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L’INCERTEZZA CHE FRENA LA RIPRESA

Le borse mondiali non reagiscono di questi tempi alle notizie che provengono dal mondo dell’economia, ma guardano soprattutto alla politica. Che, sfortunatamente, non è in grado di dare certezze ai mercati né negli Stati Uniti né in Europa. E ciò non solo rallenta la ripresa oggi, ma rischia di indebolire la crescita di lungo periodo. Riportare l’incertezza politica ai livelli del 2006 negli Usa potrebbe far crescere la produzione industriale del 4 per cento e creare 2,5 milioni di posti di lavoro in diciotto mesi. Non basta per parlare di boom economico, ma sarebbe un bel passo in avanti.

Ciò che più colpisce della attuale volatilità delle borse è che siano i politici a fare notizia. Le loro azioni e dichiarazioni riguardo a salvataggi, bilancio e riforme del quadro regolamentare determinano le fluttuazioni dei mercati.

LE BORSE GUARDANO ALLA POLITICA

Non è normale. Prima della crisi finanziaria del 2008, erano le notizie economiche a influenzare l’andamento dei mercati finanziari. Un Pil in crescita e dati sull’occupazione positivi facevano volare i mercati. Risultati societari negativi provocavano il crollo delle borse. Oggi, invece, gli occhi sono puntati sui politici, che sfortunatamente, non riescono a mettersi d’accordo, generando così una vasta incertezza economica. Secondo il nostro nuovo indice, l’incertezza politica è vicina ai suoi massimi storici (figura 1). L’incertezza è uno dei principali fattori che rallentano la ripresa e rischia di causare una nuova recessione.

Figura 1. Indice di incertezza della politica economica negli Usa

Fonte: Baker, Bloom e Davis (2011), “Measuring Economic Policy Uncertainty”, Chicago & Stanford mimeo. Dati disponibili online, vedi l’articolo originale per i dettagli.

COME MISURARE L’INCERTEZZA POLITICA

Abbiamo costruito un indice di incertezza politica utilizzando tre tipi di informazioni: la frequenza degli articoli di giornale che fanno riferimento all’incertezza economica e al ruolo della politica, il numero di disposizioni federali in materia fiscale in scadenza nei prossimi anni e la misura del disaccordo fra le previsioni economiche riguardo all’inflazione attesa e agli acquisti di beni e servizi da parte del governo. Il nostro indice mostra picchi di incertezza nel periodo attorno alle principali elezioni, alle guerre e all’attacco terroristico dell’11 settembre. Più recentemente, ha avuto un picco dopo il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008 e in seguito all’approvazione del pacchetto Tarp. È rimasto su valori alti da quel momento in poi. Ovviamente, è possibile che la forte incertezza politica sia una conseguenza dell’elevata incertezza economica. Per verificare questa possibilità, utilizziamo le liste di Google News per costruire un indice ampio di incertezza economica e un indice più ristretto che si focalizza esclusivamente sull’incertezza politica. Paragonando i due indici (figura 2) notiamo la presenza di picchi elevati di incertezza economica che non corrispondono a picchi di incertezza politica. ne sono un esempio la crisi finanziaria in Asia nel 1997 e alcuni periodi in cui si è temuta una recessione, nella seconda metà degli anni Ottanta. In sintesi, i dati smentiscono la tesi che l’incertezza economica fomenti necessariamente l’incertezza politica.

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Figura 2. Incertezza politica e incertezza economica complessiva

Fonte: Baker, Bloom e Davis (2011). Dati disponibili online, vedi l’articolo originale per i dettagli.

PERCHÉ L’INCERTEZZA POLITICA È COSÌ ELEVATA?

Per individuare le ragioni dell’incertezza politica, abbiamo approfondito le liste di Google News e quantificato il mix di fattori determinanti. Molti fattori determinano gli alti livelli di incertezza politica del 2010-2011, ma gli aspetti monetari e fiscali sono i più importanti. Un esempio sono i tagli alle imposte sul reddito introdotte da George W. Bush, che originariamente sarebbero dovuti scadere alla fine del 2010. Democratici e Repubblicani hanno preso posizioni opposte sulla necessità di eliminarli o meno. Invece di prendere una decisione in anticipo sulla scadenza ed eliminare l’incertezza, il Congresso ha aspettato fino all’ultimo minuto per decidere di prorogare le agevolazioni fiscali. Le recenti decisioni del Senato sull’aumento delle tariffe doganali sulle importazioni dalla Cina rischiano di innescare una guerra commerciale. In Europa, le discussioni continue riguardo a possibili salvataggi di paesi e banche alimentano il clima di incertezza politica.

PERCHÉ L’INCERTEZZA POLITICA È PERICOLOSA?

Quando le imprese non hanno certezze su tasse, costi della sanità e quadro delle regole assumono una posizione di prudenza. Fare errori su investimenti e assunzioni è costoso, perciò molte aziende aspettano momenti più tranquilli per espandersi. Se troppe aziende aspettano, la ripresa non decolla. E bassi investimenti in beni capitali, nello sviluppo dei prodotti e nella formazione del personale indeboliscono la crescita di lungo periodo. Potremmo aspettarci qualche miglioramento di breve periodo da un sistema politico stabile, che fosse capace di aumentare le certezze? Utilizziamo semplici assunzioni di identificazione e vettori di auto regressione (per i quali Sims ha vinto il Nobel quest’anno) per stimare gli effetti dell’incertezza politica. La nostra Var per gli Stati Uniti (figura 3) suggerisce che riportare l’incertezza politica ai livelli del 2006 potrebbe innalzare la produzione industriale del 4 per cento e creare 2,5 milioni di posti di lavoro in diciotto mesi. Non è sufficiente per innescare un boom economico, ma sarebbe un bel passo in avanti.

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Figura 3. Produzione e occupazione (Usa) dopo uno shock di incertezza politica

Fonte: Baker, Bloom and Davis (2011). Vedi l’articolo originale per i dettagli. Nota: Il grafico mostra la reazione della produzione industriale a un incremento di 124 punti dell’indice di incertezza politica, l’incremento registrato dal 2006 (anno precedente alla crisi) fino ai primi otto mesi del 2011. La riga nera centrale è la stima media, mentre la linee rosse tratteggiate sono la distanza di un errore standard.

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  1. ettore iannelli

    Intanto non chiamiamola crisi. E se proprio non si riesce a fare a meno di questa compulsione verbale per descrivere qualunque cosa negativa, piuttosto che un Pil che non aumenti tutti gli anni di almeno il 3%, quanto meno si specifichi “crisi dei margini di profitto della speculazione istituzionale”, che dai subprime di 4 anni fa, attraverso una “finta” di un paio d’anni sull’azionario sulla scia del profumo di dollari spruzzato dalla Fed, ha azzannato con rinnovata veemenza il debito sovrano europeo, attirata dal suo odore di sangue e dalle sue basse difese immunitarie a livello di banche centrali. Lo diventerà, crisi, quando, grazie alle profezie autoavveranti di analisti, rater e opinionisti sarà trasmessa all’economia, al momento non brillante, ma tutt’altro che moribonda. La furia “dissociata” con cui gli “istituzionali” (si dice anglo-americani, seguiti poi dagli altri) stanno svendendo l’azionario è il negativo speculare di quella stessa furia altrettanto dissociata con cui mesi fa avevano gonfiato gli indici azionari ai massimi storici (di diversi anni).

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