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Quanto è davvero “verde” la musica social

Nel 2014, negli Stati Uniti, i servizi di musica streaming hanno registrato ricavi più alti rispetto a quelli ottenuti dalla vendita di cd. Questa rivoluzione è anche una vittoria dell’ambiente? Non proprio. La ricerca di un percorso sostenibile per l’industria musicale.
Gangnam Style (Psy, 2012)
[youtube height=”400″ width=”600″]https://www.youtube.com/watch?v=9bZkp7q19f0[/youtube]
 
“Non avremmo mai pensato che un video potesse essere guardato un numero di volte maggiore di un intero da 32 bit (2147483647 visualizzazioni, ndr), ma questo è stato prima di incontrare “Gangnam Style” di Psy – è stato visto così tante volte che siamo dovuti passare a interi a 64 bit!” (Youtube, dicembre 2014).
Bei tempi, allora, quelli in cui si cercava di infilare il lettore cd nelle tasche della giacca o dei pantaloni, gli stessi anni in cui si facevano le compilation sulle cassette registrando dalla radio?
Erano bei tempi soprattutto per chi, la musica, la vendeva: le “etichette” discografiche. Era il 2000, infatti, quando si registrava il picco di vendite in formato fisico: 730 milioni di cd solo negli Stati Uniti.
Intanto, Napster, la prima piattaforma di download digitale “pirata” (o in libera condivisione, a seconda dei punti di vista), era nata già da un anno.
The times they are a-changin’ (Bob Dylan, 1965)
[youtube height=”400″ width=”600″]https://www.youtube.com/watch?v=abGzxWuLQP8[/youtube]
 
Sono passati appena quindici anni da allora e l’accesso gratuito (e legale) in rete a contenuti musicali è esploso. Grazie ai servizi di streaming come Spotify, basta un comune cellulare “smart” per accedere a gran parte della musica esistente – ed è tutto gratis. Nel frattempo, i cd venduti sono meno del 20 per cento di quelli del picco del 2000. E nel 2014 negli Stati Uniti, per la prima volta, i servizi streaming hanno segnato ricavi maggiori rispetto alle vendite di cd (figura 1).
Righetto
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Revolution (The Beatles, 1968)
[youtube height=”400″ width=”600″]https://www.youtube.com/watch?v=gR9JMwzxybE[/youtube]
 
Per una volta, vince l’ambiente? Bando a tutte quelle tonnellate di plastica e carta da produrre, distribuire, riciclare. Molti identificano la transizione paradigmatica dal possesso dell’“oggetto” fisico (musicale o no) al semplice accesso a un servizio come una vera “rivoluzione verde”.
Forse, però, è semplicemente diventato meno intuitivo valutare gli impatti ambientali di qualcosa che non si può toccare con mano. Data center, server, router, laptop, smartphone: sono tutti il corrispettivo fisico di quel mondo immateriale col quale ci interfacciamo ogni giorno. Tutte cose che, ovviamente, hanno un costo economico e ambientale: dal punto di vista energetico, la rete è responsabile già di un decimo del consumo annuale globale. Per intenderci, si tratta del “conto” energetico di Germania e Giappone messi insieme.
The dark side of the moon (Pink Floyd, 1973)
[youtube height=”400″ width=”600″]https://www.youtube.com/watch?v=LmM1_BiuqXs[/youtube]
 
Siamo sicuri, quindi, che ascoltare un disco in streaming sia poi così coscienziosamente “verde” rispetto ad acquistare il cd? È la domanda che si è posto Dagfinn Bach – nomen omen – nel suo report “The Dark Side Of The Tune: The Hidden Energy Cost Of Digital Music Consumption”. E l’impressionante risultato del suo studio è che sarebbero sufficienti ventisette riproduzioni in streaming di dodici tracce per eguagliare il consumo energetico richiesto per la produzione e la spedizione di un cd. Il totale delle tracce passate in streaming nel 2014, secondo l’agenzia Nielsen Music, arriva a quota 164 miliardi: se i calcoli di Bach fossero corretti, in termini energetici sarebbe stato come produrre e consegnare un altro mezzo miliardo di cd in giro per gli Stati Uniti. Sommandoli a quelli effettivamente venduti, si ottiene la stessa cifra degli anni ruggenti del formato fisico: insomma, nessun vantaggio sostanziale dal punto di vista energetico.
È vero però che nel calcolo riportato da Bach non si tiene conto, per dirne una, della fonte da cui provengono le tracce in streaming. Su Spotify meno del 10 per cento viene scaricato dal server: più della metà (quelle che ascoltiamo più spesso) viene salvata nella propria memoria locale.
All the people, so many people (Blur, 1994)
[youtube height=”400″ width=”600″]https://www.youtube.com/watch?v=lITzhu8raBw[/youtube]
 
Anche queste confortanti osservazioni, però, potrebbero impallidire di fronte all’espansione esponenziale dell’accesso a Internet che ci si aspetta nei prossimi anni.
La compagnia di telecomunicazioni Ericsson stima che nel 2020 il 90 per cento degli adulti del pianeta avrà un dispositivo di telefonia mobile, e che una percentuale comparabile di questi saranno smartphone. Il consumo di dati mensile pro capite dovrebbe passare dai 900 MB attuali a 3 GB: the dark side of the tune potrebbe oscurare irreparabilmente la parte luminosa, sul profilo ambientale, rendendo semplicemente palliative le misure per l’incremento dell’efficienza energetica della rete. D’altronde, è davvero possibile tornare in qualche modo al vecchio cd, come suggerisce Bach?
Un dato poco conosciuto è che l’offerta musicale, in questi anni di passaggio dal fisico al digitale, è aumentata in modo vertiginoso: nel 2008 il numero di album pubblicato negli Stati Uniti era triplicato rispetto al 2003. Oggi ognuno è libero di far conoscere la propria musica senza il filtro delle etichette, i musicisti indipendenti negli Stati Uniti sono quintuplicati tra il 2003 e il 2012 e un caso come quello di Sixto “Sugar Man” Rodriguez non sarebbe più possibile. Anche le accuse a Spotify di pagare troppo poco gli artisti – sostenute pure da personaggi autorevoli come Thom Yorke dei Radiohead – sono state da poco sconfessate: sono le etichette che trattengono circa il 46 per cento dei ricavi del servizio, lasciando agli artisti un misero 7 per cento.
A complicare la situazione, nel nuovo contesto tecnologico, è l’ulteriore polarizzazione della distribuzione dei ricavi tra gli artisti: è sufficiente il 12 per cento dei 30 milioni di canzoni che compongono il catalogo Spotify per totalizzare l’89 per cento degli ascolti. Il risultato netto è che l’1 per cento degli artisti riceve il 77 per cento dei guadagni complessivi: oltre questa piccola frazione di “superstar” la distribuzione si fa sempre più piatta, e povera.
Anche in contesto musicale, dunque, la trasformazione tecnologica stimola tutte le dimensioni della sostenibilità. non solo quella ambientale, ma anche quella economica e sociale. A meno di rinunciare a conquiste socialmente fondamentali di libero accesso e distribuzione della musica (e quindi dell’arte e della cultura), è impossibile tornare indietro. Disegnare un percorso sostenibile per l’industria musicale è operazione complessa, ma quanto mai affascinante: il futuro della musica è un po’ anche il nostro.
Questo articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it
 

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Briciole (di Irpef) ai partiti

  1. Andy Mc Tredo

    Articolo molto interessante per l’argomento e le notizie riportate… Solo che ad un certo punto si sommano le mele con le pere… Se è vero che comunque i telefonini e gli altri mezzi moderni di riproduzione audio-video ha comunque una non indifferente impatto ambientale non è che un CD ( o una cassetta ) suoni da solo: anche gli ormai classici Hi-Fi ( o i ” radioni” ) o le autoradio anni ’80 hanno bisogno di energia per funzionare e se è vero che quest’ultime avevano una vita media paragonabile ai nostri i-phone/i-pad il mio stereo del ’92 non l’ho ancora cambiato!

    • Sìsì senz’altro il report di Bach è questionabile per molti motivi; noi abbiamo scelto di evidenziarne uno per specificarlo ma rimane ovviamente il punto di fondo, che è la cosa che ci interessava più del dato quantitativo.

  2. Roberto

    Dire che lo streaming musicale abbia un forte impatto ambientale utilizzando come misura l’impatto ambientale del mezzo di riproduzione scelto ha molto poco senso. Avrebbe senso se gli smartphone fossero acquistati SOLO per riprodurre musica, mentre questi sono acquistati a prescindere, semmai la loro capacità di riprodurre musica può essere un fattore aggiuntivo ma marginalmente, ormai, poco rilevante.
    Quel ragionamento poteva essere vero nel periodi di boom dei lettori mp3, che ormai stanno sparendo (basti pensare che apple non produrrà più non ricordo quale degli iPod).
    Giusto invece calcolare l’impatto ambientale dei server dedicati, e anche l’impatto ambientale della nuova produzione musicale che non si sarebbe avuta senza la nuova facilità di diffusione della musica.
    Comunque un articolo interessante, grazie.

    • Lorenzo Righetto

      Certo lei ha colto il fatto che il problema in realtà riguarda il consumo di internet in generale. La musica offre un lato interessante e utile a fare rozze quantificazioni e confronti. Soprattutto i secondi forse sarebbero più complicati. Ovviamente per fare un confronto credibile bisogna prendere in considerazione soltanto la frazione di energia che è utilizzata per distribuire la musica, ma non era nostra intenzione suggerire qualcosa di diverso.

    • Lorenzo Righetto

      Grazie a lei per il riscontro. Certo noi abbiamo voluto un po’ uscire dal pretesto musicale, che è utile per fare confronti e rendere il tutto più digeribile, ma non nasconde il fatto che la questione è il consumo di internet in generale. Questo non vuol dire però che anche in un’analisi parziale non debbano essere considerati dispositivi utilizzati anche solo parzialmente per la distribuzione o l’immagazzinamento di file musicali.

  3. Emanuele

    Articolo molto bello, interessante e innovativo.
    Complimenti agli autori!

  4. Luca D'Auria

    Secondo me, c’e’ anche un ulteriore aspetto che andrebbe considerato ed e’ l’energia necessaria per smaltire i residui generati dalla produzione di cd, cassette, etc cosí come il riciclaggio degli stessi. Se si considerasse questo aspetto, “l’elettronico” guadagnerebbe molti punti sul “fisico”.

  5. Michele

    Articoli come questi sono davvero inconcepibili per me.
    Non si può trattare un tema come questo, potenzialmente interessante e di larghe vedute, in maniera superficiale come è stato fatto sia dagli autori del paper, sia dagli autori dell’articolo qui su Lavoce.info
    Le osservazioni principali sono state già scritte dagli altri lettori, alcune meritano di essere ribadite :
    I cellulari, tablet e così via, non si acquistano solo per ascoltare musica, ma anche per fare mille cose. Per cui l’energia consumata e che consuma nel suo ciclo di vita un tale dispositivo deve essere sottratta dal mancato utilizzo di energia per realizzare lettori cd, dvd, musicassette, and so on, ma anche libri, ma anche organizer e così via. Senza considerare che i vecchi dispositivi consumano ognuno di per se, ed in alcuni casi anche quantitativi di energia superiore.
    Il riciclo di tutto quello che prima veniva prodotto e adesso è condensato in un unico dispositivo.
    Ciò che sarebbe da analizzare in dettaglio, ma nella sua totalità, anche considerando variabili dipendenti ed indipendenti, è capire quanto consumano i server, quanto consumano i client, se vi è stato una riduzione di tali valori (in termini relativi non assoluti), l’incidenza di ogni fattore.. Un’analisi quantitativa e qualitativa, non solo delle opinioni assolutamente poco utili, perchè private del contesto, parziale, di riferimento.

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