La più grande banca italiana ha scelto di passare da un sistema di governance di tipo duale a uno di tipo monistico. Ma i pregi di quest’ultimo sono forse sopravvalutati, esaltati da una cattiva applicazione del duale nel nostro paese. Confusione di ruoli e interessi dell’impresa e degli azionisti.
I diversi modelli di governance
Nel mondo moderno, con lo Stato in ritirata su tanti fronti, il motore dello sviluppo è l’impresa. Sorprende perciò la disattenzione verso una fondamentale domanda: chi, e a quale fine, la governa? Così la corporate governance si perde nei riti sacerdotali della compliance.
È importante riflettere sulla decisione della più grande banca italiana, Intesa San Paolo, di passare dal governo duale, con un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza, al “monistico” basato sul solo consiglio di amministrazione.
La decisione, salutata in generale con favore, apre la via a un sistema quasi sconosciuto da noi, ma comune nel mondo anglosassone, che ignora sia il duale, sia l’assetto “tradizionale”, con consiglio di amministrazione e collegio sindacale.
I limiti di quest’ultimo sono evidenti, specie nelle grandi banche, ove a decidere è un organo (cda o comitato esecutivo) spesso privo di elementi essenziali alla decisione: messo di fronte alle proposte del management, ignora le alternative davvero disponibili e conosce gli elementi di criticità della decisione solo se il management li illustra con chiarezza. Tale neo del “tradizionale” è il vero punto di forza del duale, che però fu scelto prima da Intesa, poi da Banco Popolare e altri, soprattutto per l’ampio numero di “poltrone”, comode nei negoziati di fusione. E difatti tali banche l’attuarono in modo distorto, sfruttando gli equivoci della riforma delle società per azioni del 2003.
Un sistema applicato male
Nel consiglio di gestione dovrebbero stare i gestori, in quello di sorveglianza i sorveglianti; invece da noi nell’organo di gestione siedono anche rappresentanti dei soci “travestiti” da gestori, mentre in quello di sorveglianza molti nutrono ambizioni gestorie.
Il monistico fa a meno del collegio sindacale (cui il consiglio di sorveglianza del nostro duale troppo s’ispira) e affida i controlli a uno speciale comitato del cda, simile al comitato controllo e rischi del consiglio di amministrazione “tradizionale”.
Per i suoi sostenitori, il monistico ha due grandi pregi:

  • semplifica i molti livelli di controllo del sistema tradizionale, pesante eppure oscuro e fonte di equivoci nel definire fra questi le responsabilità;
  • sottopone le decisioni a immediata verifica nell’organo stesso, mentre il collegio sindacale interviene solo ex post.
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Quanto al secondo argomento, il sindaco non agisce solo ex post, molte decisioni richiedono il suo contestuale avvallo. Quanto al primo, il sistema dei controlli va semplificato comunque; non è necessario stravolgere l’assetto di governo, per di più senza risolvere il problema della scarsa informazione dell’organo decisorio. Il monistico ha sì un livello di controlli in meno, ma può causare, per altri motivi, identici problemi di scarsa chiarezza dei ruoli. Il comitato del monistico sarà in conflitto fra i due ruoli, di decisore e di controllore della decisione, finendo per generare una categoria di amministratori “più uguali degli altri”, con poteri ben maggiori del resto del cda.
La critica tocca, in parte, anche il comitato controllo e rischi “tradizionale”, ma è più calzante per il monistico, ove il peso del comitato di controllo sarà maggiore, anche per l’assenza dei sindaci.
Il monistico è meglio del duale, ma solo perché abbiamo applicato male il secondo. Se grandi paesi vicini, come Francia e Germania, l’hanno adottato, sia pur con motivazioni e storie diverse (come la partecipazione dei lavoratori al consiglio di sorveglianza), forse non merita il cestino. Secondo alcuni sostenitori, il monistico per funzionare richiede persone di altissimo livello e competenza, ma con tali persone funziona qualunque sistema.
La nostra bella lingua è violata con disinvoltura. La confusione dei ruoli, mostra Federico Fellini nel suo “Prova d’orchestra”, è letale; difatti condanna il povero duale, innocente. Un consiglio di gestione fatto solo dai massimi dirigenti (non sarà che fra questi mancavano donne, in numero bastante a rispettare la legge sulle quote di genere?) deciderebbe in dialettica aperta e con piena conoscenza dei fatti, affermando in concreto un concetto: le grandi imprese non vanno gestite da titanici, quindi ovviamente superpagati, chief executive officer, ma da una squadra coesa di persone. Cosa che nel “vero” duale si esprime al meglio.
Può essere che il monistico sia stato favorito dalla (comprensibile) tentazione del ceo di Intesa San Paolo a divenirne leader incontrastato, sfruttando la preferenza dei grandi investitori esteri – cui fa ormai capo oltre il 60 per cento della banca – per un sistema loro ben noto e la diffidenza verso il duale, così come attuato.
Ogni grande impresa, e anche Intesa, deve vivere di vita propria, il che non sempre coincide con l’interesse dei suoi azionisti, che l’affidano perciò al management, un tutore che deve fare gli interessi di un minore impossibilitato a decidere in proprio. Il vero test sulla validità della scelta di Intesa San Paolo sarà questo: il monistico risulterà, più del vero duale, atto a realizzare tale canone?
 
 

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