I laureati italiani continuano a rimanere pochi, con alti tassi di abbandono e lunghi ritardi nel completamento dell’università. Recenti studi mostrano che il successo accademico non dipende solo dalle capacità cognitive, ma anche da altre abilità. E le università dovrebbero tenerne conto.
LAUREATI: POCHI E IN RITARDO
L’Italia rimane agli ultimi posti tra i paesi avanzati in termini di percentuale di persone laureate. Il ritardo sembra per lo più dovuto alla dispersione universitaria, cioè a elevati tassi di abbandono, inattività e lunghi ritardi nel completamento del percorso di studi. Per fare un esempio, secondo l’indagine Ocse Education at a Glance del 2010, tra i laureati del 2007 (laurea specialistica o a ciclo unico) appena l’11 per cento ha ottenuto la laurea entro i 24 anni; il 40 per cento si laurea tra i 25 e i 26 anni; il 29 per cento tra i 27 e i 29 anni e ben il 20 per cento a 30 anni o oltre. Soltanto il 32,8 per cento degli studenti che si iscrivono all’università porta a compimento il percorso di studio.
Le cause di questi fenomeni non sono molto chiare, parte delle difficoltà incontrate dagli studenti italiani durante gli studi universitari sono probabilmente dovute a una debole preparazione iniziale (il rendimento degli studenti delle scuole italiane appare piuttosto scadente nei confronti internazionali). Altre cause potrebbero però essere interne all’organizzazione del sistema universitario italiano contraddistinto da una forte carenza di servizi di orientamento all’ingresso (che conducono a scelte sbagliate) e dalla totale assenza di politiche di sostegno durante il percorso di studio.
L’IMPAZIENZA FA MALE ALLO STUDIO
Recenti evidenze mostrano che il successo accademico dipende non solo dalle capacità cognitive degli individui, ma anche dalle loro abilità non cognitive, quali la motivazione, la pazienza, la determinazione, eccetera. Tali abilità possono essere particolarmente importanti quando gli individui sono impegnati in attività come lo studio che generano costi e benefici che si manifestano in momenti temporali diversi: studiare richiede un impegno che comporta costi immediati, mentre i benefici attesi in termini di maggiori remunerazioni e migliori prospettive occupazionali saranno percepibili solo negli anni a venire.
Alcuni studi mostrano che gli individui più impazienti tendono a investire meno in istruzione e a ottenere peggiori risultati in termini di performance scolastica e accademica. Ad esempio, Maria De Paola e Francesca Gioia, considerando una coorte di studenti iscritti a una università italiana per i quali si dispone di una misura di preferenze intertemporali (quanto gli individui valutano l’utilità presente rispetto a quella futura), mostrano che gli studenti più “impazienti” ottengono un numero minore di crediti, hanno una minore probabilità di laurearsi in tempo e presentano un voto medio più basso agli esami. Inoltre, gli individui più impazienti hanno una maggiore probabilità di abbandonare gli studi. Questa relazione è confermata anche per gli studenti che al momento dell’immatricolazione dichiaravano di aspettarsi di concludere gli studi in tempo.
L’ABITUDINE A RIMANDARE GLI IMPEGNI
In aggiunta al problema dell’impazienza, molti individui mostrano un problema di “self-control”, cioè una tendenza alla procrastinazione e una incapacità a rispettare gli impegni temporali, probabilmente a causa di una percezione di costi e benefici immediati come molto più rilevanti rispetto a quelli futuri. Così gli studenti sono indotti a procrastinare l’impegno nello studio e ad allungare in maniera irrazionale la durata del percorso di studio.
In uno studio di Maria De Paola e Vincenzo Scoppa si cerca di mostrare le conseguenze che la procrastinazione produce sui risultati conseguiti dagli studenti. Come misura di procrastinazione si considera il comportamento degli studenti al momento in cui devono completare l’iscrizione all’università. Nell’università considerata, gli studenti fanno domanda di pre-immatricolazione per un corso di laurea e l’università, dopo aver valutato le domande, comunica on-line gli studenti ammessi a ciascun corso. A partire dalla pubblicazione degli esiti, gli studenti hanno sette giorni di tempo per completare la domanda di iscrizione (che richiede tra l’altro il pagamento di una rata di 380 euro delle tasse universitarie). Come misura di procrastinazione si considera il numero di giorni impiegati dagli studenti per completare l’iscrizione. Questo comportamento può infatti rispecchiare la tendenza ad adempiere un compito prontamente oppure a ritardarlo.
A parità di una serie di caratteristiche individuali (genere, voto di diploma, tipo di scuola frequentata, età, punteggio al test di ingresso, istruzione dei genitori, reddito familiare, comune di residenza, eccetera) si evidenzia una forte correlazione negativa tra la misura di procrastinazione e la performance accademica degli studenti, misurata con il numero di crediti conseguiti nel corso dei due anni successivi all’immatricolazione. Gli effetti sono piuttosto rilevanti: gli studenti che aspettano gli ultimi giorni per completare l’immatricolazione conseguono circa 12 crediti in meno rispetto a chi completa la procedura nei primi giorni utili.
Questi risultati sono confermati quando si tiene conto del grado di motivazione degli studenti (misurata attraverso le risposte date a un questionario) e quando si considerano solo gli studenti che non avevano intenzione di iscriversi presso altre università (cioè coloro che hanno dichiarato di non aver avuto alcun dubbio circa l’opportunità di iscriversi presso l’università in questione).
I nostri studi confermano i risultati ottenuti da altri ricercatori e suggeriscono che l’impazienza e la tendenza a rimandare al futuro gli impegni immediati può influenzare in modo molto negativo la carriera degli studenti.
Le università dovrebbero cercare di strutturare il processo di apprendimento in modo da tener conto delle difficoltà che spesso gli individui incontrano nel mettere in atto strategie ottimali. Ad esempio, molte università americane, consapevoli delle conseguenze derivanti dalla procrastinazione, suggeriscono nei loro siti internet tecniche per gestire questo aspetto caratteriale. Nelle stesse università gli studenti sono indotti a frequentare i corsi, a svolgere compiti settimanali e a preparare esami intermedi.
Il sistema universitario italiano, nella maggior parte dei casi, lascia invece gli studenti liberi di pianificare la propria attività di studio. Gli studenti sono liberi di scegliere se e quando frequentare le lezioni, se sostenere l’esame alla fine del corso o rimandarlo alle diverse sessioni successive. Questo tipo di organizzazione può essere efficace per studenti molto determinati, ma per molti altri potrebbe essere importante avere scadenze vincolanti e costi immediatamente percepibili in caso di mancato rispetto delle stesse.
Riferimenti bibliografici
De Paola, Maria e Scoppa, Vincenzo, 2014. “Procrastination, Academic Success and the Effectiveness of a Remedial Program”, IZA Discussion Papers 8021, Institute for the Study of Labor (IZA).
De Paola, Maria e Francesca Gioia, 2013. “Impatience And Academic Performance. Less Effort And Less Ambitious Goals”, Working Papers 201302, Università della Calabria, Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza (ex Dipartimento di Economia e Statistica).
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alberto
Avendo studiato ed insegnato in cinque paesi europei diversi posso dire:
primo, che il fatto che gli studenti italiani escano dalle scuole superiori meno preparati e’ un mito, ho avuto studenti del primo anno in una prestigiosa universita’ inglese che non conoscevano il significato della parola ‘ironia’;
secondo, che nelle universita’ straniere gli esami sono meno, e generalmente molto molto piu’ semplici di quanto sia in Italia, ho avuto come insegnanti in Italia alcuni dei contributor, presenti e passati, della Voce e i loro esami, in prestigiose universita’ estere, non li passerrebbe nessuno – questo non vuole pero’ dire che gli studenti esteri siano meno preparati, anzi, esami piu’ semplici e pratici spesso permettono un migliore apprendimento;
terzo, esistono piu’ borse di studio e possibilita’ di lavoretti per sostenersi finanziariamente
quarto, quanto sopra, e altre differenze sociali, fanno si che gli studenti all’estero si divertano molto ma molto di piu’ (a volte con conseguenze negative tipo l’altissimo consumo di alcool), sempre in generale, degli studenti italiani, e quella pacchia e molto piu’ difficile da abbandonare
Enrico
Bell’articolo.
Spero che nelle statistiche non siano contate le seconde lauree (ad esempio io sto conseguendo una seconda laurea ed ovviamente sto impiegando enormemente piu tempo degli studenti a tempo pieno).
Davide
Sono uno di quelli che si sono laureati oltre un decennio fa a 27 anni appena compiuti con il massimo dei voti, in una materia scientifica dove l’80% delle matricole del mio anno non è arrivato alla laurea.
A quel tempo l’ossessivo focus sugli aspetti teorici, la distanza degli esami e la mole di lavoro richiedevano un impegno fortissimo, per quanto mi rigaurda ben poco in linea con l’idea che mi ero fatto di una materia di cui ero appassionato e che ho poi del tutto abbandonato, in un ambiente chiaramente dominato da docenti per la maggior parte molto anziani, con ben poca informazione sulle possibili ricadute occupazionali.
Credo il mondo tedesco ed anglosassone siano molto più pragmatici nella preparazione, sacrificando la libertà individuale ad avere qualsiasi scelta sull’altare della prospettiva di fare qualcosa di utile per se e per la società.
Inoltre vale a mio parere il fatto che in Italia non c’è la vera necessità di avere tutti questi laureati dato non ci sono le grandi aziende veramente innovative dove impiegarli.
Già a quel tempo si parlava di semplificare, riorganizzare, velocizzare. Evidentemente come sempre l’esecuzione di un bel piano è la parte più difficile nel lavoro di un manager.
Roberto
Sono uno studente di 26 anni di Economia, prossimo alla conclusione del percorso di laurea magistrale. Credo vadano citati ulteriori elementi (in ordine sparso):
– in molti paesi gli studi superiori terminano un anno in anticipo
– spesso all’estero ci si ferma al bachelor of arts dove invece in Italia risulta quasi obbligatorio continuare il percorso di specializzazione
– per esperienza personale, sia nel triennio e sia in specialistica, si da ancora forte risalto alla teoria e non alla pratica
– ho avuto la fortuna di perfezionare la mia formazione in un prestigioso ateneo asiatico e ho riscontrato un livello di difficoltà inferiore
– credo che la formula tipica del “mega esame” a fine semestre sia superata, dove invece deliverables settimanali aiutino a mantenere impegno e determinazione (e CREDO rispecchino maggiormente le dinamiche di pressione lavorativa)
– vedo tra i miei coetanei tanta rassegnazione ma soprattutto poca consapevolezza di cosa si voglia fare e per cosa si sia maggiormente portati (indipendentemente dalla possibilità di raggiungere tali risultati)
– spesso all’estero si é obbligati e finire tutti gli esami di un anno accademico per accedere a quello successivo e ciò sprona a non perdere tempo
– all’estero il numero di appelli d’esame é inferiore se non unico ergo bisogna superarli a colpo sicuro e non andare per tentativi (di nuovo, gli esami sono più semplici)
– i ritardi sono riconducibili alle università quanto agli studenti
Buon lavoro
marcello
Procastinare il pagamento di una bolletta o una tassa all’ultimo giorno su un orizzonte temporale di una settimana o quindici giorni è diverso tra rimandare la laurea di due anni o più. La forma della funzione di utilità intertemporale può attrbuire pesi diversi a stessi intervalli in tempi diversi, oppure no. Inoltre un conto è sostenere un costo, un conto è valutare un costo opportunità che non sono la stessa cosa. Quindi metodologicamente mi sembra che ci siano assunzioni un po’ troppo forti. Infine forse considerare il tempo in cui un neo laureato ottiene la prima occupazione e il relativo salario forse potrebbe mostrare una correlazione e contribuire a spiegare il fenomeno. .
Lorenzo
Essendomi laureato con un anno e mezzo di ritardo, accumulato durante la triennale, ho notato che la vera spina nel fianco sono stati esami orali mastodontici, i quali sono risultati molto più difficili da superare e molto meno utili dal punto di vista formativo, rispetto ad esami sostenuti nella magistrale, più snelli e che prevedevano relazioni, presentazioni singole o di gruppo, prove scritte o orali (ricordo poco e niente di esami con testi formato enciclopedie nonostante abbia speso settimane su di essi, chino sui libri 10 ore al giorno).
marcello
Nella triennale si seguono corsi istituzionali. A dirla tutta due esami micro e macro sono tutto ciò che uno studente di economia dovrebbe sapere. Quello che Rifkin espone come economia a costo marginale 0, e che sembra avere tanto appeal, altro non è che l’economia dei monopoli naturali, bene noti e da tempo studiati in economia e che pongono non pochi problemi per la definizone del prezzo, tant’è che sono in genere amministrati. Forse non li ricorderà, ma sicuramente le hanno consentito di svolgere agevolmente gli esami della magistrale. Non capisco perchè se una vuole imparare a nuotare,anche nel caso di metodo sintetico, accetta di passare ore e ore a fare vasche a dorso, stile veramente difficile e noiso,, ma quando si parla di apprendimento terziario qualcuno pensa sempre che esistano delle scorciatoie. Negli altri paesi i corsi sono più brevi e soprattutto, in genere, gli esami si possono fare una volta, due talvolta, qui ogni 15 giorni a ogni appello. Forse la ricetta è sempre la stessa studiare e circa il tasso di preferenza intertemporale consiglio la lettura di un libro miliare.
Lorenzo
Il suo ragionamento sarebbe del tutto condivisibile a fronte di piani di studio con esami esclusivamente istituzionali, sappiamo però che negli ultimi anni così non è stato e varie modificazioni normative hanno aperto la strada a tendenze non proprio ottimali, per esempio nel corso della laurea triennale ho sostenuto molti esami non “istituzionali” (moltiplicazione di esami per moltiplicare le cattedre, ex d.m.509) e quindi tendenzialmente non poco di quello che ho studiato nella triennale non mi è servito nella magistrale (d.m. 270).
IG
Io di università ne ho frequentate e finite due, una nel vecchio e una nel nuovo ordinamento. Secondo me non sono gli studenti ad essere scarsi, ma i professori. In entrambe, non ho mai visto la preoccupazione dei professori a che l’alunno non capisca o rimanga indietro; non ho percepito una vera meritocrazia nei voti (esami personali nello studio dell’assistente; voti proporzionali al tacco delle scarpe da donna; preferenza per figli-nipoti-conoscenti nelle scelte dei corsi/seminari; generale tendenza a che il clima sia avverso anziché “caldo”). Io penso che un sistema di gradimento degli studenti riferito ai metodi dei professori, legato alla mobilità delle cattedre (anche in uscita) farebbe di molto cambiare la questione. In fondo, io pago, e salato, l’importo della rata e non mi va che quattro baroni facciano il bello e il cattivo tempo in un ambiete ovattato, ben pagato e a loro esclusivo uso e consumo.
Domenico
Si dice che i laureati siano pochi, ma personalmente da laureato a 25 anni e tre mesi in una magistrale in economia con il massimo dei voti, a parte la lode, devo dire che non posso essere d’accordo. Dopo aver inviato diversi CV nei primi mesi dalla laurea la migliore offerta ricevuta è stata per uno stage, nel nord italia, a 300 euro mensili per sei mesi, ulteriormente prorogabile a 500 € per altri sei… Per otto o dieci ore di lavoro in una importante azienda… Non essendo figlio di genitori ricchi non potevo permettermi di pesare così tanto sulla mia famiglia per un periodo di tempo così lungo senza alcuna prospettiva medio tempore. La realtà è che le imprese italiane, anche grandi, vorrebbero laureati a 24 anni con il massimo dei voti già con esperienza pagandoli come un raccoglitore di pomodori africano (anzi, a conti fatti, venti euro al giorno, per cinque giorni alla settimana, a nero, sono 400 €, quindi meno di un raccoglitore di pomodori) senza nulla voler togliere loro (sono figlio di contadini e ben so quanta dignità c’è nel lavoro manuale). Forse il problema è che i giovani dovrebbero essere incentivati a laurearsi, dando loro modo di avere fitti calmierati se vanno a lavorare fuori casa, avere stipendi iniziali decenti, che quantomeno diano loro modo di mantenersi pur senza avere famiglie forti alle spalle. A tre anni dalla laurea posso dire che laurearsi è stato deleterio. Ancora oggi, con una libera professione e tirocinio professionale guadagno 450€ netti…
Domenico
… a 28 anni, stando a casa poiché non ci si può permettere di andare fuori. Ovviamente senza la possibilità di farsi una famiglia e dei figli poiché la fidanzata, ormai storica, è nella stessa identica situazione. Il risultato sarà che a brevissimo andrò a casa di amici all’estero a cercare lavoro e forse trovarlo dopo essermi pagato, con i miei lauti guadagni, un corso di inglese riconosciuto all’estero e un master (spero) professionalizzante. Che le imprese imparino che per avere il meglio bisogna investire. Si ragioni come i Business Angel americani. Si investa relativamente poco su 100 aziende, forse 75 moriranno, ma le altre 25 molto probabilmente avranno ottime performance e faranno rientrare con ottimi profitti l’intero investimento sulle 100 iniziali. Per questo l’Italia morirà, lentamente, ma morirà. Almeno qui nel Sud Italia vedo un futuro fosco in cui rimarranno solo anziani con una pensione minima e badanti. Peccato davvero aver letteralmente bruciato un’intera generazione che tanto ha cercato di investire per regalarla ad altri che si godranno i costi sostenuti dall’Italia e dagli Italiani!
Lorenzo
Come fanno i laureati italiani ad essere “pochi” se i posti di lavoro non si trovano? C’é qualcosa che non mi torna…
Andy Mc TREDO
Mi permetto di dissentire: i laureati italiani sono pochi in rapporto agli iscritti al primo anno ma TROPPI in rapporto alle relative occasioni di impiego. Mi spiego: un ragazzo se non è proprioprio povero in canna non sapendo cosa fare si iscrive, poi si vede, intanto ci si parcheggia da qualche parte, si va in una grande città, si porcheggia un po’, si fa finta di studiare, si studia davvero (ma in modo sbagliatissimo), si incontrano persone e personaggi: tutto sommato una bella bella vacanza che è meglio far durare… Una volta arrivati al fatidico pezzo di carta (che sovente viene materialmente consegnato con anni di ritardo…) il giovane (con i capelli bianchi, quando li ha ancora) verrà sottopagato (e sarebbe il meno) e sottoutilizzato (in maniera decisamente tafazziana abbiamo dottori in economia e commercio alla cassa di un ufficio postale o di una banca, laureati in lettere e filosofia in un call center, in agraria a potare i kiwi o a raccogliere le olive, ingegneri a stringere i bulloni delle panda, architetti a pitturare i vasi di ceramica, ecc ecc.). Poi ci si lamenta che molti cerchino e trovino “fortuna” in USA, GB, Germania e perfino CINA (solo per citare persone che conosco!).
rob
Facciamo una semplice equazione! In Italia in interi comparti economici non ci sono più Italiani; edilizia, agricoltura, ristorazione, servizi sociali. Abbiamo il più basso numero di laureati e di diplomati. Abbiamo territori in cui l’analfabetismo (leggere e scrivere) tocca % del 10-15% della popolazione ( attenzione oggi analfabeta è colui che non sa usare un computer, non riesce a tradurre il senso di un articolo di giornale etc). Da questi dati non salta all’occhio che questo Paese ha imboccato da 35 anni a questa parte una strada fatta di follie? Non vi sembra che ci siano troppe tante braccia tolte alla terra e posteggiate nella burocrazia accresciuta con la ” bufala federalista” e nei tanti inutili livelli di potere?
Michele
A me pare centrale il tema dei programmi.
Ho avuto la fortuna di studiare per un MSc nel Regno Unito insieme alla magistrale italiana in ingegneria meccanica. Ho trovato docenti che non solo valorizzano costantemente gli studenti/clienti, ma che hanno ben chiara la loro priorità: fornire competenze centrate sulla professione e sul saper fare, più che sul sapere fine a sé stesso. Non ha pregio l’obiezione per cui il sapere teorico approfondito ad ogni costo rende più elastici o creativi di fronte a scenari nuovi; tanto meno per una magistrale di tipo scientifico, e potrei citare numerosissimi esempi a supporto. Per la mia tesi, ho fatto ricerca su uno specifico problema industriale per una multinazionale i cui ingegneri progettisti mai si sono sognati di chiedermi dettagli astrusi di teoremi secondari.
Tutto ciò è stato deleterio per i tempi degli ultimi esami in Italia (un anno in più). Non vale come giustificazione, ma ogni volta che scorro qualche appunto il pensiero va allo spreco di tempo per la memorizzazione (a breve termine) di nozioni totalmente inutili.
La mia soluzione sarebbe una parziale limitazione alla autonomia didattica dei docenti, unicamente dediti alla infinita ripetizione dei loro programmi stantii. L’università dovrebbe stabilire cosa è utile e cosa no e imporre criterî conseguenti, magari con l’aiuto dei destinatari diretti della formazione (aziende e centri di ricerca).
È superfluo dire che fuggirò a gambe levate dall’Italia appena possibile.
jacopo
Da studente di economia aziendale che sta per laurearsi dopo 1 e mezzo di ritardo posso dare alcune spiegazioni: molti di noi sono rimasti indietro per colpa di un debito in matematica che si poteva eliminare solo passando matematica generale con un docente che bocciava i 2/3 della classe a differenza di altri corsi dove c’è un esame di riparazione. Oltre a questo esame, ci siamo trovati altri docenti(vecchie cariatidi che i nostri genitori avevano 40 anni fa all’università) che imponevano scritto e orale chiedendo le cose più inutili di sto mondo (ora qualcuno mi spieghi cosa me ne farò mai della dimostrazione matematica delle rendite o di qualche teorema di matematica), siamo rimasti tutti con gli stessi esami finali per colpa loro.
Emanuele
Vorrei dare la mia opinione da studente 27enne di giurisprudenza fuoricorso bamboccione e sfigato, fate voi. Per quanto il ritardo dipenda in gran parte dall’immaturità del “ritardatario” mi permetto di dire che lo studente è praticamente abbandonato a se stesso, da subito, come è stato in parte rilevato anche nell’articolo; la matricola finisce per prendere decisioni totalmente sbagliate riguardo il piano di studi, la frequenza ai corsi, il metodo di studio. I docenti, che in verità svolgono il lavoro di professore come seconda professione, sono lontanissimi dagli studenti, non di rado assenti e le lezioni spesso non hanno un filo conduttore, una coerenza durante il corso, durante il quale, tra l’altro, non viene MAI spiegato tutto il programma. Succede quindi che si studia la maggior parte degli esami da autodidatta, con tutti i limiti che questo modus operandi comporta. Ciò che trapela è che non c’è una reale intenzione di formare gli studenti, semplicemente si va avanti per inerzia purché l’esamificio sforni libretti pieni e pezzi di carta con titolo legale.
Ripeto, la maggior parte della colpa è dei ragazzi e della loro immaturità; con determinazione e costanza ci si può laureare tranquillamente in tempo e con buoni voti, senza essere necessariamente dei geni. Tuttavia penso che una revisione della didattica abbasserebbe quell’89% di fuoricorso.
gregor
Ottimo articolo, io le racconto una storia diversa. Ho 27 anni e sono iscritto al primo anno, non sono un bamboccione cronico, ma semplicemente ho fatto scelte diverse. Ho iniziato a lavorare e lavoro tutt’ora, poi mi sono iscritto all’università di Bologna. Le dico che faccio tanta fatica non potendo frequentare e non potendo nemmeno usufruire di appunti o schede del professore. Morale? Studio da autodidatta, pago 1000 euro l’anno e chissà quando vedrò a complimento il mio percorso. Sono discriminato nonostante paghi come qualsiasi studente. Tutto questo perché la nostra università penalizza chi fa scelte diverse dall’ordinario. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito alla mia storia.
Fabrice
per chi ha capacità e soldi, mooolto meglio prendersi una laurea davvero utile all’estero in quei paesi dove chi lo fa, poi ha concrete possibilità di fare una carriera nel settore di studio intrapreso!!
E comuque poi c’è da fare un discorso sul fenomeno “Hourglass Economy” che nei paesi occidentali sta diventando sempre più strutturale con tutte le conseguenze del caso!!
Fabrice
in Italia solo per il 21% dei lavori serve un’istruzione universitaria. In Finlandia si sfiora il 50%!!
Anatea
Tanto in quest’italia ed in parte dell’europa laurearsi oggi non serve a niente. Nessuno chiede la laurea come requisito. Tutti quei giorni passati in casa a studiare oppure a seguire tutte le lezioni (ed il tempo passava … ) e tu studiavi e non ci guadagnavi niente. Trovi un lavoro se ti va bene a 400/500/600 al massimo 950/1000€ (netti) se invece fai l’operaio o l’operaia magari stagionale ti va di gran lunga meglio!!! e lo dico perchè l’ho provato. Quindi probabilmente è il periodo storico che è così. Non mangiatevi i vostri anni migliori trovatevi un lavoro mettete su una famiglia e VIVETE!
roberto de falco
se magari si togliessero i test d’ingresso forse la situazione migliorerebbe
Al
Io personalmente ho completato la domanda di iscrizione il prima possibile e ho passato l’Estate a studiare per il test di ingresso non vincolante settembrino (se non per il fatto che se non l’avessi superato sarei stato costretto a superare un determinato esame prima di dare gli altri, ma in ogni caso l’ho superato quindi il problema non si è posto…). Tuttavia ho incontrato gravi ostacoli nell’ultimo esame di Matematica e nell’ultimo esame di Fisica al punto che ora dovrei laurearmi ma invece mi mancano 10 esami, 2 dei quali i suddetti e 1 basato sugli argomenti dei suddetti e al posto di essere in sessione di esami mi ritrovo, dopo gli ennesimi tentativi a vuoto, in vacanza, per problemi di propedeuticità… e non tirerei in ballo nemmeno basi deboli quanto un’errata impostazione (eccessivamente mnemonica) delle suddette materie subita (intendo proprio come metodo di lezione e lavoro assegnato per casa…) durante il Liceo.
Enzo
Probabilmente anche il carico di studio influisce sull a possibilità di restare al passo con i tempi imposti. Invece nel momento in cui si rimane indietro il ritardo comporta ulteriore ritardo.
Elena D.
Sono circondata da persone che continuano a dirmi di finire gli studi universitari. “Tanto lavoro non c’è!! tanto vale che ti prendi la laurea” ma non riescono a capire che la vita non è così facile. Che quando hai appena compiuto 25 e ti manca ancora un anno per finire una triennale a causa della moltitudine di problemi famigliari e psicologici che hai dovuto affrontare, ti senti vecchia ed inadatta dentro una società che corre veloce come un treno e continua sempre e solo a pretendere. Senza contare poi che studiare non è “perdere tempo” ma una ansia assurda, una corsa contro il tempo per non sentirti inferiore a nessuno e quando vedi che devi studiare 600 pagine per un esame di 4 cfu, ti viene poco da ridere e pensare all’università come un “opportunità”. A me oggi la vita sembra solo una prigione. Penso che prenderò ormai questo foglio di carta e poi andrò all’estero, sperando di trovare fortuna.
Al
Rispondo al commento di Elena D. con una frase che negli ultimi anni è sempre più diventata la mia sorta di leit-motiv tra mille difficoltà (la maggior parte delle quali immotivate) che sinceramente non so più come affrontare, tant’è che praticamente ogni giorno mi passa per la mente per almeno una volta: “e che ce possiamo fa’?”. Molto, troppo, nella vita non dipende da noi e riconoscerlo significa essere adulti.
Francesco Pellegrini
E’ veramente un mondo senza speranza.
Adesso abbiamo anche la correlazione tra i giorni impiegati a presentare l’iscrizione e il livello di fannullonaggine dei ragazzi.
A nessuno viene in mente che se i risultati dei ragazzi sono scarsi magari la responsabilità è anche dell’offerta formativa scadente e del livello, sia intellettuale che, sempre più spesso, umano (talvolta abissalmente inadeguato) dei docenti?
E che dire della agghiacciante assenza di prospettive di qualsiasi tipo riguardo alla possibilità non dico di un brillante futuro, ma di un semplice sbocco lavorativo che consenta di vivere dignitosamente?
Vogliamo davvero un mondo dove solo chi “merita” può vivere? E gli altri? In riva al fiume a morire d’inedia?
E chi “merita” un pochino di meno?
Questo inneggiare alle virtù di chi arriva primo è un cancro che è stato instillato nelle menti dei nostri giovani per fare in modo che, sognando un futuro da “talento scoperto e valorizzato” (vedi il successo planetario del format televisivo dei talent.-show) si rassegnino in realtà ad essere delle colpevoli nullità ed ad accettare perciò il futuro da schiavi che viene offerto loro.
Fino a che un giorno salterà il tappo di questo schifo, e chi prende lo stipendio facendo la statistica di chi è corso prima a presentare domanda d’iscrizione si troverà a prendere randellate sia dalla mano che gli aveva commissionato tale perversa cattiveria che dalle mani di quelli che hanno consegnato domanda l’ultimo giorno.
Al
Emblematico secondo me è il fatto che l’insegnante di una materia scientifica di base fondamentale, ai miei commenti sul fatto che praticamente da studenti in corso col 3+2 si dovesse studiare per tre mesi e poi dare subito l’esame e chiudere la materia in oggetto nel cassetto, abbia risposto “Ti capisco, ma purtroppo è così”. Sono al primo anno fuoricorso, non ho un lavoro, mi mancano otto esami, capisco che sono diventato un peso per le casse dell’Università e dello Stato… ma purtroppo è così.