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Giustizia civile: il primo passo non basta

Il  decreto sulla giustizia civile va nella direzione giusta. Ma non è sufficientemente incisivo per favorire  forme alternative di risoluzione delle controversie. Che invece potrebbero ridurre l’arretrato e moderare l’impatto dei nuovi casi sul lavoro dei giudici.

RAGGIUNTO UN OBIETTIVO MINIMALE
Negli Stati Uniti, soltanto il 3 per cento delle cause civili iscritte nei tribunali pubblici finiscono con un processo deciso da un giudice togato. Il resto viene risolto in altri modi, tra i quali la mediazione, che riguarda quasi il 50 per cento dei casi.
Se in Italia potessimo raggiungere percentuali come queste (97 per cento dei casi esauriti senza processo), almeno due grandi problemi della giustizia civile sarebbero di fatto risolti: l’enorme arretrato accumulato e l’incessante nuova domanda di giustizia, che ogni giorno si aggiunge a quell’arretrato.
Per questo pensiamo che il Governo vada nella direzione giusta quando introduce misure finalizzate a diffondere il ricorso a forme alternative di risoluzione delle controversie, sia per quel che riguarda l’arretrato sia per quel che riguarda i nuovi casi iscritti a ruolo. Non siamo, però, sicuri che le misure previste dal recente decreto sulla giustizia civile siano sufficienti a cambiare davvero le cose.
A scanso di equivoci, è bene chiarire che auspicare il ricorso a forme alternative di risoluzione delle controversie non significa abdicare al ruolo dello Stato. In altri ordinamenti, come ci dice il caso americano, è fisiologico che l’amministrazione della giustizia non sia un monopolio statale, almeno in tutte quelle situazioni in cui il servizio richiesto dalla collettività è offerto meglio da altri soggetti o istituti.
Semmai, ciò che lascia perplessi in Italia è perché la domanda di giustizia che bussa alle porte della magistratura togata sia così abbondante. Se per una controversia civile le parti in causa sanno di dover attendere molti anni e sostenere spese legali considerevoli prima di poter leggere una sentenza definitiva, perché non si rivolgono ad altri per risolverla in tempi più rapidi? Forse perché gli italiani, per mancanza di informazioni adeguate, ritengono che solo lo Stato possa garantire l’imparzialità del giudizio e soprattutto l’eseguibilità delle sentenze. Oppure perché si attendono che utilizzando le soluzioni alternative per le loro controversie, gli eventuali risparmi di tempo non siano sufficienti a compensare i costi maggiori (per retribuire mediatori e arbitri).
Con il recente decreto, il Governo non affronta in modo aperto il problema dei costi e sembra volersi limitare all’obiettivo minimale di informare gli italiani dell’esistenza di alternative rispetto al normale processo di fronte a un giudice. Le novità del decreto, in questo ambito, si riducono infatti sostanzialmente alla “tipizzazione” di modi diversi per risolvere le controversie, pur disciplinati dallo Stato e per i quali lo Stato garantisce l’eseguibilità delle decisioni. Non vengono introdotti stimoli o incentivi e quindi questa semplice offerta difficilmente potrà avvicinarci alle percentuali Usa di risoluzione alternativa delle controversie.
LA MEDIAZIONE
La mediazione è una procedura in cui un terzo neutrale assiste le parti nella ricerca di una soluzione al conflitto e che può portare alla conciliazione prima del processo. La mediazione di solito richiede un mediatore, che può essere il giudice stesso o una parte terza. Il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 istituì la mediazione obbligatoria, ma fu dichiarato incostituzionale nel 2012 dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega legislativa. La mediazione civile obbligatoria è stata re-istituita con decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, detto “decreto del fare”, modificato e convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98, con la previsione, tra l’altro, dell’assistenza obbligatoria dell’avvocato nonché della qualificazione degli avvocati come “mediatori di diritto”. Il recente decreto infine ha introdotto una ulteriore “procedura di negoziazione assistita da un avvocato”, mediante la quale le parti possono comporre la lite amichevolmente, stipulando una convenzione con l’assistenza dei propri difensori. Il coinvolgimento degli avvocati appare una misura ragionevole e politica allo stesso tempo. Purtroppo, però, non vediamo che cosa la nuova procedura di negoziazione assistita aggiunga di sostanziale alle possibilità di mediazione già esistenti e quindi facciamo fatica a ipotizzare che possa avere grandi effetti.
Peccato, perché una recente indagine campionaria indica che la mediazione, nel periodo in cui in Italia è stata obbligatoria, ha risolto una percentuale considerevole di cause (42 per cento), anche se solo nei casi in cui ambo le parti si sono presentate alla mediazione, cosa che è avvenuta solo nel 32 per cento dei casi in cui la procedura è stata iniziata. La percentuale di cause risolte dunque è stata 42 per cento*32 per cento=12 per cento, non enorme, ma molto significativa se pensiamo che questa cifra si riferisce ai flussi, e non agli stock, dei processi. Quindi, la mediazione può essere una freccia molto acuminata nella faretra del legislatore che si occupa dell’efficienza della giustizia civile e il Governo Renzi avrebbe potuto fare di più per incentivarne l’utilizzo.
L’ARBITRATO
L’arbitrato è diverso dalla mediazione perché le parti devono impegnarsi ex ante ad attenersi alla decisione di un arbitro. Di fatto, l’arbitrato è un “processo privato” e spesso si fonda su una clausola contrattuale che prevede esplicitamente questa forma di soluzione delle liti in alternativa al processo davanti a un giudice togato. Anche quando la clausola è assente, talvolta le parti si accordano comunque sul sottoporsi a un arbitro per evitare le lungaggini del processo. E il lodo (decisione dell’arbitro) ha lo stesso effetto vincolante della sentenza di un giudice. Perché allora non è utilizzato maggiormente?
Perché è “rischioso” per chi vi si sottopone, giacché i suoi effetti sono vincolanti. È dunque importante che le parti si fidino dell’arbitro. Per questo di solito non vi è un solo arbitro, ma un collegio arbitrale, e la composizione del collegio è spesso scelta con sistemi complessi.
Il problema della fiducia nell’arbitro limita l’uso di questo istituto. Inoltre c’è un problema di costo (gli arbitri bisogna pagarli, il giudice no). Per queste ragioni l’arbitrato è usato relativamente poco e, di solito, da società piuttosto che da privati.
La recente riforma vuole incoraggiare l’uso degli arbitri, ma solo per ridurre l’arretrato. Come? Tipizzando la procedura di formazione del collegio arbitrale. Ossia, la riforma offre un “sistema standard” per cui il consiglio dell’ordine degli avvocati nomina il collegio arbitrale quando le parti di un processo in corso lo richiedano (con alcune restrizioni sui casi in cui questa richiesta sia ammissibile). Si noti che questa non è una norma inderogabile — la procedura può prendere corpo anche in modi diversi. La speranza è che “tipizzarla” formalmente possa incoraggiare le parti al suo utilizzo. A nostro parere, la tipizzazione non avrà grandi effetti, perché non incide sugli ostacoli fondamentali – fiducia e costo. Piuttosto, appare come un ramoscello d’ulivo verso la categoria degli avvocati.
LA DISCIPLINA SUL DIVORZIO
La recente riforma, inoltre, cambia la disciplina in materia di separazione e di divorzio. Adesso i casi più “semplici” (senza figli minori o incapaci o maggiorenni non autosufficienti e senza trasferimenti patrimoniali) possono essere risolti o disciplinati consensualmente, cioè sciogliendo il contratto di matrimonio senza dovere ricorrere al giudice. È una norma importante per chi divorzia (perché accorcia la procedura di molti mesi) e forse anche per il sistema giustizia che potrebbe essere alleggerito di una quantità importante di cause. I divorzi nel 2011 erano 54mila di cui quasi il 70 per cento consensuali, secondo i dati Istat. Tuttavia, tra questi, solo quelli più semplici saranno interessati dalle nuove procedure previste dal decreto, tanto che, secondo alcuni giudici, il risparmio di lavoro che ne conseguirà sarà di fatto limitato.
In conclusione, se vedremo qualche effetto di riduzione della domanda di giustizia che ingolfa gli uffici, dovremo semmai ringraziare altre due importanti misure del decreto: il più frequente carico delle spese processuali sulla parte soccombente e l’aumento del tasso di interesse sui debiti delle parti durante le pendenze della lite.

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  1. Marco Meneghello

    Non credo che il problema sia causato da chi, a ragione, chiede giustizia, ma piuttosto da chi, essendo in torto, resiste. Negli altri paesi chi è in torto non ha convenienza a resistere in giudizio, perché gli verrebbe costare di più. In Italia accade il contrario. Chi è in torto ha tutta la convenienza a resistere ad oltranza, perché comunque alla fine o non paga o paga meno del dovuto. Fino a quando si punterà il dito contro chi, avendo la ragione dalla propria parte, chiede giustizia, non ci sarà mai una soluzione a questo problema. Bisogna punire chi resiste a pur avendo torto. Solo allora le procedure obbligatorie di ADR avranno un senso.

    • ANDY Mc TREDO

      Perfettamente d’accordo. Inoltre, data la ormai elevata scolarità (almeno teorica) degli italiani, eviterei l’obbligatorietà dell’assistenza forense…

  2. Darjo

    Bisogna assolutamente togliere l’obbligatorietà dell’assistenza dell’avvocato. Questa è la prima riforma da fare!

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