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IL CAPITALISMO DI DON RODRIGO

Se il modello è la legge francese sugli investimenti esteri nei settori strategici, quella che Tremonti si accinge a proporre non servirà a fermare la scalata di Lactalis a Parmalat. E d’altra parte talvolta non c’è neanche bisogno di una legge. Se ogni impresa ha bisogno giornalmente di autorizzazioni complesse, date in modo non sempre trasparente, e se le commesse pubbliche sono una fonte importante di ricavi, allora lo Stato di fatto può ricattare le aziende.

La legge francese sugli investimenti esteri nei settori strategici (legge n. 2004-1343 del 9 dicembre 2004, poi integrata dal decreto n. 2005-1739 del 30 dicembre 2005) sottopone alla autorizzazione del governo gli investimenti in una serie di settori. La legge del 2004 indica che si tratta di “(a) attività relative all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica o agli interessi della difesa nazionale, ovvero (b) di attività di ricerca, produzione o commercializzazione di armi, munizioni, di poveri o sostanze esplosive”. L’elenco è poi stato specificato dal decreto del 2005, che per dovere di cronaca e servizio ai lettori traduciamo.

IMITARE I FRANCESI?

Come si vede, non c’è nulla di straordinario. Si tratta dei “soliti sospetti”, ovvero i settori legati all’ordine pubblico, alla difesa, alle armi, alla produzione di agenti patogeni eccetera. Quello del gioco è forse il settore più discutibile, ma probabilmente è giustificato o con timori di elusione fiscale o di riciclaggio di denaro. Non abbiamo sicuramente né l’auto, né l’energia, né tanto meno l’alimentare. Se quindi Giulio Tremonti vuol copiare quella legge, faccia pure, ma Parmalat e Edison che c’entrano?
Però, soprattutto in questi settori, i francesi non sono comunque delle educande. Nell’energia non hanno neppure bisogno di tante clausole: lo Stato ha il 36 per cento di Gdf-Suez nel gas e oltre l’80 per cento di Edf nell’elettrico. Eni ed Enel sono presenti in Francia, ma scontrandosi con diffidenze e ostacoli vari, e tuttora hanno quote di mercato che faticano a superare il 3 per cento. E non si dimentica come Enel avesse cercato di scalare Suez nel 2006, e come la risposta francese fosse stata la fusione tra la statale Gas de France e la stessa Suez, effettuata in barba a obiezioni antitrust di varia origine. Una fusione difensiva messa in piedi in fretta e furia solo per evitare l’invasione italiana. 
Così come il possibile matrimonio Fiat–Danone (tramite Ifil) fu a suo tempo stoppato dallo Stato francese, che nel 2005 – a quanto pare – bloccò sul nascere un’analoga iniziativa della Pepsi. Ma non fu una legge o un altro atto formale a bloccare queste operazioni. Bastò la cosiddetta moral suasion (persuasione morale). Che in questo caso appare però quanto mai “immoral”, perché si basa in realtà – in buona sostanza – sul potere di ricatto che uno Stato ha sugli azionisti privati.
Purtroppo, in alcuni paesi non c’è bisogno di una legge. Se ogni impresa ha bisogno giornalmente di autorizzazioni complesse, date in modo non sempre trasparente, se le commesse pubbliche sono una fonte importante di ricavi, e così via, allora lo Stato di fatto può ricattare le aziende. Se fosse la strada preconizzata da Tremonti, non mi parrebbe un passo verso la “modernità”, qualunque cosa questo possa significare; mi ricorda più l’arbitrio del Don Rodrigo di turno sul popolino locale, che veniva vessato con imposte insensate e soggetto a varie angherie, fino allo jus primae noctis. Non sono uno storico, ma non mi pare di ricordare che quei periodi fossero caratterizzati da un vibrante sviluppo economico.
Visto che la legge francese non aiuta, è questo tipo di comportamenti che il governo italiano vuole forse copiare? Allora forse, purtroppo, non è un caso che sulla vicenda Lactalis-Parmalat qualcuno abbia cominciato a reclamare indagini della magistratura, interventi della Guardia di finanza eccetera. Secondo qualcuno, questo matrimonio non s’ha da fare. A buon intenditore…

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SENZA UN’INTESA NIENTE ITALIANITÀ

  1. Carlo Grezio

    Appurato che la legge francese protegge settori molto specifici; Tremonti non sarebbe comunque in grado di scrivere e far approvare una legge che protegga aziende italiane non strategiche dalle acquisizioni estere. E per quale motivo poi si dovrebbe farlo? Perchè si dovrebbe in una logica comunitaria evitare che Parmalat o Bulgari diventi Frapp?

  2. Andrea Zatti

    La vera conclusione di questo insieme ormai ampio e sfaccettato di esperienze è che l’Europa rappresenta una continua contraddizione, che diffcilmente porterà ad un risultato coerente. E’ curioso, se ci pensiamo bene, come il dibattito politico e culturale si avventuri sempre più su temi di grande importanza e profondità come il finanziamento del bilancio, la difesa europea, gli Eurobonds, una politica unica di immigrazione, etc.. quando è palese che non si è ancora, nenche lontanamente, raggiunta l’unificazione del mercato. E’ vero che sarebbe auspicabile un’unione politica da accompagnare ad un’unione monetaria, ma entrambe devono essere precedute da un reale completamento del mercato unico. Come si può pensare di aver fiducia di quanto possa fare un esercito di bulgari o irlandesi, o di offrire garanzie federali su debiti nazionali, se non si ammmette che lo yogurt lo possano produrre indistintamente i francesi o gli italiani o che la metropolitana di Parigi possa essere gestita da una società italiana o inglese?

  3. Riccardo Fabiani

    Lungi da me il difendere Tremonti, ma magari su questo punto qualche ragione ce l’ha. Il problema e’ di regole comunitarie: se la Francia interviene arbitrariamente per difendere i suoi campioni nazionali, noi che facciamo? Lasciamo che i loro monopolisti si prendano le nostre aziende, passivamente, mentre a noi il contrario e’ negato? Forse Tremonti sta alzando la posta per poter negoziare un accordo a livello comunitario… o almeno cosi’ mi auguro.

  4. Franco Becchis

    Mi congratulo con Carlo Scarpa per aver saputo coniugare brevità e chiarezza su una vicenda su cui i media stanno abbondando in confusione. Segnalo anche che Radio24 e il Financial Times hanno dato due versioni diverse, e non chiarissime, della norma di protezione francese, senza citare chiaramente fonte e oggetto, cosa che Lavoce ha fatto.

  5. luigi saccavini

    Nell’alimentare siamo l’ortofrutta d’Europa, siamo primi al mondo per i nostri prodotti. L’alimentare dovrebbe reggere su un brand italiano dal respiro globale (almeno uno). Trascorsi vent’anni dal flop De Benedetti che aveva costruito una base robusta, da implementare con SME, finita come sappiamo, in Italia abbiamo qualche gruppo monosettoriale (Barilla, Ferrero) e una infinità di aziende medie o piccole che ci invidiano ma non fanno sistema globale. Salvata da un grande manager Parmalat, è evidente che: o si sviluppa da multinazionale per aggregazioni come Unilever o Nestlè, o finisce che se la mangiano. Se al Ministero per lo Sviluppo queste cose le sanno, a loro deve star bene così. Gridare allo scandalo quando si verificano le conseguenze e invece di essere compratori diventiamo preda, mi sembra fuori luogo. Sembra una iniziativa di difesa nazionalistica, quasi formale. Forse si dovrebbe "sviluppare" un piano organico, anziché chiudere la stalla quando avvertiamo gli effetti del “piccolo e bello” a tutti i costi.

  6. Patrizio Rubechini

    Il d.l. di Tremonti ricalca gli scopi della norma francese, ma lo fa "all’italiana",copiandone lo spirito (ovvero proteggere la governance di settori nazionali "sensibili") ma asservendo il tutto alla difficile situazione economica del Paese. Se oltralpe tale protezionismo sembra giustificato,credo che qui da noi non lo sia affatto se attuato con una norma "anti-scalate", per il semplice motivo che il Mercato ne risentirebbe, l’Europa potrebbe ulteriormente criticarci e d’improvviso verrebbero cancellati anni di storia e di evoluzione della politica economica italiana ed europea che, anche per il settore alimentare, auspica e nel contempo pretende la massima libertà di iniziativa. D’altra parte, c’è da riconoscere che la norma pro Parmalat forse non è altro che l’espressione concreta di un ordine economico "nascosto" all’interno della Costituzione: l’art. 41 infatti, quando parla di utilità sociale, sembra voler indirizzare le attività verso "comportamenti" conformi ad un ideale sistema ristretto di precetti di rango normativo superiore in grado di orientare anche legislativamente la società verso la stabilità. Forse allora Lactalis verrà fermata, ma solo per poco.

  7. Elio de Nichilo

    La vicenda Parmalat evidenzia l’assenza di una politica industriale nel nostro paese. Da mesi su tutta la stampa si raccontava dello strepitoso lavoro compiuto in Parmalat dal Dott. Bondi. Un risanamento basato sia sull’eliminazione o razionalizzazione di alcune produzioni che sul recupero di ingenti disponibilità finanziarie – alias liquidità – da banhe d’affari e non. Ora se avessimo un governo in grado di seguire l’evoluzione delle vicende industriali, ben prima dell’arrivo dei francesi, si sarebbe potuta creare una fusione tra Parmalat ed altri campioni della qualità nel settore alimentare italiano – le già citate Ferrero e Barilla – cogliendo due piccioni con una fava: far sbarcare in borsa due "campioni" della nostra industria alimentare creando un grande gruppo economico ben più difficile da scalare e nel quale sarebbero potute confluire anche altre aziende. Un tentativo in extremis c’è stato da parte di IntesaSanpaolo con i Ferrero. Ma come tutte le iniziative improvvisate e frettolose è naufragata. Tempo ce n’era ma si sa in Italia o si lavora per emergenze o nisba. Sarà che il ministro Tremonti e tutto il governo sono sempre con il cuore e la mente impegnati altrove?

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