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MERCATO INTERNO AL PALO. COME LE RIFORME

Il mercato interno che stenta a riprendersi dalla crisi è l’ostacolo più rilevante per l’adozione delle riforme per crescere di cui tanto si parla. In un’economia debole diventa salato il costo di ricompensare i perdenti. Che sono numericamente molto maggiori rispetto a tre anni fa. Se non si condivide questa consapevolezza, si finisce per non capire perché le riforme rimangano sempre al palo.

 

Nel gennaio 2011, l’indice Istat delle vendite al dettaglio ha fatto segnare il valore di 88. “Ottantotto” è un numero piccolo: vuol dire 1,2 punti percentuali in meno rispetto al gennaio 2010 e addirittura 3,7 punti in meno del gennaio 2009. A due anni di distanza dal momento in cui i mercati finanziari hanno toccato il loro minimo, la vera ripartenza dell’economia italiana continua a tardare. Il dato delle vendite di gennaio 2011 è particolarmente preoccupante perché è un dato a prezzi correnti: riporta le vendite a valore, cioè in euro non depurati dall’aumento dei prezzi. Se quindi dalle vendite a valore si sottrae l’aumento dei prezzi (circa un punto e mezzo per il 2010 e circa mezzo punto per il 2009) vuol dire che il volume di beni e servizi venduti al dettaglio è diminuito di 3 punti tra il gennaio 2010 e il gennaio 2011 e addirittura di 5 punti tra il gennaio 2009 e il gennaio 2011. Negli ultimi due anni, cioè, il numero medio di banane e lamponi che le famiglie italiane mettono nel carrello della spesa è diminuito e non di poco. Se non è una Caporetto della ripresa, poco ci manca.

VENDITE CHE LANGUONO

Durante la crisi, la diminuzione aveva riguardato soprattutto le vendite di beni non alimentari, mentre la riduzione delle vendite degli alimentari era stata inizialmente più contenuta. Poi, dalla seconda metà del 2009, è peggiorato nettamente il mercato del lavoro con un aumento del tasso di disoccupazione ufficiale di due punti e mezzo e un boom della cassa integrazione che ha superato il miliardo di ore nel 2010, con perdite di reddito nelle buste paga dei cassintegrati che la Cgil ha valutato nell’ordine di 7.500 euro annui pro capite. E così anche le vendite di alimentari hanno cominciato a languire. Ad aiutare l’uscita al rallentatore dalla crisi, nel 2010 sono arrivati i mondiali di calcio e il digitale terrestre. L’insieme delle due cose ha fatto la felicità delle grandi catene di elettronica di consumo, così come dei produttori dei servizi Tv a pagamento come Mediaset e Sky. Il mercato del lavoro arrancava, ma questo riguardava i produttori di beni alimentari, non gli altri. Poi i mondiali di calcio sono finiti, particolarmente in fretta per la nazionale italiana. E, nonostante la buona volontà, il digitale terrestre era già arrivato una volta sulla Terra ed era impossibile farcelo arrivare una seconda volta.
La novità di oggi è che i dati negativi riguardano un po’ tutti quelli che operano sul mercato interno, ma non chi opera sull’estero. Sull’interno, a soffrire di più sono le piccole superfici, i negozi sotto casa, che risentono di un andamento negativo di più lungo periodo. Ma soffre anche la Gdo, la grande distribuzione organizzata, dove pratiche come il 3×2, gli sconti e le altre politiche aggressive di prezzo che dettano legge sui concorrenti piccoli e sui fornitori industriali avevano sempre garantito una sostanziale tenuta, se non un’espansione dei volumi di vendita. Le cose vanno invece diversamente per chi opera sull’estero. Tra il gennaio 2010 e il gennaio 2011 il fatturato industriale sull’estero mostra un bel +14,1 mentre quello sull’interno mostra un magro +5,3 per cento. Quel po’ di ripresa industriale che osserviamo viene dall’estero, non dall’interno.

PERCHÉ LE RIFORME AL PALO

I dati su vendite al dettaglio e fatturato dell’industria indicano che una parte di Italia – quella delle grandi aziende globali che esportano anche delocalizzando segmenti di produzione – è ripartita e alla grande. La riduzione o persistente stagnazione delle vendite non riguarda certo queste aziende, che anzi macinano profitti. ȓcolpa” degli altri, è “colpa” di chi la crisi l’ha sperimentata sulla pelle perché cassintegrato o ex-lavoratore precario nel privato o nel pubblico così come delle piccole aziende manifatturiere e dei servizi che soffrono la concorrenza della grande distribuzione o che sono prese per il collo per i termini e per le modalità di pagamento dalle grandi aziende globali o dalla pubblica amministrazione. Per queste persone, per queste aziende, la globalizzazione, le nuove tecnologie, le liberalizzazioni sono come l’aglio per le streghe: sono la ragione – almeno quella percepita – delle loro difficoltà sul lavoro o in azienda e in ultima analisi la causa dei loro insuccessi.
Quando gli esperti espongono il loro credo sulla necessità di recuperare competitività come la ricetta per “ritornare a crescere” – lo hanno fatto recentemente quelli del Fondo monetario internazionale nel loro World Economic Outlook dell’aprile 2011 – rischiano di ignorare i problemi di una fetta consistente dei lavoratori e delle aziende italiane. Diciamolo: ricette che aumentano la competitività dell’azienda Italia nel suo complesso producono anche perdenti, non solo vincitori. Abolire l’articolo 18 per eliminare l’ingiusto dualismo del mercato del lavoro italiano di per sé non provoca aggravi per le casse dello Stato, ma per essere socialmente tollerabile richiede una riforma degli ammortizzatori sociali che costerebbe vari miliardi di euro. Mettere un distributore in ogni supermercato farebbe chiudere tante pompe di benzina inefficienti che oggi producono un reddito per i loro gestori, i quali a loro volta domani chiederebbero di essere tutelati. Così come aumentare il numero di licenze dei taxi implica di compensare i detentori attuali per il diminuito valore della licenza.
Insomma, in un’economia come quella italiana in cui mancano quattro o cinque punti di Pil e un milione di occupati rispetto a prima della crisi, le riforme liberali non sono più a costo zero perché devono includere nel conto il costo di ricompensare i perdenti. Che sono numericamente molto maggiori rispetto a tre anni fa. Se non si condivide questa consapevolezza, si finisce per non capire perché le riforme rimangano sempre al palo.

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SENZA UN’INTESA NIENTE ITALIANITÀ

11 commenti

  1. maurizio sbrana

    E’ proprio per rilanciare i consumi interni stagnanti, ormai da anni, effetto del ‘non-governo’ del Paese (la crisi c’è stata in tutto il mondo, ma allora perchè la Germania ‘viaggia’ a colpi di record?…), che andrebbero, coraggiosamente, impostate le Riforme. Secondo me, la più urgente è la Riforma Fiscale, che tuttavia dovrebbe essere veramente ‘epocale’: ripartendo dall’applicazione dell’art.53 della nostra Costituzione (fin qui mai attuato), ovviamente con altre diverse modalità. Con un gruppo di Amici di Firenze abbiamo redatto una ‘bozza’ di intervento di Riforma: chi può essere interessato, si metta in contatto.

  2. antonio ferrara

    Quello che sta accadendo sembrerebbe sotto gli occhi di tutti. Una parte consistente degli italiani non ha semplicemente più soldi da spendere per recarsi in ferie o acquistare un elettrodomestico non necessario o un’automobile nuova. I cittadini non hanno più soldi per mangiare. Stiamo riducendo i consumi del cibo. Vuol dire, secondo il mio modestissimo parere, che siamo alla "frutta". Il governo e i politici fanno finta di non vedere, noi cittadini siamo passivi ormai a tutto, ci scandalizziamo per banalità e siamo superficiali nelle opioni e riflessioni. La storia non ci ha insegnato nulla, anche perchè non la conosciamo. Dobbiamo uscire dalle contrapposizioni politiche ed ideologiche, realizzate ad arte per confonderci. Se noi cittadini tutti, da Nord a Sud, senza colore, solo "semplici cittadini" non prendiamo coscenza del problema, l’Italia tutta affonderà. Alle "porte" abbiamo grandi nazioni Cina, India, Brasile, ecc. tecnologicamente, culturalmente e numericamente immense. Solo se noi italiani ci uniremo, forse, dico forse, riusciremo a rimanere a galla. Ma sono pessimista. Spero di sbagliarmi. Saluti

  3. brandi mario

    Condivido l’analisi di Daveri, anche se riforme come quella degli ordini professionali e del processo civile garantirebbero a cittadini e aziende risparmi notevoli. In generale anche "ricompensare i perdenti" converrebbe al paese.

  4. bob

    Un operaio tedesco del settore auto guadagna 2500 euro mensili, con premi di produzione come nel caso della WV che arrivano anche a 3500 euro annuali. Il sindacato compatto siede nel consiglio d’amministrazione delle società. Un operaio italiano prende circa 1200 euro mensili, non ha premi, fa molta cassa integrazione, ha una miriade di sigle che "non – lo -rappresentano". Per il sindacato italiano l’obiettivo era di "abbattere il padrone", per quello tedesco di creare benessere ai propri iscritti. Non avendo i nostri sindacalisti la dignità di dimettersi in blocco, cosa aspettano, soprattutto le nuove generazioni, a mandarli a casa e creare una struttura nuova che li rappresenti veramente? Questo Paese è morto anche sotto questo punto di vista, impariamo da quello che sta succedendo nel Nord-Africa, dove per la prima volta ragazzi giovani tentano di difendere e costruire il proprio futuro. Si vuol fare economia senza mettere i soldi in tasca alla gente? Di cosa parliamo??

  5. Angelo

    Ma secondo voi i "perdenti" sono qualcosa di ineluttabile? Non è che forse bisognerebbe semplicemente mettere in atto dei meccanismi per fare in modo che quella gente "non perda", invece che prima lasciare che siano fregati e poi ricompensarli? Non è che potrebbe essere semplicemente vietato non pagere i giovani che lavorano? A della gente non si dà un soldo, e poi ci si lamenta che non spende. Ve ne accorgete ora che il problema dell’Italia è nella distribuzione della ricchezza? Va be’ che keynes è fuori moda, ma almeno Fitoussi lo potevate ascoltare, sono anni che ci dice che il problema dell’italia è di distribuzione.

  6. BOLLI PASQUALE

    Il sistema Italia è senza attualità e senza futuro. I nostri governanti hanno devastato tutto:società, istituzioni, economia,cultura e dignità di popolo.Il nostro Paese è in un pantano malsano che ci porta sempre più giù, sempre più in basso. Il grande problema della nostra società non è tanto quello di vivere una drammatica condizione,ma la colpevole irresponsabile accettazione della stessa.Se gli italiani non prendono coscienza e girano pagina,non avranno futuro. Se in Italia non si faranno severissime leggi contro organizzazioni criminali politiche e non,contro la devastazione delle nostre istituzioni e leggi per uso personale. La nostra economia non potrà avere speranze. Il mercato sarà sempre più al palo perchè saranno sempre più gravi le diseguaglianze di una società fatta da pochi molto ricchi e tantissimi altri nei disagi della povertà. Il nostro Paese non è governato, perchè chi dovrebbe farlo non lo fa per interessi di parte. I nostri goverrnanti non si interessano dei problemi della gente,ma dei propri. Il letargo degli italiani prima o poi avrà fine, e, solo allora, potremmo rivedrer le stelle con la dignità recuperata di uomini liberi nel consesso delle nazioni.

  7. Luciano Galbiati

    Una differenza rispetto a tre anni fa. Il "miracolo" americano, così come quello irlandese, spagnolo, greco, islandese, eccettera, ha fatto flop. Il credit crunch globale (e recessione conseguente) ha fatto giustizia di tanta "tiritera" liberista e demolito granitiche certezze nelle capacità taumaturgiche della deregulation (altro che aglio per le streghe!). In Italia tutto ciò che si poteva "liberalizzare" (massacrare) è stato "liberalizzato" (massacrato); ciò che resta è sparare sulla croce rossa! Un caso di cui ho grande esperienza, in quanto tassista. Si vuole ad ogni costo (secondo i dettami di astratte e fallimentari teorie econometriche) concentrare le 50.000 licenze taxi nelle mani di qualche potente oligopolio. No problem. Ricomprare ,come suggerito nell’articolo ,i permessi (a prezzi di mercato) e varare un piano di prepensionamenti (in analogia alle ristrutturazioni aziendali) per i 70.000 operatori. Una certezza. Il 99,9% dei tassisti chiuderebbe "baracca" senza alcun rimpianto per un lavoro faticoso, pericoloso e mal retribuito. Appetiti oligopolistici soddisfatti, autisti in meritato riposo, teoria neoclassica standard confermata; il migliore dei mondi possibili! Aspettiamo fiduciosi.

  8. Dario Q.

    Per anni un neoliberismo semplificato ha raccontato agli italiani che l’unico ostacolo alla competitività erano le lentezze della pubblica amministrazione, e che occorreva diminuire le tasse per rimettere soldi in tasca agli italiani. È stata una gigantesca opera di autoassoluzione di chiunque appartenesse in senso lato al settore ‘privato’. Scopriamo oggi che oltre alle tasse ufficiali, ne paghiamo molte altre, occulte. Paghiamo taxi perché non ci deve essere un trasporto pubblico efficiente, paghiamo il canone RAI perché non ci deve essere informazione libera, paghiamo notai perché mettano un timbro su una carta, etc. I veri perdenti, carissimo Daveri, sono i cittadini e i consumatori. Ai quali viene impedito il semplice esercizio di democrazia economica consistente nello scegliere e premiare i servizi più efficienti. Eliminiamo le distorsioni del mercato, pagando automobili e giornali per quel che valgono e non con gli incentivi, facciamo fare il professore universitario a chi è bravo e sa insegnare, e chissà, questo paese potrà ripartire. L’ultima delle nostre preoccupazioni è garantire chi è già garantito. I (forse) perdenti di domani, per il momento sono largamente vincenti.

  9. luigi zoppoli

    Per la verità andrebbe sottolineato che le riforme liberali non sono state fatte neppure prima della grande crisi. Che riformare generi dei perdenti è un fatto ma non riformare costa di più a tutto il paese compresi i perdenti e pregiudica le capactà di crescita. D’altronde il valore reale dei redditi e del PPP parla chiarissimo.

  10. Gianluca Rapuano

    Giusto avere la consapevolezza di questo, ma è proprio questa consapevolezza che dovrebbe far in modo di attuare alcune riforme. Dove ci sono extraprofitti, come nel mondo petrolifero, bancario e farmaceutico le liberalizzazioni dovrebbero avere l’effetto di diminuire questi extraprofitti. Le liberalizzazioni devono servire a questo: non a creare "perdenti" e "vincenti", ma a creare "vincenti" un pò meno ricchi e altri "vincenti" che guadagnano da questa redistribuzione efficente della ricchezza.

  11. Armando Pasquali

    Già, perché compensarli? E’ questa la posizione, encomiabile per la schiettezza, della maggior parte dei liberisti anglosassoni. Si è fatto tanto per ottenere dei guadagni in termini di efficienza (vocabolo-feticcio dell’economia moderna): allora perché bruciarli quasi tutti in compensazioni varie? La ragione per cui le riforme in Italia non si fanno (o meglio: si fanno ma molto, troppo lentamente) è semplicemente perché manca il coraggio di farle, per le ovvie conseguenze in termini di aumento della povertà. Non certo perché c’è qualcuno che pensa di indennizzare i perdenti.

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