Gli interventi sulla privatizzazione di Ferrovie dello Stato ospitati da lavoce.info ricordano che esistono almeno due opposte scuole di pensiero su come procedere: cedere una quota di minoranza, per il resto lasciando tutto come è; oppure “tagliare a fette l’elefante” vendendo gradualmente quello che è appetibile al mercato, ma facendo rimanere in mano interamente pubblica l’infrastruttura, così da assicurarne la piena neutralità. Condivido la preferenza per la seconda opzione.
Due scuole di pensiero sulla privatizzazione
Per apparente semplicità e urgenti ragioni di cassa la soluzione scelta dal governo è tuttavia la prima e non sembra reversibile. Tanto vale farsene una ragione e cercare di ottimizzarla. Del resto la quotazione potrebbe essere un passo avanti sia nella governance si nella capacità di autofinanziamento, e l’occasione per fare trasparenza sulle relazioni finanziarie fra Stato e azienda. L’importante è fare le cose necessarie prima, perché tutto sarebbe più difficile dopo.
Paolo Beria e Andrea Boitani sottolineano l’anomalia di una società (Rfi) concessionaria di asset di cui è proprietaria. E l’impossibilità di trovare investitori pronti a sborsare somme proporzionate a un valore patrimoniale enorme, fatto di beni indisponibili e con un rendimento ridicolo. Aggiungo che se l’operazione avvenisse a prezzi di collocamento che riflettono il solo cash flow (unica realistica possibilità), la sproporzione rispetto al valore degli asset potrebbe aprire la strada a contenziosi per aiuti di Stato.
La “terza via”
Si potrebbe però da esplorare una terza via che parte dalla presa d’atto che la proprietà di Rfi dell’infrastruttura ferroviaria è puramente nominale e che consiste nell’adeguare la concessione agli standard delle normali concessioni infrastrutturali, dove alla scadenza i beni essenziali (o non asportabili) sono devoluti al concedente: è quanto prevedono le concessioni autostradali e aeroportuali, per esempio. La devoluzione sarà a titolo gratuito per le infrastrutture finanziate (o finanziande) con fondi pubblici e per quelle “d’ora in poi” autofinanziate ma ammortizzate a fine concessione. Per le altre andrà previsto un riscatto pari al valore residuo rivalutato.
Problemi risolti da un board indipendente
Vi sono però vari problemi. Uno sta nel meccanismo di determinazione del pedaggio, che per norma esclude gli oneri di ammortamento degli investimenti. Fino al 2006 gli investimenti erano finanziati con aumenti di capitale e andavano contabilizzati fra i costi senza però poter essere portati a ricavi, con conseguente squilibrio strutturale del conto economico: di qui, inizialmente, la costituzione di un fondo per sterilizzare l’impatto degli ammortamenti e, successivamente, la sostituzione degli aumenti di capitale con contributi a fondo perduto non ammortizzabili. Gli ammortamenti sugli investimenti che verranno in futuro realizzati a carico della società dovranno presumibilmente trovare contropartita nei pedaggi; non so quanto questo potrà incidere sulla loro sostenibilità per gli utenti.
Il secondo problema, giustamente posto da Beria e Boitani, è che, con lo scorporo della rete, Rfi perderebbe la capacità di autofinanziarsi: suppongo che intendano la possibilità di offrire garanzie reali ai creditori. In realtà, non vedo quali garanzie (ipoteche?) si possano dare a valere su asset doppiamente indisponibili: non cedibili (non vi è valore di mercato) e nemmeno, credo, pignorabili, data la natura di pubblico servizio. È comunque un problema comune a tutti i concessionari di infrastrutture: di qui la richiesta di “bancabilità” dei contratti di programma, ossia del cash flow, e di proroghe di durata. Al di là di come viene spesso richiesta ed esaudita con larghezza, una sana bancabilità consiste nella certezza della regolazione e in un’equilibrata allocazione dei rischi. Evitando al tempo stesso che derivi da benefici non socializzati del mantenimento dell’integrazione verticale, se le economie di scala e di scopo vanno a prevalente vantaggio dell’operatore ferroviario interno. Anche sotto questo profilo, la privatizzazione andrebbe preceduta da verifiche sulla correttezza oggi dell’allocazione dei costi e degli asset fra Rfi e Trenitalia e dall’attuazione della separazione societaria di quest’ultima fra servizi di mercato e servizi in esclusiva, imposta dall’articolo 8 della legge 287/2000.
La palla torna dunque alla regolazione e alla terzietà del gestore rispetto ai giocatori. Non penso che l’unbundling proprietario sia l’unica via; del resto la sua finalità è chimera: basta guardare ai balletti delle partecipazioni in Enel, Eni, Terna, Snam, che vanno e vengono dal ministero dell’Economia alla Cassa depositi e prestiti e viceversa, nell’illusione di eliminare conflitti di interesse che solo privatizzazioni totali potrebbero permettere, chissà quando.
Alternativa più semplice e meno costosa sarebbe l’attribuzione a un board indipendente dei compiti di allocazione della capacità e di determinazione del pedaggio (le funzioni sensibili indicate dalla direttiva “recast” 2012/34/UE, non ancora recepita in Italia). Il board dovrebbe essere composto in maggioranza da membri nominati dall’Autorità di regolazione dei trasporti alla quale rispondono. Un modello di separazione funzionale più “attivo” di quelli istituiti per le comunicazioni elettroniche in Italia e nel Regno Unito, le cui funzioni sono essenzialmente di vigilanza.
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