggiore disoccupazione e non a un bilancio maggiormente in equilibrio.
Se equità è una parola che fa riferimento ai valori, gli economisti preferiscono guardare piuttosto agli effetti distributivi di una riforma. In questo caso, la riforma delle pensioni interessa la maggior parte dei salariati con l’eccezione di un gruppo di lavoratori per i quali il livello della pensione è determinato dal periodo di contribuzione richiesto, cioè coloro i quali hanno iniziato a lavorare dopo i 21 anni di età. Questi lavoratori, che per lo più hanno studiato e di conseguenza hanno retribuzioni più alte, ricevono la pensione intera a 62 anni, sia prima sia dopo la riforma. A causa della probabile natura regressiva della riforma, le critiche dell’opposizione e del sindacato non sono dunque del tutto infondate. D’altra parte, l’affermazione che l’incremento dell’età di pensione porterà a un aumento della disoccupazione giovanile, affermazione echeggiata più volte durante le proteste, ha fatto arricciare il naso a molti economisti. In Francia è evidentemente ancora molto diffusa la credenza nella fallacia del numero fisso di posti di lavoro, secondo la quale il numero dei posti di lavoro nell’economia sarebbe fisso e dunque qualsiasi vantaggio per un gruppo (anziani, donne, immigrati) si avrebbe a spese di altri (giovani, uomini, francesi di nascita). E ciò spiega anche la passata popolarità di schemi di ritiro anticipato dal lavoro e il mancato appoggio ai tentativi di ribaltare questo trend.
Se si deve dar merito al governo francese di aver affrontato un tema controverso come quello delle pensioni, è difficile non essere preoccupati per ciò che nella riforma non c’è: la stabilità finanziaria è stata assicurata solo per un paio di anni; non c’è stata alcuna discussione sulle misure che si dovranno prendere tra otto anni; la complessità dell’attuale sistema non è stata ridotta; ma quello che forse è peggio, tutto il dibattito pubblico è stato fuorviante. Dopo la riforma del 2003, sembrava fosse progressivamente emersa la convinzione della necessità di incentivare il ritiro posticipato dal lavoro riducendo l’importanza dell’età minima di pensione, la riforma del 2010 invece ci riporta a un sistema estremamente rigido, incentrato sui 62 anni di età.
Contrariamente a quanto afferma il governo, e forse a quanto spera parte dell’opposizione, la riforma più importante del sistema pensionistico francese è ancora di là da venire.
Tradotto in francese e olandese.
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jean-olivier
La premessa stessa dell’articolo, come di tanti altri sullo stesso argomento, mi sembra riduttiva. Osservare "i fondamenti macroeconomici" di una economia nazionale (quella dell’Italia avrebbe i conti in regola, come ve lo ripetono ad nauseam, "ve" perchè sono appunto francese, residente in Italia) non tiene conto della società ovviamente malata (Italia come Francia) che viene nascosta dietro questi indicatori buoni per agenzie di rating e mercato finanziari, ma non per osservatori di scienze sociali, da cui in Francia la recente creazione di una associazione di economia politica, appunto per superare la presunta scienza economica verso una socioeconomia sicuramente difficile dal punto di vista teorico e metodologico ma più proficua allo stesso modo, l’approccio solo demografico delle pensioni (dominante in Francia, ma monopolistico in Europa) con scopi puramente contabili, non permette di aprire il dibattitto a una dimansione non economica (la produttività dei fattori produttivi) ne’ soprattutto di politica economica (integrare la visione delle pensioni nel panorama di divario della ridistribuzione delle ricchezze tra capitalee e lavoro): riduzione desinteressata?
Antonio ORNELLO
In Francia, almeno, il dibattito democratico ha visto le opposizioni di parti politiche e sindacali, oltre alle mobilitazioni popolari, nonostante l’annosa e condivisa applicazione dello splitting familiare, contributivo e fiscale, costituzionalissimo. In Francia, almeno, gli imbonitori che cercano di sopire le aspettative dei lavoratori – e di coloro che pagano le tasse – non hanno rappresentanti ascoltati poiché verrebbero visti con sospetto persino dagli evasori fiscali: uno sparuto gruppo di crétiens, in Francia. In Italia, al contrario, la connivenza con le diverse corruttele non accenna ad invertire la tendenza nemmeno tra chi, come qualche professore universitario, già godrebbe – pure – di indipendenza intellettuale, mentre ormai è forse soltanto francese il principio costituzionale che fa corrispondere pensioni più alte – e rivalutate nel tempo – a chi ha versato più contributi.