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SE LA CRISI NASCE DALLA DISUGUAGLIANZA

La crisi economico-finanziaria non nasce solo dagli squilibri internazionali. Ha come causa anche una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito negli Stati Uniti. I salari dei lavoratori con basso tasso di istruzione sono infatti fermi da trent’anni, mentre l’economia americana è cresciuta del 100 per cento. Per adeguare i consumi a quel livello di crescita economica, la metà della popolazione ha fatto ricorso al debito, alla fine diventato insostenibile. La soluzione della crisi passa per politiche redistributive politicamente difficili da accettare.

Molte analisi e commenti sostengono che gli squilibri internazionali siano la causa prima della crisi economica. Soprattutto, lo squilibrio nella bilancia commerciale e dei pagamenti tra Cina, paese esportatore e risparmiatore, e Stati Uniti, paese importatore. Per questa ragione, gran parte del dibattito sulle vie d’uscita dalla crisi riguarda l’aggiustamento dei tassi di cambio tra Cina e resto del mondo. I tassi di cambio delle monete possono contribuire alla soluzione degli squilibri internazionali, ma ben poco possono fare per risolvere la seconda causa importante della crisi economica: il crescente squilibrio della distribuzione dei redditi negli Stati Uniti.

SALARI FERMI DA TRENT’ANNI

Èpassato in secondo piano il fatto che la crisi sia stata scatenata anche da un forte squilibrio interno agli Stati Uniti, in particolare da una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Tanto è vero che anche la crisi del settore finanziario dovuta ai crediti facili ha la sua origine ultima nelle disuguaglianze di reddito. La figura 1 mostra l’andamento dei salari reali negli Usa per titolo di studio fino al 2007, l’anno precedente alla crisi. Sono rimasti stabili, o perfino diminuiti, i salari degli americani che hanno un titolo di studio di scuola superiore o che non hanno neanche quello; e sono cresciuti pochissimo i salari di chi ha frequentato qualche anno di università. Eppure, la somma di questi due gruppi costituisce più del 50 per cento della popolazione degli Stati Uniti. In altre parole, la figura mostra chiaramente che negli ultimi trenta anni i salari reali della maggioranza degli americani sono rimasti pressoché costanti.
Nello stesso arco di tempo l’economia americana è cresciuta in termini reali di circa il 100 per cento e la maggior parte della crescita è andata ad aumentare i profitti d’impresa o i salari di pochi fortunati al vertice della distribuzione del reddito. Se i salari non crescono, l’americano medio deve ovviamente prendere denaro a prestito per adeguare i suoi consumi a un’economia che nel frattempo è cresciuta moltissimo. Si crea quindi una formidabile domanda di credito che la finanza trova il modo di soddisfare. La crisi del mercato finanziario non è dunque dovuta solo all’ingordigia e all’irresponsabilità dei banchieri, ma anche a una domanda di credito fondata sul basso tasso di crescita dei salari di più del 50 per cento della popolazione.
Anche dopo la crisi, la disuguaglianza negli Stati Uniti non ha cessato di aumentare. La figura 2 mostra il tasso di crescita dell’indice di disuguaglianza di Gini: gli ultimi dati del 2009 si riferiscono al periodo post-crisi e non mostrano nessun accenno di diminuzione. In realtà, l’argomento è dibattuto, ma spesso le crisi economiche aumentano le disuguaglianze (attraverso la povertà e la disoccupazione) e quindi non c’è da aspettarsi una riduzione dell’indice di Gini in futuro.

LA REGOLAMENTAZIONE NON BASTA

Se mettiamo la disuguaglianza di reddito al centro della crisi, le soluzioni incentrate solo sulla regolamentazione dei mercati finanziari non sembrano andare al cuore del problema perché, con una disuguaglianza in continua crescita, l’esigenza di ottenere denaro a credito si ripresenterà presto per più della metà della popolazione. A quel punto i mercati finanziari faranno il loro lavoro e concederanno il credito richiesto e forse non sarà sufficiente regolare in maniera più stringente la concessione di credito al consumo e dei mutui delle case per evitare che un numero assai alto di persone si indebiti di nuovo in modo insostenibile.
Il cuore del problema è che il salario dell’americano medio non aumenta e quindi i suoi consumi non possono stare al passo della crescita economica. Accade del resto in tanti altri paesi del mondo, dove le cose vanno meglio solo se gli individui, contrariamente agli americani, possono contare su uno stock di risparmio privato per finanziare i consumi. La soluzione non è semplice perché da trenta anni la crescita va a favore dei profitti piuttosto che dei salari nella maggior parte dei paesi sviluppati. I salari dei lavoratori con basso titolo di studio (più del 50 per cento della popolazione) non crescono perché la loro produttività è bassa e non si vede un’inversione di tendenza se non attraverso un aumento del grado di istruzione, che comunque richiede tempi lunghi. L’unica soluzione di breve periodo sarebbe un’operazione di redistribuzione dei redditi attraverso la politica fiscale, in modo da aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori a basso reddito ed evitare che si indebitino in maniera strutturale. Sebbene tale redistribuzione sia nell’interesse di tutti, e non solo dei redditi bassi, non è affatto scontato che ci sia la volontà politica di riconoscere che una crescita sempre più diseguale non è sostenibile. Nel dibattito di policy americano solo l’abolizione dei tax breaks per i più ricchi e la riforma sanitaria vanno nella direzione di maggiore redistribuzione, ma l’orizzonte di applicazione di queste misure è di là da venire e il consenso politico incerto.

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LA POLITICA? UN GIOCO PER SIGNORINI

25 commenti

  1. Emanuele Ranci Ortigosa

    L’analisi è molto opportuna perchè tocca una componente della crisi sistematicamente trascurata, ma che invece è rilevante sia per le politiche economiche che per le politiche sociali. L’Italia finora ha potuto attingere ampiamente ai risparmi familiari delle passate generazioni, che però non sono con il passare del tempo e delle generazioni (anche di quelle con discreti livelli pensionistici) una risorsa inesauribile. Varrebbe la pena che Leonardi facesse un excursus anche sul nostro paese.

    • La redazione

      Credo che l’Italia non sia nelle stesse condizioni degli USA. Da noi la crescita del PIL reale è stata molto più bassa in questi anni, quindi in qualche modo è più "normale" che i salari medi reali siano fermi. Inoltre la diseguaglianza nei redditi è alta in livello (per quanto il confronto internazionale in livelli sia sempre difficile) ma non ha certo visto l’incremento nel tempo degli USA. Solo in tempi recenti, e quindi più come conseguenza della crisi che come causa, si ha notizia di default di debiti privati (mi riferisco ad un recente dato di Banca d’Italia). E poi bisogna che una consistente proporzione della popolazione sia in questa situazione di indebitamento per scatenare una crisi. Tutto sommato mi sembra che per ora non corriamo lo stesso rischio, la nostra crisi è importata, non si è generata qui. Certo è che Ranci Ortigosa ha ragione, se nel lungo periodo il salario medio non cresce, gran parte della popolazione rimane esclusa dalla crescita e soprattutto finiscono i risparmi delle vecchie generazioni che ora sostengono il tenore di vita di molti giovani…

  2. Ciro Daniele

    Mi sembra che quello che è avvenuto negli USA sia l’altra faccia della crescita dei paesi emergenti. Negli ultimi 30 anni (con una accelerazione dal ’90 in poi) molte produzioni si sono spostate in Asia, Sud America ed Est europeo, migliorando le condizioni di quei paesi a scapito degli occupati (dipendenti e non) nei settori più maturi e obsoleti in Europa e USA. Il risultato è stato che, mentre i paesi poveri diventavano un pò più ricchi, i poveri dei paesi ricchi sono diventati sempre più poveri. Per lo stesso motivo, mentre i paesi emergenti esportavano sempre di più, quelli ricchi vedevano peggiorare la propria bilancia commerciale. Questi "squilibri gemelli" sono stati assecondati (se non incoraggiati) da una finanza allegra sia a livello internazionale, sia all’interno dei paesi ricchi, che hanno accumulato debito pubblico e/o privato. Se continua così, prima o poi questo processo eroderà anche il patrimonio dei nostri ricchi… e il problema sarà risolto senza bisogno di manovre redistributive.

  3. Vittorio Silva

    Dietro tutti i problemi di oggi sta l’interventismo delle banche centrali che, mantenendo artificiosamente basso i tassi d’interesse, hanno obbligato le banche commerciali a lanciarsi in una dissennata politica di credito facile e di investimenti ad alto rischio, in forza del comprimersi dei margini d’intermediazione.

  4. Stefano Gagliarducci

    Solo per evidenziare un post di Edward Gleaser sul NYT del 14 dicembre scorso che riporta esattamente il contrario: citando uno studio di Atkinson e Morelli, non sembra ci sia alcuna correlazione a livello internazionale tra disuguaglianza di reddito e crisi. http://economix.blogs.nytimes.com/2010/12/14/does-economic-inequality-cause-crises/

    • La redazione

      La causalità è un problema complesso e certo non si riesce a dimostrare scientificamente il nesso di causalità tra diseguaglianza e crisi ma neanche il contrario. Sul post di Glaeser su Econmix ci sono 3 argomenti contrari al fatto che la diseguaglianza causi la crisi (non tutti li ho trovati nell’ottimo articolo di Atkinson e Morelli). Rispondo in ordine.
      Glaeser sostiene che la diseguaglianza non è causa della crisi perché:
      1) non c’e’ balzo in alto di inequality prima della crisi. Risposta: non mi pare necessario che ci sia accelerazione di inequality. C’è piuttosto una lunga accumulazione nel tempo di diseguaglianze che ad un certo punto hanno trovato una ragione di rottura.
      2) la diseguaglianza nei consumi non sale come nei redditi. Risposta: ma questo può essere un argomento in mio favore, i poveri si sono indebitati proprio per ridurre le diseguaglianze nei consumi
      3) non c’e’ correlazione tra diseguaglianza e crisi tra paesi. Risposta: non credo si possa provare causalità in dati cross-country quando anche a parità di disuguaglianze ci sono paesi che se la cavano meglio di altri perchè hanno maggiori risparmi privati.
      Tutto sommato io trovo la Figura 1 impressionante (anche se ammetto che non è prova di nesso causale). Se in 30 anni il PIL reale raddoppia, non può essere che più della metà della popolazione abbia salari reali fermi e non ci ponga il problema di come essi partecipino ai frutti della crescita del paese.

  5. filippo aleati

    Globalizzazione, demografia e tecnologia generano eccesso di mandopera, con conseguente stagnazione dei salari reali. La rivoluzione liberista accomuna ora grandi parti del mondo che un tempo erano ad economia statale (Cina, Russia, etc) e pertanto assicuravano più omogenea distribuzione del reddito a fronte di limiti alle liberta’ individuali. E’ e rimane un fatto politico che i profitti dati dall’incremento di efficienza delle macchine e dei mercati siano scarsamente distribuiti sulla massa dei lavoratori generici. Con conseguenze economiche sistemiche come quelle ben descritte. D’altronde si è predicato per anni ‘meno stato, più impresa’, ma è lo stato il primo attore della redistribuzione del reditto con la politica fiscale e di spesa. E’ una situazione da prima rivoluzione industriale, la crisi di tutti è il "cost of greed" (come titolava il Time) dei pochi che si riempiono le tasche ben al di sopra dei meriti individuali e getta i semi di una nuova rivoluzione sociale. Allora fu comunista, domani si vedrà.

  6. salvatore bragantini

    Troppo di rado viene richiamata questa che è la più profonda causa della crisi. Soprattutto, nessuna delle misure per evitare la prossima crisi tiene conto di questa realtà. Dobbiamo prepararci alle conseguenze sociali prima, e politiche poi, di questa cecità collettiva.

  7. Alberto Chilosi

    Nel modello distributivo classico (diciamo Kalecki-Pasinetti) se aumenta la quota dei profitti la propensione al risparmio si accresce. Nel caso indicato succede il contrario, Ma ci sono dei dati su quali specifiche categorie della popolazione accrescono i consumi accedendo al credito? Più che alla distribuzione del reddito e al desiderio dei debitori, che non sono in grado di ripagare il prestito, di accrescere i propri consumi mi pare plausibile che la responsabilità vada attribuita ai creditori che con eccessiva leggerezza concedono il prestito a chi non si dimostra in grado di restituirlo. E quindi al meccanismo perverso dato dalla bolla immobiliare, dalla cartolizzazione e della disonestà e incompetenza delle agenzie di valutazione e delle banche di investimento.

    • La redazione

      Senz’altro c’è una responsabilità del credito facile ma non credo che ci sarebbe stata offerta di credito così ampia se non ci fosse stata una domanda di credito (soprattutto per comprare la casa) fondata sul desiderio di aumentare i propri consumi al di sopra dei propri redditi che appunto erano fermi in termini reali per la maggioranza degli americani.

  8. Diego d'Andria

    Una domanda, forse ingenua: se i salari reali sono rimasti immutati in media, come mostrano i dati riportati nel grafico, perché si afferma poi che “Se i salari non crescono, l’americano medio deve ovviamente prendere denaro a prestito per adeguare i suoi consumi a un’economia che nel frattempo è cresciuta moltissimo.” A me non pare così ovvio. Qual è il meccanismo per il quale un consumatore sente il bisogno di consumare più beni al crescere del reddito nazionale? Se il suo salario reale è costante, lo stesso consumatore può ottenere il medesimo livello di beni, di servizi (inclusi i fitti dell’abitazione, le utenze…), di risparmio che aveva prima della crescita economica. E la maggior domanda di investimenti e consumi dei consumatori più ricchi non incide sui prezzi in misura tale da ridurre, in termini reali, il potere di consumo dei consumatori più poveri. Al contrario, magari allo stesso prezzo gli americani acquistano ora beni migliori grazie alla migliorata produttività. L’aumentata disuguaglianza nei redditi è una brutta cosa in sé, su questo penso concordino tutti. Mi sfugge invece il nesso causale tra disuguaglianza e indebitamento.

    • La redazione

      Se il PIL reale raddoppia nel corso di 30 anni è abbastanza ovvio che i consumi in qualche modo tengano il passo, possono anche non raddoppiare in termini reali ma difficilmente possono stare fermi. In teoria i consumi potrebbero anche essere fermi se riteniamo che di avere già tutto, ma non è così, comunque nei consumi io intendo anche l’acquisto della casa che per le fasce economicamente più deboli è stata la ragione più evidente per cui non hanno potuto onorare i debiti.

  9. Giuseppe

    L’analisi è ben fatta nel descrivere l’attuale situazione. Purtroppo non approfondisce adeguatamente la spiegazione delle cause. Quindi non aiuta a cercare le soluzioni possibili. Che a mio avviso non possono certo essere di tipo statalista e dirigista, come la redistribuzione fiscale. Oltre ad essere politicamente difficile da accettare, mi sembra culturalmente datata.

    • La redazione

      La redistribuzione non è una ricetta valida per tutti i paesi sempre e comunque, a me sembra sia l’unica che nel breve periodo possa essere ragionevole negli USA. L’altra ricetta è più istruzione che aumenti la produttività dei lavoratori a basso reddito, o più investimenti e tecnologia nei settori dove lavorano, ma sono ricette di più lungo periodo. Poi ci sono modi diversi di fare redistribuzione anche molto "poco datati" e più moderni, la riforma sanitaria ne è un esempio.

  10. Armando Pasquali

    L’articolo di Leonardi parte bene, poi sembra incolpare i lavoratori di scarsa produttività. Ma è difficile credere che il macchinario dell’anno 2.000 sia meno produttivo di quello del 1980. Semplicemente la macchina del 2.000 è stata trasferita in un paese asiatico e l’operaio americano è rimasto senza lavoro. Leonardi riconosce che vi è stato una spostamento della remunerazione dal lavoro al capitale e molto opportunamente fa intendere che questa tendenza è in atto anche da noi, con la differenza che le famiglie italiane ed europee hanno un cuscinetto di risparmio a cui attingere per mantenere il proprio, precario, livello di vita. Ma fino a quando? Negli Stati Uniti il fenomeno della gente che vive nelle roulotte o nelle tende (vi troviamo anche laureati in discipline scientifiche), senza lavoro e senza assistenza sanitaria, che sopravvive grazie al Food Stamp e alle Food Banks, è considerato assolutamente normale. Non in Italia o in Europa, dove verrebbe vissuto come un tradimento del patto sociale fondativo. E la risposta a un tradimento di queste proporzioni è nota: il ritorno dei partiti di estrema destra, di cui già si scorgono chiarissimi i prodromi.

  11. Francesco Bloise

    Ottimo articolo che riconduce giustamente la crisi alla disuguaglianza, la vera causa. Peccato che sono ancora in pochi ad averlo capito e che le politiche messe in atto non fanno che perpetuare le dinamiche pre-crisi.

  12. giulio

    Troppi economisti, arroccati nelle torri d’avorio della speculazione astratta e sterile citano termini tecnici e astratte teorie economiche. Ma si tratta sempre solo di aspetti "tecnici". Occorre andare alla radice del problema: le crisi "di povertà" nascono sempre da iniqua distribuzione del reddito. Mi verrebbe da dire che le crisi economiche debbano essere studiate dagli storici e non dagli economisti, perché gli economisti si perdono nei dettagli tecnici e teorici, mentre gli storici hanno la visione storica, e quindi completa, dello stato delle cose. Non dimentichiamo che mai come oggi è ampio il divario tra compenso dell’amministratore delegato e compenso del dipendente. Questa è una condizione dal significato storico ancor prima che "tecnico", perché testimonia degli squilibri sociali da cui si origina il problema. Il punto di partenza è sempre quello. I resto sono solo dettagli tecnici.

  13. Corrado Fiorucci

    Dico purtroppo non solo perché mi colloco nella parte "perdente", ma anche perché a perdere è stata tutta la società come appare evidente dalla attuale crisi che, in assenza di scelte che influiscano sulle sue cause, è destinata a durare ancora a lungo. La crisi è infatti finanziaria, ma nasce economica: negli ultimi anni, infatti, gli Stati per sostenere la crescita in un contesto di calo della domanda dovuta alla progressiva perdita di potere d’acquisto dei consumatori, hanno continuato a immettere sul mercato liquidità tramite le banche che l’hanno girata ai consumatori sotto forma di prestiti. Il giochetto avrebbe avuto un senso come soluzione provvisoria se nel frattempo si fossero attuate politiche serie di sostegno della domanda tramite redistribuzione del reddito, ma tutto ciò è durato come minimo 10 anni e senza nessun intervento sul potere d’acquisto dei salari. La inevitabile conseguenza è l’nsolvenza del debitore e, a salire, su tutta la catena dei creditori.

  14. giulio zanella

    Ho anch’io le stesse perplessità. E’ aumentata la disuguaglianza tra i redditi disponibili delle famiglie. Ma le teorie che legano questo fatto alla crisi non convincono. Il passaggio cruciale è: siccome il reddito reale di parte della popolazione non cresce mentre l’economia cresce, allora questa parte della popolazione si indebita per far crescere il proprio consumo. Qual è la teoria del consumo che genera questo risultato? L’unica che mi viene in mente è del tipo “relative consumption”, o “keeping-up-with-the-Joneses”, altrimenti non c’è modo di generare aumento del consumo quando il proprio reddito permanente non cresce. L’evidenza in favore di queste teorie è molto limitata Più convincente la spiegazione da bolla immobiliare: molte famiglie si sono indebitate per la combinazione di credito facile a tassi bassi e valori immobiliari in crescita. Questo sarebbe potuto avvenire anche a disuguaglianza costante perché stava semplicemente aumentando il reddito permanente atteso. Questo mi pare coerente con la (mancanza di) evidenza sul nesso tra disuguaglianza e crisi linkata da Stefano: sembra improbabile che sia questa una delle cause primarie della grande recessione.

    • La redazione

      Come in tanti problemi di economia in ultima analisi si cerca di capire se sia una questione di aumento dell’offerta o di aumento della domanda. E ammetto che in questo caso l’evidenza "scientifica" del nesso causale dalla diseguaglianza alla crisi non è provata, ma non è provata nemmeno la causalità tra l’offerta di credito e la crisi. In ultima analisi io non credo che l’offerta di credito venga dal cielo o dai banchieri cattivi ma vada piuttosto (almeno in parte) a soddisfare una domanda di credito che si è accumulata in 30 anni.
      Non c’e’ dubbio che la crisi sia stata accompagnata dall’offerta di credito facile soprattutto per comprarsi la casa. Ma sulla base della Figura 1, non credo che ci sarebbe stata un’offerta di credito facile se non ci fosse stata anche una grossa domanda di credito dovuta la fatto che la maggioranza della popolazione ha salari reali fermi da 30 anni – e questo è un punto cruciale, non si tratta di pochi individui ma dell’americano "medio".
      Tu sostieni che non c’e’ una teoria del consumo che sostenga questa ipotesi. Si è vero, l’individuo razionale nel modello di agente di consumo razionale consuma una costante del suo reddito permanente – quindi se il reddito è fermo non dovrebbe consumare di più. Però mi sembra ragionevole che dopo 30 anni di salario reale fermo (non per pochi ma per la maggioranza della popolazione!), molti di questi abbiano deciso di indebitarsi irrazionalmente forse nella speranza di avere in futuro un reddito maggiore (e quindi finalmente partecipare ad un’economia in rapida crescita) o semplicemente illusi dalle promesse del credito facile.
      E qui veniamo all’ultimo tuo punto: tutto questo sarebbe potuto succedere anche senza un aumento della diseguaglianza. L’aumento della diseguaglianza può avere molte forme, può aumentare in molti modi diversi, può aumentare nella parte bassa o alta della distribuzione del reddito. Credo che sia il modo in cui è aumentata in US che ha reso possibile o comunque facilitato la crisi. In US negli anni si è lasciato indietro una percentuale troppo grande della popolazione (come si vede dal salario medio di Figura 1), se si fosse lasciato indietro solo una piccola parte della popolazione (per quanto politicamente e moralmente discutibile) forse non ci sarebbe stata la massa critica di crediti inesigibili che provoca una crisi. Ma negli Stati Uniti -ormai è chiaro da moltissimi studi- gli incrementi di reddito degli ultimi 30 anni sono andati a relativamente pochi nella parte alta della distribuzione, e si sono dimenticati dell’americano medio. Il quale a sua volta magari non fa della diseguaglianza un tema politico perchè il suo livello di vita è comunque soddisfacente e non troppo distante nei bisogni essenziali da quello dei ricchi (nel senso che non ha la villa di Bill Gates ma certo non muore di fame o malattia come negli anni ’20- l’altro periodo storico di grande diseguaglianza), ma sicuramente vuole comprarsi una casa come tutti gli altri- a debito perchè il suo salario non glielo permette.

  15. Ivano Mastrelli

    Vorrei fare notare che la tesi sostenuta in questo articolo richiama sotto molti aspetti quelli della http://www.letteradeglieconomisti.it, che nel giugno scorso è stata sottoscritta da oltre 250 economisti italiani, tra i quali Marcello De Cecco, Roberto Artoni, Paolo Bosi e tanti altri. Segnalo pure il convegno http://www.theglobalcrisis.info, organizzato da Emiliano Brancaccio un anno fa proprio attorno alla tesi del legame tra disuguglianza e crisi. Capisco che gli economisti abituati ai modelli di ”equilibrio continuo” non riescono ad afferrare la logica di questo legame. Il problema però non sta nel legame. Sta nei loro modelli, che per anni hanno dominato la scena accademica e i processi di selezione degli economisti e che si stanno rivelando del tutto inadeguati a spiegare la crisi.

    • La redazione

      Sotto alcuni punti la lettera è condivisibile anche se non l’ho firmata. Meno male che non c’e’ il monopolio delle idee, ognuno però le esprime in maniera molto diversa. Se per questo l’articolo richiama sotto alcuni aspetti anche l’analisi di Stiglitz, di Fitoussi, di Reich, di Krugman e di Rajan (University of Chicago!) a dimostrazione del fatto che anche (almeno alcuni) degli economisti di "equilibrio continuo" analizzano gli eventi secondo categorie comuni. Per quanto riguarda la previsione della crisi invece sia i mainstream economists sia i non-mainstream hanno fallito.

  16. francescomauro

    Il modo in cui Rajan lega disuguaglianza e crisi è tortuoso e poco convincente: sembra l’ennesimo tentativo di addossare la colpa della crisi ai soliti ”politici”. Fitoussi e Stiglitz invece propongono il tipico legame postkeynesiano: uno spostamento dei redditi a favore dei ceti più ricchi riduce la propensione media al consumo e deprime la domanda. E’ un discorso che fila ma siamo sicuri che questa sequenza si possa riprodurre in un modello ‘mainstream’? Ho qualche dubbio.

  17. PDC

    Condivido l’analisi nella sua sostanza. Peraltro, non mi stupisce che abbia subito suscitato uno sterile dibattito su cosa possa essere provato (ovviamente niente può essere davvero provato, soprattutto in economia). Mi premetto comunque alcune critiche all’articolo ed alle risposte: 1) alcuni economisti non-mainstream (filone H. P. Minsky) avevano previsto il collasso, il problema è che non se li filava nessuno prima e non se li fila nessuno adesso; 2) lo spostamento della crescita dal reddito ai profitti è un fatto legato all’evoluzione (involuzione) culturale e sociale della società, non può essere corretto con strumenti propri dell’economia ma piuttosto con quelli della politica; 3) il verbo secondo cui per aumentare i salari bisogna aumentare la produttività e che il lavoratori scarsamente scolarizzati dovrebbero aumentare il proprio livello di istruzione… è perfettamente veritiero se applicato al singolo individuo ma del tutto fasullo se applicato alla società nel suo insieme, che infatti richiede la presenza di una massa di lavoratori sottopagati e poco produttivi, li richiede disperatamente, al punto di importarli dall’estero se questi non si trovano in loco.

  18. Adronio

    Dove posso trovare l’andamento storico delle aliquote dell’imposta sui redditi, e in particolare della massima, in Italia e negli altri stati? C’è correlazione tra sviluppo economico (la famigerata "crescita del PIL") e aliquota massima IRPEF?

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