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LA QUALITÀ CHE MANCA ALLA PICCOLA PROVINCIA

Si parla tanto, e da tempo, di abolizione delle province o comunque di razionalizzazione del sistema. Intanto il loro numero cresce: da 95 a 110 negli ultimi venti anni. Perché si pensa che avere molte province, di dimensioni ridotte, sia importante per le specificità dei territori: più è omogenea l’area governata dall’ente locale, migliore sarà la sua azione. Ma alla nascita di otto nuove province nel corso degli anni Novanta e al conseguente frazionamento territoriale non ha fatto seguito alcun miglioramento nella qualità di alcuni beni pubblici offerti.

Se ne parla da tempo, a ondate. Nel dibattito italiano di politica economica costituiscono uno degli argomenti più ricorrenti. Si tratta delle province: periodicamente se ne invoca, con insolito e generalizzato consenso, l’abolizione o la riduzione o qualche altra forma di razionalizzazione. E tuttavia, anche limitandosi agli anni Duemila, il loro numero è costantemente aumentato. Nel 2001 si è passati da 103 a 107, nel 2004 a 110. Lontano dai riflettori mediatici, esistono inoltre progetti di legge per l’istituzione di altre nuove province. Recentissimamente il tema è tornato in agenda sull’onda della crisi del debito sovrano che il Paese sta attraversando. Si sta profilando una decisa inversione di tendenza. Il 5 dicembre scorso il presidente Monti, illustrando la manovra alla Camera, ha affermato che il suo governo “esprime la netta convinzione che si debba andare al superamento delle province, e si impegnerà fattivamente a favore di provvedimenti in Parlamento in questa direzione”. Tale superamento richiederà tempi lunghi, dal momento che le province sono previste dalla Costituzione. Nel frattempo, il cosiddetto decreto salva-Italia prevede un forte snellimento di giunte e consigli provinciali.

I RISULTATI DI OTTO NUOVE PROVINCE

Anche senza entrare nel merito della rilevanza delle funzioni delle province, occorre chiedersi se l’attuale numerosità è il miglior modo per esercitare queste funzioni. Uno degli argomenti a favore di un numero relativamente elevato di province – quale quello attuale – fa riferimento alle “specificità” dei territori: una provincia piccola e maggiormente omogenea al suo interno renderebbe più efficace la fornitura dei beni pubblici di competenza.
In un mio recente lavoro mostro che questo argomento non regge alla prova dei fatti. (1)
Alla metà degli anni Novanta hanno visto la luce otto nuove province: Verbano-Cusio-Ossola, Biella, Lecco, Lodi, Rimini, Prato, Crotone, Vibo Valentia. È così successo che, a partire da un certo momento in poi, alcuni comuni – partizioni che ben approssimano i territori – hanno potuto beneficiare di una provincia di appartenenza più piccola o di un capoluogo di provincia più vicino. Per questi comuni (chiamiamoli comuni “trattati”) è legittimo attendersi, se le specificità locali contano, un miglioramento della qualità dell’azione delle province. Questo (eventuale) miglioramento va peraltro confrontato con quello relativo a un gruppo di altri comuni che non sono stati interessati dal frazionamento territoriale e che presentano caratteristiche molto simili ai primi (“controlli”). In questo modo è possibile isolare l’effetto imputabile alle nuove province.
Per misurare qualità ed efficacia dell’azione delle province guardiamo ai beni pubblici in questione. La maggior parte della spesa, a parte l’auto-amministrazione, è assorbita dalla gestione del territorio, dalla tutela ambientale, dalla promozione dello sviluppo economico, dall’istruzione e da viabilità e trasporti. Per gli ultimi tre beni pubblici le misure sono facilmente disponibili: lo sviluppo locale è approssimabile con la crescita della popolazione, l’istruzione con la quota di popolazione con un grado di istruzione almeno pari a quello dell’obbligo e la viabilità con il numero di incidenti stradali (ogni 100 abitanti).
Ebbene, l’esercizio mostra che con l’esperienza di metà anni Novanta non si è avuto alcun beneficio nei termini sopra esposti. Anzi, nel caso della viabilità c’è stato un aumento degli incidenti stradali. Si guardi la figura di sinistra.

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Nel decennio 1981-1991 nei comuni trattati la popolazione è cresciuta mediamente dello 0,03 per cento medio all’anno (istogramma grigio). Nel periodo 1996-2005, successivo all’introduzione delle nuove province, la crescita media è aumentata, allo 0,32 per cento (istogramma arancione). La differenza tra i due periodi è stata quindi di 0,29 punti percentuali (istogramma verde). Questa differenza nel tasso di sviluppo economico è attribuibile all’appartenere a una provincia più piccola? Occorre vedere cosa è successo al gruppo di controllo. In questo caso, la crescita media è passata da 0,16 a 0,42 per cento in media d’anno, con un incremento di 0,26 punti percentuali. La differenza tra l’incremento per i trattati (0,29) e quello per i controlli (0,26) è quindi sostanzialmente nulla. Un ragionamento analogo si può fare per la quota di popolazione con istruzione obbligatoria: anche in questo caso gli istogrammi verdi sono praticamente uguali. Infine, l’analisi sull’incidentalità indica che questa è addirittura lievemente aumentata nei comuni trattati rispetto ai controlli, segnalando un peggioramento delle condizioni generali di viabilità.

* Le opinioni espresse sono quelle dell’autore e non coinvolgono l’Istituto di appartenenza.

(1) G. Barone (2011), Sull’ampiezza ottimale delle giurisdizioni locali: il caso delle province italiane, Temi di discussione, n. 823.

http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td11/td823_11/td823/tema_823.pdf

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FRAU MERKEL E GLI INTERESSI TEDESCHI

10 commenti

  1. Luigi Oliveri

    Ottima analisi, che conferma come in generale l'dea di incrementare gli enti di governo non sia mai di per sè vincente.
    Qualche poroblema si pone, tuttavia, con riferimento agli indicatori utilizzati, con scelta e prospettiva ovviamente proprie dell'autore e, dunque, oggetto di possibili critiche. Non è detto che l'efficacia sui trasporti possa discendere solo dal numero di incidenti. Questi ovviamente possono dipendere dalla qualità del manto stradale, ma anche dalla prudenza e dal rispetto delle regole di chi guida. Sarebbe interessante, allora, sapere quanti chilometri di asfaltature sono fatte nell'anno e quale frequenza di interventi manutentivi si rispetta, per comprendere la qualità dell'azione delle province. Allo stesso modo, non del tutto convincente è la riflessione sull'istruzione. Si dà, infatti, per scontato che dipenda dalle province il successo scolastico. Ma, le province non si interessano della didattica, rimessa esclusivamente alle istituzioni scolastiche, bensì della logistica e della pianificazione dell'offerta formativa.

  2. alberto vigone

    Non ho argomenti da contrapporre all’autore, ma nel “dibattito” sulle Province – piuttosto a senso unico – si sostiene l’inutilità in quanto tale di questo ente. È una tesi che l’uomo della strada magari condivide ma getterebbe nel caos il Paese, ad esempio per quanto riguarda la viabilità extraurbana, i trasporti pubblici, le scuole superiori. La soluzione che si prospetta è sostanzialmente un consorzio tra Comuni, cioè un ente fotocopia della Provincia: ovvero cambiare per lasciare tutto come prima

  3. Carlo Barone

    Lavoro molto interessante, ma concordo sulle perplessità di Olivieri riguardanti gli indicatori e ne aggiungo altre due sull’indicatore di capitale umano: a) il lasso temporale: se le nuove Province sono operative dal 1995, è molto dubbio che già nel 2001 si possano vedere effetti sui tassi di diplomati e laureati: in pratica l’autore assume un modello di mutamento quasi-istantaneo, del tipo. “oggi faccio la provincia e subito dopo ho guadagni positivi di efficienza che si riverberano sulla scolarità”; sarebbe utile guardare cosa è successo qualche anno più tardi; b) non ha molto senso guardare al tasso di istruzione nel complesso della popolazione adulta: è chiaro che l’introduzione delle province non poteva far tornare a scuola i 50enni o 60enni: conviene guardare semmai i tassi di conseguimento dei 21enni (diploma) o 27enni (laurea). Peraltro io compro pienamente la conclusione dell’autore sull’inutilità delle province, però credo che sarebbe ancora più solida se usasse indicatori migliori.

  4. Luciano Viotto

    Le norme introdotte dal Decreto Monti sulle Province, redatte in una forma essenziale quanto confusa, segnano il primo passo verso una complessiva riorganizzazione degli organismi territoriali locali a Costituzione “invariata”. Il Governo dimentica, però, quanto già prevedono norme vigenti e rimaste colpevolmente sulla carta (su tutti, il D.Lgs. 112/1998 che sanciva precise norme sulla razionalizzazione delle competenze tra le Regioni, le Province e i Comuni). Peccato che la riforma costituzionale del titolo V (legge cost. 3/2001) si sia rivelata un gran pasticcio e dieci anni dopo possiamo constatare che il parziale fallimento di quelle norme ha indotto il governo Monti ad agire solo sull’ente Provincia, dimenticandosi che i problemi stanno anche altrove (ma nessuno sembra accorgersene). Non credo sia utile adottare indicatori di qualità per stabilire se le Province siano utili o meno: le analisi del prof. Barone sono utilissime “a valle” di una ben maggiore analisi e che investe altri attori e i loro comportamenti istituzionali e gestionali. Non sono domande poste a caso.

  5. Paolo

    Lapidario: la soppressione delle Province è una grande mistificazione. La politica dà in pasto al popolo ciò che questi crede buono per la sua pancia, ma dietro la facciata del rigore si nascondono insensatezza e malafede. Le funzioni, poche o tante che siano, esercitate dalle Province sono quelle che lo Stato e le Regioni non volevano o non erano in grado di esercitare. Per contro, sono funzioni che i Comuni, anche associandosi, non potranno esercitare se non edulcorandole. Il problema non sono tanto le scuole e le strade, quanto quelle funzioni di vero coordinamento, esercitato a volte anche in termini impositivi e prescrittivi, di temi territoriali, che riguardano pianificazione e tutela (penso in particolare alla gestione di aree naturali protette), ciclo dei rifiuti, reti ecologiche. Temi sui quali i Comuni hanno interessi di tutt’altro genere e le Regioni scarsa o nulla capacità operativa. Restano i veri enti inutili (finte comunità montane, miriadi di consorzi) e si uccide l’unica forma di governo serio del territorio. Bel risultato.

  6. giulio

    Giusto un Ente intermedio tra la piccola comunità e il grande Stato nazionale. D’accordo. Ma che ve ne sia uno solo. Altrimenti facciamo le catene di S.Antonio. Assolutamente interessati e faziosi i rilievi del tipo: abolendo le Province, chi asfalterà le strade? Risposta: è così difficile passare le competenze alle Regioni? Ma qui sono in ballo delle poltrone e dei voti.

  7. maurizio

    Apprezzo il lavoro statistico ma perchè fare il confronto tra la quota percentuale di popolazione con istruzione obbligatoria tra i 2 gruppi? Che differenza fa l’esistenza o meno di una provincia in un gruppo dal momento in cui la Provincia non ha nessuna competenza sulla didattica e la logistica delle scuole elementari e medie? Tra l’altro per quanto riguarda l’istruzione superiore di 2° grado la competenza è solo quella relativa all’edilizia e quindi alle manutenzioni ordinarie e straordinarie (qui è facile notare che è assurdo che il dirigente scolastico del ministero dell’istruzione debba rivolgersi all Provincia per riparare lo scarico del bagno).

  8. Ubaldo Muzzatti

    Credo che tutti abbiano potuto osservare che nei comuni delle nuove province poco o nulla è cambiato rispetto a prima. Ben diversa è l’evoluzione della città capoluogo, l’unica che beneficia, in modo diretto (maggiori trasferimenti, investimenti, uffici, servizi) e indiretto (sviluppo indotto, affluenza dal territorio, concentrazione emporiale), del nuovo status. In generale si può osservare la crescita del capoluogo e il depauperamento del territorio. Il problema è costituito dalla struttura stessa della Provincia italiana, molto incentrata sul capoluogo, da cui prende il nome stesso. Mentre spesso non è rappresentativa di un territorio e di una popolazione omogenea a prescindere dalla dimensione. Il problema dell’efficacia e dell’efficienza, nell’erogazione dei servizi al territorio, non si risolve con province più piccole, ma modificando la struttura dell’ente intermedio. In particolare superando i privilegi dei capoluoghi, con la separazione amministrativa del territorio (piccoli e medi comuni) dalle città, perché gli stessi hanno problematiche ed esigenze diverse. Com’è in Austria e Germania, due stati con ottimi sistemi amministrativi.

  9. bob

    Siamo il Paese dove tra indiretti e diretti ( Stato Regioni, Provincie, Comuni, Comunità montane, Enti, Magistrati delle acque etc) circa 3 milioni di persone vivono di politica. Ma la cosa più terrificante a livello di cultura è che ci sono interi nuclei familiari che per generazioni vivono di politica. In pratica gente che non conosce merito, curriculum, problematiche dei mercati etc. Vivono perchè per loro mentalità tutto gli è dovuto, tutto è assicurato e garantito o piove o fa caldo! Lavori inutili che Giovanni Sartori addirittura li considera nella percentuale dei disoccupati. Le provincie non verranno eliminate per decisione politica ma verranno spazzate via dal futuro globale. In parole povere cuoceremo nel ns. brodo come polli. Popolo di furbi ma non di intelligenti come qualcuno disse!

  10. Francesco

    Dunque, lo studio è da apprezzare ma io scrivo da quello che diventerà l’ex capoluogo di una ex Provincia, non nuova ma costituita 151 anni fa.Qui si ha ragione di temere un grave declino, almeno dalle persone più attente e avvertite mentre la massa pensa che si tratti solo di una lotta di politicanti per mantenere il seggiolino. In realtà la riforma in questione non ha direttamente alcun effetto di risparmio per le casse dello Stato poichè i dipendenti delle ex province devono essere pagati comunque e le loro funzioni dovranno essere svolte da qualche Ente e non gratuitamente.Il risparmio quindi è solo l’emolumento di Presidente e Assessori e i gettoni dei Consiglieri.Quattro soldi veramente. Il risparmio vero sta nell’accorpamento di tutti gli Uffici periferici dello Stato organizzati su base provinciale, Prefettura, Questura, VV.FF, Comandi Provinciali di qualsiasi corpo, l’elenco è sterminato e si tratta di sedi decisionali cruciali, di servizi preziosi e frequentatissimi che spariranno e nel nostro caso saranno trasferiti in blocco a 60 km di distanza. In realtà i comuni più distanti si troveranno a 140 km dalla Questura competente per territorio.

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