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Industria, pochi su mille ce la fanno

A novembre c’è stata una battuta d’arresto della lenta ripresa italiana. I dati sulla produzione industriale rivelano però che alcuni settori sono in netto rilancio. E altri, durante la crisi, si sono rafforzati. La stagnazione nella produzione dei beni di consumo e il boom delle importazioni.

Il confronto 2008-2015

Nel mese di novembre è arrivata una battuta d’arresto per la già lenta ripresa dell’industria italiana. I dati Istat sulla produzione industriale contengono però anche un’altra importante verità di cui è giusto parlare: ci sono settori dell’economia italiana che sono in netta ripresa. E ce ne sono altri che, durante la crisi, hanno rafforzato la loro produzione entro i confini italiani. Un segno che qualcuno che esce dalla crisi più forte di prima c’è. Sono per ora troppo pochi per trascinare il resto dell’industria e dell’economia sulle loro spalle, per quanto robuste.

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Per cominciare, nessuno dei grandi settori industriali produce nel 2015 quanto produceva negli stessi mesi del 2008. Va però detto che qualche settore ha già imboccato più decisamente la strada della ripresa. Come mostra il grafico lungo l’asse orizzontale, l’industria nel suo complesso ha fatto registrare nel gennaio-novembre 2015 un livello di produzione pari a 75,5, cioè poco meno di un quarto in meno rispetto agli stessi mesi del 2008. Durante la crisi, nettamente meglio della media hanno fatto i beni di consumo non durevole (i prodotti che vanno nei supermercati, nei discount e nei piccoli negozi) dove però – dice il grafico – non arriva la ripresa.
Sempre rispetto al 2008 un po’ meglio della media dell’industria sono risultate le produzioni di beni strumentali (ad esempio, i furgoni e le macchine per l’imballaggio acquistati dalle imprese) e dei prodotti energetici, con perdite di produzione pari a “soli” 23,9 e 22,4 punti percentuali. In questi settori però la ripresa della produzione 2015 c’è, con crescite del 3,7 e 2,3 per cento di molto migliori del +0,9 osservato per l’industria nel suo complesso.
Ma la vera crisi dell’industria italiana di questi anni si misura nella mancata produzione dei beni di consumo durevole (ad esempio, di elettrodomestici o di caldaie) e dei prodotti intermedi, cioè del cosiddetto indotto che una volta diffondeva la crescita delle grandi imprese esportatrici anche sul territorio. Rispetto al 2008 produttori di beni durevoli e di prodotti intermedi hanno perso rispettivamente 35,7 e 30,7 punti percentuali. Dato che spesso piove sul bagnato, proprio in questi settori (che ne avrebbero bisogno come il pane) la ripresa 2015 tarda ad arrivare e la produzione industriale dei primi undici mesi di quest’anno ha finito per cedere un altro punto percentuale.

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Le punte di diamante

Ma anche se un quarto della produzione industriale è scomparsa e se nessuno dei grandi settori industriali è sfuggito a un certo ridimensionamento, un’analisi più dettagliata svela che anche nell’Italia della grande recessione e della crisi dell’euro ci sono settori che producono nel 2015 più di quanto producessero nel 2008. La produzione di prodotti farmaceutici fa segnare 109,6 (105 nella produzione di farmaceutici di base e 110 in quella di preparati farmaceutici). Lo stesso, ad esempio, vale per la produzione di articoli sportivi (+13,4 per cento) e per l’oreficeria (+7 per cento).
Alle volte, tra l’altro, destini molto diversi si manifestano per produttori di beni che gli istituti statistici classificano come simili: nell’elettronica, ad esempio, gli smartphone li fanno la Apple, la Samsung e la Huawei e così la produzione italiana di computer e attrezzature per le telecomunicazioni segna il passo (-17 per cento) così come quella di motori e generatori elettrici (che hanno perso un terzo della produzione). Ma la produzione di strumenti e apparecchi di misurazione, prova e navigazione (altri prodotti high-tech su cui c’è una forte tradizione italiana) mostra un lusinghiero +19,3 rispetto ai dati 2008. E anche tra i produttori di apparecchiature elettriche si vede un +13,4 per cento per la fabbricazione di pile per batterie e accumulatori elettrici. E in questi settori – alcuni high-tech, altri no – si manifestano segni di ripresa con crescite del 3-4 per cento della produzione 2015 rispetto al 2014. Con numeri da capogiro per la crescita 2015 del settore automobilistico: +46 per cento per la produzione di autoveicoli, +16 per cento per quella di carrozzerie e +11 per cento per la componentistica. Numeri da capogiro che – ricordiamolo – si applicano però a capacità produttive quasi dimezzate negli anni precedenti.
Nel complesso, la lenta ripresa dell’industria (in particolare la stagnazione nella produzione dei beni di consumo che nel grafico mostra un meno 16 per cento rispetto al 2008, ma una crescita zero nel 2015) appaiono in contrasto con la ripresa dei consumi vista nei dati aggregati. Gli 80 euro e le altre misure del governo sono riuscite a rafforzare la fiducia, ma per ora non hanno avuto lo stesso successo nel ridare fiato alle imprese per riprendere a crescere nella competizione globale. A questo è legato lo strano boom delle importazioni che ha per ora caratterizzato i primi trimestri di ripresa. Ma è sul ritorno a numeri positivi di una parte ben più consistente dell’industria che si misurerà il vero successo delle politiche di questi anni.

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  1. marcello

    Allora riassumendo gli 80 euro e il sostegno indiretto agli investitori (sgravi contributivi sul lavoro e incentivi fscali vari delle ultime due Leggi di Stabilità) hanno fatto galleggiare la domanda, in particolare beni consumo non durevoli e auto. La deflazione interna e le politiche pro-cicliche dell’austerità espansiva di cui nessuno più parla, ma che hanno avuto tranti, troppi, fautori, hanno fatto perdere all’Italia il 29% di produzione mentre la crescita dei paesi emergenti è svanita come pure l’obiettivo dell’aumento delle esportazioni con cui riattivare il ciclo economico. L’infalzione è allo 0,1% e le aspettative sono fortemenete deflattive tanto che nel 2015 gli investimenti sono ancora inferiori del 20% a quelli del 2008. Non è che aveva ragione Keynes e con lui tutti quelli che chiedevano investimenti pubblici massicci, anche in deficit, per riaviare la cerscita? Non è che il moltiplicatore fiscale potrebbe lavorare meglio e quindi, mentre riattiva la domanda interna, consentire anche di ridurre quel debito che grazie alle manovre restrittive è cresciuto del 36% del PIL? Non è che finalmente il Governo ha rotto gli indugi e convocato gli Stati Generali dell’Industria per avviare un massiccio piano di investimenti strutturali nei settori riconosciuti come strategici? Non è che finalmente siamo alla resa dei conti con Bruxelles e che questo Governo ha il merito di aver posto la questione della sopravvivenza del paese tra l’elite economica del mondo?

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