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ACQUA SUL DOPO-REFERENDUM

Sono passati quasi due mesi dalla sonante vittoria dei referendum contro quella che gli italiani hanno creduto essere la privatizzazione dell’acqua. Cosa i referendari non vogliono è chiaro, manca però una proposta concreta che permetta di misurare la fattibilità del modello di gestione alternativo. Manca perché il passaggio dalla narrazione ai fatti non è per niente semplice. Come dimostra l’emblematica vicenda dell’Acquedotto pugliese. Che continuerà ad applicare in tariffa la quota di remunerazione del capitale investito.

Sono passati quasi due mesi dalla sonante vittoria dei referendum contro quella che gli italiani hanno creduto essere “la privatizzazione dell’acqua”, e tra gli addetti ai lavori regna un misto di sconcerto e curiosità: chi ha votato “no” o – come il sottoscritto – si è ritirato sull’Aventino, attende con trepidazione che, dopo averci detto chiaro cosa non vogliono (la privatizzazione, la mercificazione, il profitto, la coca-colizzazione, la quotazione in borsa di nostra madre), i referendari avanzino qualche proposta concreta che ci permetta di misurare la fattibilità del modello di gestione alternativo: in sintesi, ritorno alla gestione attraverso enti di diritto pubblico, erogazione gratuita di un primo contingente di 50 l/giorno a testa, creazione di un “fondo per la ripubblicizzazione del servizio idrico” a carico della fiscalità generale. (1)

STORIE ESEMPLARI: L’ACQUEDOTTO PUGLIESE

La curiosità è andata finora delusa: dopo i solenni annunci del giorno dopo la vittoria (del genere “non faremo prigionieri”), dopo i peana alla rinascita democratica e alla nuova economia post-capitalistica dei beni comuni condivisi, dopo le filippiche contro gli “economisti rancorosi” che secondo i leader referendari avrebbero imprigionato la questione dell’acqua nel grigio mondo dei libri contabili, si percepisce l’imbarazzo di chi non sa bene che pesci pigliare. (2)
Qualche balbettio si è in realtà udito: come l’idea di utilizzare i proventi della lotta all’evasione fiscale o di ridurre il bilancio della difesa. Per non parlare dell’idea di utilizzare titoli di Stato irredimibili (ossia, a scadenza eterna) per finanziare programmi di investimento a fondo perduto: una vero furto ai danni delle generazioni future, che fa impallidire le pur audaci patacche finanziarie di Bernie Madoff.
Mentre i vincitori provano ad elaborare proposte un po’ più solide, purtroppo, gli italiani continuano ad aprire i rubinetti di bagno e cucina, e le aziende a sostenere costi che devono poi finanziare. E i primi nodi stanno già arrivando al pettine, facendo emergere qualche scricchiolio nella gioiosa macchina da guerra. Il governatore della Puglia Nichi Vendola, tra i più ferventi sostenitori del referendum, ha di recente annunciato che l’Acquedotto pugliese continuerà ad applicare in tariffa la quota di remunerazione del capitale investito, considerata la necessità di onorare il debito assunto sul mercato. (3)
Il Vendola amministratore si rivela essere molto più lucido e pragmatico del Vendola predicatore: quando si passa dalle “narrazioni” ai fatti, la crudezza dei numeri è purtroppo più forte di qualunque filosofia.
Del resto fu sempre lui, nel 2006, quando maturò il divorzio dall’allora presidente di Aqp, Riccardo Petrella (guru del movimento per “l’acqua bene comune” e ispiratore quanti altri mai del referendum, che alla guida del più grande acquedotto d’Italia si era prefisso di attuare i principi della legge di iniziativa popolare), a bollare la sua strategia come “frutto di un radicalismo astratto”, “dogmatismo”, “mancanza di senso della realtà”; “esercitazioni scolastiche” che avrebbero portato non a una “ripubblicizzazione” ma a una “ripoliticizzazione” di un’azienda che, finché era restata ente pubblico, aveva “perso parte del suo sapere produttivo, piegandosi a logiche clientelari”. (4) E concludeva: “L’acqua, per diventare bene comune e diritto universale, deve prima divenire senso comune (…) è più rivoluzionario, allo stato attuale, far partire i piani d’investimento che servono a modernizzare la rete”.
Com’è, come non è, dopo le dimissioni di Petrella, l’Acquedotto pugliese – in passato noto per “aver dato più da mangiare che da bere” – ha marciato a tappe forzate verso il risanamento, chiudendo il 2010 con risultati a dir poco scintillanti: margine operativo lordo +53 per cento, ottenuto in parte grazie all’aumento dei ricavi (+10 per cento, dovuto soprattutto alla maggiore efficienza e puntualità di riscossione e alla lotta alla morosità), per il resto grazie alla riduzione dei costi di gestione, pur in presenza di miglioramenti praticamente in tutti gli indicatori qualitativi; investimenti per 200 milioni; utile netto triplicato (e destinato interamente all’autofinanziamento). Come ciliegina sulla torta, è arrivata pure la promozione da parte di Standard & Poor’s, che ha innalzato il merito di credito.
La storia recente di Aqp dimostra che si può gestire ottimamente l’acqua essendo pubblici, perfino partendo da situazioni al limite del collasso: ma che per riuscirci bisogna rispettare le aziende, proteggendole dall’intrusione della politica, facendo attenzione ai bilanci, lasciando che a guidare le scelte sia il principio economico di creazione del valore (che non è una bestemmia né un sopruso contro i cittadini, soprattutto se inteso non nel senso riduttivo del dividendo a breve, ma includendovi proprio la cura di quel “bene comune” di cui molti parlano senza sapere che cos’è).

INVESTIMENTI E PROFITTI

Ovviamente, nessun esponente referendario sosterrà mai di volere danneggiare le aziende rendendole ostaggio della politica: tuttavia, nel mondo fattuale non contano le buone intenzioni dichiarate (delle quali, come è noto, è lastricata la via dell’inferno), ma quelle consequenziali alle scelte concrete che si fanno. Se dichiaro di volere A, e risulta che A è incompatibile con B, se poi scelgo di fare B, e come se scegliessi anche di rinunciare ad A.
Fatto sta che alte grida di tradimento si sono già levate, e lasciano presagire una prossima defenestrazione del “girondino” Vendola dal comitato di salute pubblica che detta la linea dei vincitori. E Vendola, incalzato dal fuoco amico, si è affrettato a scaricare la colpa sull’amministrazione precedente che aveva contratto il prestito (peraltro glissando su come un’azienda all’epoca prossima al collasso avrebbe potuto altrimenti finanziarsi).
A noi semmai spiace che queste cose non abbia avuto il coraggio di dirle prima (“nessuno me lo ha chiesto”, è stata la serafica risposta): ma meglio tardi che mai. Il fatto che lo dica lui e non un “economista rancoroso” può forse contribuire a far capire a molti italiani una cosa scontata e ovvia, che più volte abbiamo provato a comunicare, senza molto successo, anche da queste colonne: che la remunerazione del capitale investito non era un odioso balzello imposto per garantire il profitto ai privati – rimosso il quale le risorse finanziarie sarebbero zampillate gratis dalla cornucopia della finanza pubblica; ma era nient’altro che il costo del denaro che le aziende idriche (sia pubbliche che private) devono chiedere al mercato per fare gli investimenti.
A Vendola il merito di questa opportuna, seppur tardiva, presa di posizione. Nella speranza che altri lo seguano presto.

 

 (1) Questo è prefigurato nella proposta di legge di iniziativa popolare cui la campagna ha fatto diretto riferimento. Il testo della proposta può essere scaricato da: http://www.acquabenecomune.org/spip.php?article=211

 (2) “Economisti rancorosi” è una citazione testuale dall’intervento di Emilio Molinari pubblicato da alcuni giornali all’indomani del referendum.

 (3) Si tratta, per la cronaca, del bond da 250 milioni di euro, tasso 6,9 per cento, con scadenza al 2018, emesso da Aqp nel 2004 e gestito attraverso l’accantonamento su un fondo di bilancio speciale alimentato da una quota della tariffa. Il bond, amministrato da Merrill Lynch, fece discutere per le condizioni molto onerose e la squilibrata ripartizione dei rischi; è stato peraltro rinegoziato nel 2009 a condizioni più eque.

 (4) Intervista rilasciata a Il Manifesto del 10-12-2006.

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11 commenti

  1. Alessandro

    92 minuti di applausi!

  2. antonione

    Sono una persona matura, seguo con attenzione quanto si dice intorno ai grandi eventi della nostra società e sulle privatizzazioni di qualunque genere si accetta per scontato che il pubblico non funziona.Forse il problema dell’italia é proprio questo, l’accidia della classe dirigente che unita a smodati interessi presonali a tutti i livelli, che hanno portato il debito a superare 1.800 €, più che parlare di privatizzazioni dobbiamo parlare di vendita dei gioielli di famiglia.

  3. Riccardo Colombo

    La storia dell’Acquedotto Pugliese è la dimostrazione che anche un ente pubblico può essere gestito in modo efficiente. Quindi non è affatto necessario ” privatizzare” per avere una gestione efficiente del servizio pubblico. Almeno su questo punto i referendari hanno chiaramente ragione. Per quanto riguarda la remunerazione del capitale investito, credo che il referendumo abbia voluto mandare un messaggio chiaro: gli enti locali devono controllare la gestione dei servizi dati in concessione, cosa che oggi non fanno, anzi! Negli ultimi anni le tariffe dell’acqua (e quelle dei rifiuti) hanno fatto registrare incrementi ben superiori ai prezzi al consumo. Perché? Quando gli enti locali sapranno rispondere a questa domanda si potrà riparlare di rimunerare il capitale investito.

  4. Alice Tura

    Sono sempre più convinta che il ruolo dell’ente pubblico non sia quello dell’imprenditore ma del programmatore, regolatore e controllore. Quando i ruoli si mescolano, l’efficienza (e spesso anche l’efficacia) finiscono in secondo piano. Non è sufficiente assicurare che gli amministratori delle spa pubbliche non rivestano anche il ruolo di amministratori in altri enti pubblici: la nomina dei CdA delle societa pubbliche resta sempre di tipo politico e non meritocratico e le logiche clientelari non vengono certo fermate. La prima a farne le spese è l’attività di controllo, perché è più difficile criticare o sanzionare chi è della propria parte politica……..

  5. P. Magotti

    E’ stato detto e ridetto da chiunque, e bastava leggersi la legge per capirlo e non farsi indottrinare da estremisti, che la norma non prevedeva la privatizzazione di niente. Non sosteneva che un azienda privata è migliore di quella pubblica o viceversa. La legge con asta, garantiva che vincesse il migliore, privato o pubblico che sia.

  6. alberto arnoldi

    Non credo che il 57% degli italiani sia completamente idiota e se a qualche economista non sta bene il risultato è forse perchè non è riuscito a spiegare agli italiani, e forse anche a se stesso, perchè avrebbero dovuto votare no ai referendum sull’acqua. Ma forse quegli economisti non vogliono ammettere le loro mancanze. Ad ogni modo credo che la vittoria del sì sia dovuta al fatto che molti italiani reputano che le reti idriche siano un monopolio pubblico naturale e tale deve rimanere, senza ingerenze di imprese private, e che sia più facile cacciare un pessimo amministratore pubblico che una multinazionale. Inoltre gli italiani credo abbiano reputato ingiusto fare di tutta un’erba un fascio e ritenere tutte le reti idriche pubbliche inefficienti quando in realtà questo non è, specialmente nel nord Italia.

  7. Alessio D'Alessandro

    Alcune osservazioni:
    1) I referendari sono i primi a voler PROTEGGERE le aziende pubbliche dalla “politica”. Una delle prime critiche dei referendari alla legge pugliese era proprio la previsione dell’amministratore unico di nomina del presidente della regione, che si presta facilmente a clientelismi. Pubblica e partecipata è la gestione dei comuni con controllo di assemblee elette di cittadini e rappresentanti dei lavoratori (come a Parigi), non nomine del presidente della regione: i referendari sono i PRIMI a dirlo.
    2) La remunerazione del capitale non è l’ammortamento degli investimenti, che è voce separata nella tariffa, composta da costi di progetto, ammortamento investimenti e, fino prima del referendum, remunerazione. Quindi è possibile recuperare gli investimenti anche se non ci sono profitti.
    3) Fin tanto che non ci sarà una normativa nazionale che ristabilisca il ruolo della finanza STATALE PUBBLICA sarà difficile che gli enti locali con le loro risorse riescano a farcela. Attualmente manca il contesto legislativo statale che assicuri i finanziamenti pubblici e fiscalità generale: solo con queste premesse sarà possibile cogliere la portata rivoluzionaria del referendum.

  8. Luigi CUBERLI

    Ma dopo la consultazione referendaria= democrazia diretta, non dovrebbe essere pubblica? E se si da quando?

  9. CARMINE

    Se voleva dimostrare che non serve la privatizzazione per gestire in modo efficiente gli acquedotti, complimenti ci è riuscito. Io lo pensavo già prima dei referendum! Ben arrivato nel club, siamo numerosi.

  10. Franco

    I Referendari continuano a commettere un grosso errore e continuano a distorcere la buona fede della gente almeno sul primo quesito! La vittoria del sì ha abrogato solo la legge che disciplinava i servizi pubblici locali a rilevanza economica ma come conseguenza non impone nessuna ripubblicizzazione. Nei fatti, siamo stati chiamati a dire:”volete evitare le liberalizzaioni a tutti i costi di tutti i servizi pubblici locali a rilevanza economica?” e NON “volete ripubblicizzare il servizio idrico a tutti i costi?”. Come si capisce è ben diverso! E’ moralmente (oltre che giuridicamente) scorretto far passare per “tradimento” dello spirito referendario le presunte mancate ripubblicizzazioni (se non dovessero farsi) in quanto la stessa Corte Cost., che ammise il primo quesito, precisò che in caso di abrogazione del 23-bis si sarebbe applicata la normativa europea che predilige comunque il ricorso al mercato sebbene dia come scelta anche l’utilizzo della gest. pubblica diretta. In pratica OGGI chi vuole dare in gestione il servizio idrico ad un’az. pubblica in house providing può farlo ma chi volesse organizzare gare ad evidenza pubblica può farlo anche senza “tradire” un bel niente!

  11. Antonio Guerra

    Non possiamo pretendere che chi ha promosso i referendum contro la privatizzazione della gestione dell’acqua oggi, a bocce ferme, abbia una proposta alternativa valida. La questione è stata, apertamente, ideologizzata al massimo (ci ricordiamo anche gli interventi di Adriano Celentano, un cantante che quando parla si crede Gesu’ Cristo reincarnato in terra) ma senza una proposta alternativa valida, come fa sempre la sinistra. Ovvero una soluzione per loro ci sarebbe: il solito baraccone pubblico, generatore di posti di lavoro inefficienti e clientelari, da centellinare in funzione dei voti che garantiscono. Se poi la gestione non funziona, gli acquedotti perdono il 30 % dell’acqua che trasportano, non è un gran problema: si chiede l’intervento dello stato che ripiana perdite e debiti e tutto continua all’infinito. Non si può certo pretendere che questi amministratori rendano conto del loro operato: lo Stato ripiana, si sa che lo Stato è un bancomat che regala soldi al primo che gli passa davanti.

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