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Art. 18 nuovo e “armonizzato” per i dipendenti pubblici

Difficile sostenere che la riforma dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act non si applichi al lavoro pubblico. Vero però che serve un’armonizzazione, per evitare storture applicative. Ricollocazione del dipendente licenziato e pagamento degli eventuali indennizzi sono le questioni più spinose.
RIFORMA DELL’ARTICOLO 18 E LAVORO PUBBLICO
Emanato lo schema di decreto sul “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, torna il tormentone sull’applicabilità dell’articolo 18 al lavoro pubblico, già manifestatosi all’epoca della riforma Fornero. Nei giorni scorsi, si è assistito nuovamente all’insorgere di opinioni divergenti. Pietro Ichino, relatore della riforma, propende per la piena applicabilità del Jobs Act al lavoro pubblico. Il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno sostenuto che la riforma delle tutele contro il licenziamento illegittimo, oggetto del Jobs Act, non investono il lavoro pubblico, visto che l’intera riforma riguarderebbe il solo lavoro privato. Toccherà, dunque, alla prossima riforma della pubblica amministrazione esaminare la questione. Per la verità, gli emendamenti al testo del disegno di legge apportat lo scorso gennaio non hanno contribuito a chiarirla in modo definitivo. Quella espressa dai ministri è una vecchia tesi, molto debole, che non esamina a fondo la questione delle tutele nel caso di licenziamenti e si basa sulle peculiarità del lavoro pubblico, che derivano dall’assunzione tramite concorsi. Tuttavia, non si capisce per quale ragione la modalità di reclutamento seguita dal datore pubblico debba o possa influenzare la tutela apprestata al dipendente illegittimamente licenziato.
Sin dalla riforma Fornero, la risposta alla possibilità di estendere o meno le disposizioni sulle tutele dei licenziamenti nel lavoro pubblico e, in particolare, i contenuti dell’articolo 18, è fornita espressamente dal testo unico che lo disciplina, il decreto legislativo 165/2001. L’articolo 51, comma 2, è inequivocabile: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Non c’è, dunque, nel testo unico sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni una disciplina speciale o derogatoria, rispetto a quella operante nel lavoro privato, per la tutela dai licenziamenti. Senza una norma speciale di deroga, eventualmente da introdurre con la riforma della pubblica amministrazione, l’unico modo per affermare che il Jobs Act non vale per il lavoro pubblico, è ammettere che resti in vigore il testo dell’articolo 18 ante riforma Fornero. Un’oggettiva forzatura. Per altro, il nuovo decreto legislativo, se verrà conservato il testo divulgato, elimina una possibile fonte di equivoci, presente nella legge Fornero: l’indicazione, cioè, che si tratti di una norma di principio per il lavoro pubblico, cui debba conseguire una successiva “armonizzazione”. Il che aveva fatto ritenere ad alcuni che l’armonizzazione fosse condizione preventiva dell’estensione della riforma dell’articolo ai lavoratori pubblici. In effetti, nella primavera del 2012 l’allora ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, stipulò con i sindacati un’intesa per armonizzare la riforma del lavoro con la normativa del pubblico impiego, ma il tutto finì in un binario morto. In ogni caso, si “armonizza” una norma che si applica. Armonizzare non condiziona il “se” applicare, bensì il “come”, verificando in che modo l’applicazione si dipana in un sistema, come quello del lavoro pubblico, caratterizzato da alcune peculiarità. Tra le quali, una minore discrezionalità e flessibilità del datore nel decidere di giungere al licenziamento, rispetto al datore privato.
CHI PAGA GLI INDENNIZZI?
Acclarato (come del resto conferma la giurisprudenza prevalente) che l’articolo 18 modificato, in assenza di una norma speciale di deroga, si applica senz’altro alle amministrazioni pubbliche, occorre verificare se e come possano funzionare realmente i meccanismi di tutela successiva ai licenziamenti. C’è, ad esempio, il problema della responsabilità nel caso in cui l’amministrazione venga condannata dal giudice al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, se si accerta che non ricorrevano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa. La pubblica amministrazione dovrebbe, in questo caso, rivalersi sul dirigente che ha dato corso al licenziamento, per danno erariale?
Potrebbe ritenersi di sì. Ma occorrerebbe comprendere perché nel sistema privato la monetizzazione della risoluzione del rapporto di lavoro, anche se illegittima, è considerata come fisiologica, mentre nella pubblica amministrazione, poiché si gestisce denaro pubblico, ciò dovrebbe apparire come patologia. Quanto meno, occorrerebbe identificare con precisione gli elementi di dolo o colpa grave alla base della responsabilità del dirigente che licenzia illegittimamente, per evitare che il timore del danno erariale costituisca un deterrente ai licenziamenti. Che, infatti, nell’ambito del lavoro pubblico non sono certo molto frequenti. In ogni caso, al di là della possibilità di rivalersi contro i dirigenti responsabili per dolo o colpa grave di licenziamenti illegittimi, occorrerebbe stimare quanto peserebbe, sul piano finanziario, l’indennizzo a carico della pubblica amministrazione, laddove essa iniziasse a estendere i casi di risoluzione del rapporto di lavoro.
C’è, poi, la questione delle politiche successive al licenziamento, finalizzate al reimpiego. In effetti, per questo tema la questione dell’assunzione mediante concorso pubblico ha un certo peso. Gli schemi di decreti sul contratto a tutele crescenti sperimentano, ad esempio, il “contratto di ricollocazione” a favore del lavoratore licenziato illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo. La ricollocazione dovrebbe essere curata da un’agenzia per il lavoro. È chiaro che per un lavoratore pubblico la ricollocazione più immediata e diretta è all’interno di un’altra amministrazione. Scaduti i 24 mesi di disponibilità, entro i quali il lavoratore pubblico può ancora trasferirsi in un ente diverso da quello che lo ha mandato in esubero, si risolve il rapporto di lavoro. Dunque, il dipendente pubblico, illegittimamente licenziato, per rientrare nell’alveo della professionalità a lui più idonea, dovrebbe nuovamente sottoporsi a un concorso pubblico. Ergo, la ricollocazione nei suoi confronti avrebbe un’efficacia davvero molto bassa. E non mancherebbero paradossi, come quello di un dirigente pubblico licenziato per motivi economici che dovrebbe rientrare nella Pa solo mediante nuovo concorso, magari a un livello inferiore, mentre nel frattempo l’ente che lo ha licenziato assume dirigenti a contratto per via fiduciaria.
A ben vedere, allora, fermo restando che l’articolo 18 e le sue modificazioni si estendono al lavoro pubblico, un lavoro attento e non banale di armonizzazione occorre, per evitare possibili storture applicative. Oppure, se intenzione del governo è confermare la divaricazione tra lavoro pubblico e privato, sarebbe necessario prevedere espressamente la disapplicazione della riforma dell’articolo 18 intervenendo sull’articolo 52, comma 2, del testo unico sul lavoro pubblico.

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Buone notizie, non c’è la proroga degli sfratti

  1. Carmelo Marazia

    D’accordo sulla prima parte dell’articolo, ma perché dare per scontato che l’ unica prospettiva della rioccupazione per i lavoratori pubblici siano all’interno PA, e che non esistano competenze dei lavoratori pubblici “rivendibili” anche nel mercato privato? Il significato più profondo della riforma del mercato del lavoro è il passaggio dalla tutela “dal mercato” alla tutela “nel” mercato. Se facciamo valere questo per tutto il mercato del lavoro, forse affronteremo in maniera diversa i problemi di razionalizzazione della PA, rispetto a improbabili prepensionamenti o mobilità difficili da garantire sempre (anche perché i lavoratori non sono chiodi da infilare con il martello dovunque in qualche modo). E’ così che i servizi di outplacement hanno senso. Certo, ci sono due condizioni non semplici, una esterna e l’altra interna alle amministrazioni: a) le politiche attive devono funzionare veramente, e b) fare quello che molte aziende stanno facendo e le amministrazioni non si sognano minimamente: lavorare sull’occupabilità dei dipendenti, sull’employability

    • Mauro

      Perché non ci crede nessuno. A parità, per titolo e qualità, di formazione, due persone che intraprendessero esperienze lavorative una nel privato l’altra nel pubblico, dopo pochi anni avrebbero subito un percorso così diverso da non essere affatto intercambiabili. Figuriamoci dopo vent’anni!

  2. Carmelo Marazia

    Qualche altro sprovveduto che ci crede c’è: http://www.pietroichino.it/?p=28335. E conosco persino qualcuno che è passato dal lavoro pubblico a quello privato (!) sfruttando le competenze acquisite. Non capisco perché quei due poi devono essere intercambiabili.

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